Come si scriveva ai tempi di Paolo, di Gianfranco Ravasi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 12 /06 /2010 - 15:32 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal volume Sulle orme di Paolo, III, pp. 86-91, allegato alla rivista “Jesus”2009, un articolo di Gianfranco Ravasi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

Il Centro culturale Gli scritti (12/6/2010)

Ora leggiamo le Lettere di Paolo tradotte e stampate nelle varie lingue. Ma vediamo come nascevano in originale, scritte a mano in lingua greca su fogli di papiro, più di venti secoli fa.

Nel 1933 veniva pubblicata un'opera molto dettagliata di un autore tedesco, O. Roller, sul Formulario delle lettere paoline, in cui lo studioso affrontava per la prima volta in maniera sistematica la questione: come materialmente venivano stesi gli scritti paolini?

Era un'operazione molto più complessa di quanto si possa oggi immaginare. Secondo Roller, Paolo avrebbe dettato a uno scrivano (il librarius latino) alcune lettere: precisamente, la seconda ai Tessalonicesi, la prima ai Corinzi, quella ai Galati, il biglietto a Filemone e l'ultima parte della Lettera ai Colossesi; a questi scritti egli avrebbe poi apposto la firma autografa, per autenticarli.
E gli autografi sono: "Il saluto è di mia mano, di Paolo» (1Corinzi 16,21); «Il saluto è di mia propria mano, di me, Paolo" (Colossesi 4,18); «Questo saluto è di mia mano, di Paolo; ciò serve come segno di autenticazione per ogni lettera; io scrivo così» (2Tessalonicesi 3,17). Il biglietto a Filemone è stato scritto probabilmente tutto da Paolo ("di mio pugno», leggiamo al versetto 19), mentre nella Lettera ai Galati troviamo questa curiosa annotazione: "Osservate con che grossi caratteri vi scrivo di mio pugno» (6,11). [...]
Per le altre lettere, invece, Roller introduceva un'ipotesi piuttosto azzardata, dicendo in sostanza: esse non sono state scritte né dettate da Paolo, il quale ne abbozzava l'argomento, la struttura e le idee fondamentali, affidandone poi la stesura effettiva a un segretario, lo scriba vero e proprio, un uomo libero, preparato, spesso assunto anche come funzionario statale, archivista, contabile, eccetera. (Negli Atti si ricorda l'opera mediatrice di uno di questi scribi, durante il tumulto degli argentieri contro Paolo a Efeso). Lo scriba, dunque, sempre secondo Roller. sviluppava il testo creando una composizione completa, che poi veniva sottoposta al giudizio e alla firma di Paolo. Uno di questi segretari usati dall'Apostolo emerge dall'anonimato nella Lettera ai Romani (16,22) annotando: «Io, Terzo, che ho scritto la lettera vi saluto nel Signore».
Questa tesi dello studioso tedesco, tuttavia, fu rifiutata dalla maggior parte degli altri studiosi paolini, i quali ancora oggi sostengono che le lettere venivano dettate da Paolo e munite poi del suo avallo autografo finale; forse si potrebbe ammettere l'intervento di uno scriba-segretario per il gruppo di lettere dette "pastorali", sensibilmente diverse per stile e impostazione ideologica dalle altre. (Inoltre, […] per questo gruppo di lettere si pensa anche all’opera di discepoli dell'Apostolo, di una "scuola" paolina che le avrebbe redatte, avvalorandole con il suo nome).
Dettatura, dunque. E qui bisogna tener presente che a quel tempo erano già noti e praticati sistemi di scrittura veloce, di stenografia. Orazio, per esempio, ci riferisce che Lucilio riusciva a dettare in una sola ora ben duecento versi, mentre Cicerone (secondo Plutarco) in una notte ne dettava cinquecento. E la bravura, evidentemente, era di chi scriveva con quei ritmi.

Il materiale sul quale normalmente si scriveva era il papiro
, ricavato dall'omonima pianta, importato soprattutto dall' Egitto. Il nome, come si sa, è restato fino ai nostri giorni per indicare la carta nell'inglese paper, nel tedesco papier e nel francese papier. Il foglio o rotolo di papiro aveva la forma standard di 11 metri di lunghezza per 3 di altezza e veniva più volte piegato, tagliato e arrotolato infine attorno a un'asta dalla quale veniva "svolto" per la scrittura e la lettura. L’asta era chiamata "capitolo" e ad essa probabilmente allude Paolo nella Lettera agli Efesini, quando parla del «disegno di Dio di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (1,10). Nell'antico Egitto, però, si usavano fogli di papiro lunghi sino a 42 metri e alti 5.

La preparazione del papiro avveniva asportando la corteccia dell'albero omonimo e tagliando a strisce il midollo
. Le strisce venivano disposte in file leggermente sovrapposte l'una sull’altra, così da congiungersi reciprocamente, mentre un altro strato di strisce veniva disteso sul primo, ma in file orizzontali. Il foglio risultante veniva battuto e compresso: seccato e amalgamato, era pronto per l'uso.

Tra i papiri antichi giunti fino a noi celebre è quello cosiddetto "di Ryland", scoperto nell'oasi egiziana del Fayyum: contiene i versetti 31-38, dal capitolo 18 del quarto Vangelo, quello di Giovanni, ed è databile attorno al 125-150. Com'è ovvio, si tratta di un documento prezioso per la ricostruzione di quel testo evangelico.

Il papiro - materiale economico e perciò di largo uso - era scritto solo su una facciata, non su tutt'e due
. (Nell’Apocalisse, all'inizio del capitolo 5, si parla di «un rotolo scritto sul lato interno e su quello esterno», proprio per indicare il carattere eccezionale di quel documento). I testi erano redatti in colonne rigorosamente allineate, con una scrittura che attorno al III secolo dopo Cristo si differenzierà in letteraria-maiuscola (più raffinata) e corsiva.
Nel II secolo a.C. l’Egitto mise l'embargo sulle esportazioni di papiro; allora - stando almeno alle informazioni di Plinio il Vecchio - il re Eumene II di Pergamo (197-159 a.C.) inventò quella che sarebbe divenuta poi la pergamena. Questo era un materiale assai più resistente del papiro, ma anche più costoso. (La più antica pergamena è stata trovata a Dura-Europos sull'Eufrate ed è del II secolo a.C.).

Materia prima della pergamena
è la pelle di pecora. Essa veniva innanzitutto lavata, privata dei peli, immersa nella calce, tesa poi su un telaio, raschiata, inumidita, strofinata con calce in polvere e lisciata con pomice. Alla fine di questa complessa e lunga preparazione era pronta per l'uso.

La pergamena teneva l'inchiostro e aveva un altro vantaggio: era possibile cancellarvi un testo raschiandolo via e scriverne un altro
; i fogli di pergamena cancellati e riscritti si chiamarono "palinsesti", che vuoi dire appunto "raschiato di nuovo".
Nelle grotte di Qumran si sono trovati testi scritti anche su cuoio. Paolo, oltre al papiro (il cui uso però durerà fino al IV secolo d.C.), conosceva anche la pergamena, come attesta la seconda Lettera a Timoteo, a cui l'Apostolo chiede di «portargli da Troade i libri e soprattutto le pergamene» (4,13).
A partire dal II secolo d.C. avvenne una grande svolta nella tecnica editoriale, con l'invenzione del codex, il libro moderno che ben presto soppiantò il rotolo. Secondo alcuni studiosi, gli inventori del codice sarebbero stati proprio i cristiani, perché ci sono giunti quasi esclusivamente codici cristiani contenenti la Bibbia in greco (pensiamo ai preziosi codici Vaticano, Sinaitico e Alessandrino del IV secolo d.C.). Il codice non era più un rotolo, ma un vero e proprio fascicolo, fatto con fogli di papiro o di pergamena scritti su entrambe le facciate, alti solitamente 35 centimetri e larghi 25, ottenuti piegando più volte i rotoli.

Sul papiro e sulla pergamena si scriveva con
il calamo (un termine greco che signifìca "canna") ricordato anche dalla terza Lettera di Giovanni: «Molte cose avrei da scrivervi, ma non voglio farlo con inchiostro e penna» (v. 13). Si trattava di una cannuccia tagliata obliquamente all'estremità, così da formare una punta destinata a trattenere e a far affluire progressivamente l'inchiostro. Ogni scriba portava con sé varie penne e un temperino per aguzzarle (leggiamo in Geremia 36,23: «Ora, quando Iudi aveva letto tre o quattro colonne, il re le lacerava col temperino da scriba e le gettava nel fuoco»). 

L’inchiostro (in greco
melan, cioè "nero"; in latino encaustum, "bruciato") era noto in Egitto fin dalla prima dinastia (2850 a.c.) e anticamente lo si ricavava dal combusto, sciogliendone la fuliggine in una soluzione di colla. Infatti Plinio il Vecchio, nella sua Storia naturale, ricorda che i Romani usavano un liquido per scrivere, prodotto anche in colori diversi, realizzati soprattutto con elementi vegetali; il rosso però si otteneva dal cinabro, un minerale di mercurio. E già nel III secolo a.C. Filone di Bisanzio parlava dell'inchiostro simpatico, cioè incolore, a base di un estratto di noci di Galla.

Lo scrittoio spesso poteva essere una tavoletta portatile legata alla cintura. Su di esso si ponevano i calamai. Sugli scrittoi del "monastero" giudaico di Qumran - usati per copiare i manoscritti biblici salvati poi dalla distruzione romana nelle grotte circostanti - sono stati trovati calamai che contenevano ancora fondi secchi di inchiostro. Paolo, proprio partendo dal simbolo di una lettera scritta con inchiostro, stende nella 2Corinzi (3,2-3) uno splendido elogio.


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