I 2 nuovi Nobel per la pace: la yazida Nadia Murad e il ginecologo Denis Mukwege 1/ Diritti. La yazida Nadia Murad: «La mia battaglia contro il Daesh», di Chiara Zappa 2/ La storia di Denis Mukwege. Il medico coraggioso che cura le donne vittime di stupri, di Anna Pozzi
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1/ Diritti. La yazida Nadia Murad: «La mia battaglia contro il Daesh», di Chiara Zappa
Riprendiamo da Avvenire del 28/12/2017 un articolo di Chiara Zappa. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione La libertà religiosa e la persecuzione delle minoranze.
Il Centro culturale Gli scritti (7/10/2018)
Nadia Murad durante il suo intervento al
Consiglio di Sicurezza dell’Onu sul genocidio
degli yazidi, dicembre 2015 (Reuters)
«Sogno che un giorno tutti i militanti risponderanno dei loro crimini, non solo i capi come Abu Bakr al-Baghdadi, ma tutte le guardie e i proprietari di schiave, ogni uomo che abbia premuto un grilletto e spinto i corpi dei miei fratelli nelle fosse comuni, ogni combattente che abbia tentato di fare il lavaggio del cervello ai ragazzini inducendoli a odiare le loro madri per il fatto che erano yazide, ogni iracheno che abbia accolto i terroristi nella propria città e li abbia aiutati, pensando tra sé: “Finalmente possiamo sbarazzarci di quei miscredenti”. Dovrebbero andare tutti a processo di fronte al mondo intero».
Fino a pochi anni fa, il sogno di Nadia Murad era finire gli studi e aprire un salone da parrucchiera nel suo villaggio, nel nord iracheno, dove avrebbe acconciato sontuosamente le spose nel loro giorno più speciale. Ora, dopo essere stata strappata dalla sua vita semplice e serena e aver conosciuto la violenza inumana nascosta dietro al fondamentalismo religioso, vuole solo giustizia.
Perché Nadia, ventiquattro anni, viso pulito che ha conservato, nonostante tutto, qualcosa dell’innocenza dei bambini, ha avuto la sorte terribile di sperimentare sulla sua pelle la folle barbarie del califfato nero, quando nell’estate del 2014 i militanti del sedicente Stato islamico, che stavano allargando la propria presenza in Siria e nella regione settentrionale dell’Iraq, spuntarono con il loro minaccioso convoglio di camion all’orizzonte del villaggio di Kocho. Quando Nadia e i suoi fratelli li scorsero a distanza, capirono subito che la loro vita sarebbe stata sconvolta per sempre.
Kocho, non lontano dal monte Sinjar, faceva parte di quell’area del Paese abitata da 400 mila yazidi, un antico popolo che ripone la sua identità in una religione non legata all’islam, conservata intatta per molti secoli nonostante la diffidenza del mare musulmano che la circondava.
La devozione a Tawusi Melek, l’angelo pavone che per gli yazidi è il più importante messaggero tra l’umanità e il Dio unico, è valsa a questa gente l’infamante (quanto infondata) nomea di «adoratori del diavolo», all’origine di discriminazioni e ripetuti genocidi: esattamente 73, secondo i racconti tramandati di padre in figlio, disseminati in una storia lunghissima e travagliata. Che ora, nell’Iraq preda di rinnovate divisioni etniche e religiose, minacciava di ripetersi per l’ennesima volta.
«Nelle comunità sunnite si andò diffondendo l’odio nei nostri confronti. Forse era sempre stato lì, appena sotto la superficie. Adesso era uscito alla luce del sole e dilagava in fretta», ricorda Nadia. Il nome e il volto di questa giovane donna che mai avrebbe immaginato di lasciare l’Iraq oggi sono noti in tutto il mondo, perché Murad fa parte delle pochissime, tra le settemila ragazze e perfino bambine yazide rapite e ridotte a sabaya, schiave sessuali del Daesh, che una volta riuscita a fuggire ha deciso di diventare una testimone della catastrofe abbattutasi sul suo popolo.
Ha parlato pubblicamente non solo dei suoi sei fratelli e della mamma massacrati dai macellai del Daesh ma anche delle torture e degli stupri sistematici subiti, è diventata ambasciatrice di buona volontà dell’Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani, ha ricevuto il premio Sakharov del Parlamento europeo per la libertà di pensiero ed è stata candidata al Nobel per la pace.
Ora ha scelto di affidare la sua storia a un libro, scritto con la giornalista Jenna Krajeski e appena uscito in Italia per Mondadori: L’ultima ragazza. Storia della mia prigionia e della mia battaglia contro l’Isis (prefazione di Amal Clooney, pagine 334, euro 20,00). Lo ha fatto per far conoscere a quante più persone possibile le violenze vissute e quelle di cui è stata testimone, ma anche per cercare di farne comprendere le origini, delineare il contesto geopolitico in cui si sono scatenate e, non da ultimo, denunciare connivenze e responsabilità parallele.
«Presto ci era giunta notizia che molti degli arabi sunniti nostri vicini avevano accolto i militanti e si erano addirittura uniti a loro – racconta –, bloccando le strade per impedire agli yazidi di mettersi in salvo, per poi saccheggiare i villaggi deserti insieme ai terroristi. Ma eravamo ancora più sconvolti dai curdi che avevano giurato di proteggerci: senza alcun preavviso, i peshmerga erano fuggiti dal Sinjar prima che i militanti del Daesh li raggiungessero».
Inizia così l’inferno di Nadia: rapita, venduta al mercato delle schiave, finita nelle mani di un giudice riverito quanto brutale nei confronti della sua preda, passata di mano in mano ad altri militanti, violentatori seriali. «A un certo punto non resta altro che gli stupri», annota la giovane. «Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio. Il passato diventa un ricordo lontano, come un sogno. Il tuo corpo non ti appartiene e non hai le energie per parlare, per ribellarti, per pensare al mondo esterno. Non avere più speranze è quasi come morire». Eppure, riflette, «la morte non era arrivata. Nel bagno del posto di blocco scoppiai a piangere. Per la prima volta da quando avevo lasciato Kocho credetti davvero di morire. Ed ebbi la certezza di non volerlo».
È proprio questo ostinato attaccamento alla vita che un giorno, tre mesi dopo il suo rapimento, spinge Nadia ad aggrapparsi alle poche energie residue e, vincendo il panico, approfittare di una svista del suo aguzzino per fuggire. Vaga come in trance in una Mosul sospesa nel terrore, finché si decide a bussare a una porta qualunque. Inaspettatamente, la famiglia (sunnita) che aprirà quella porta la ospiterà e l’aiuterà a fuggire nel Kurdistan iracheno. Seguirà il ricongiungimento con i fratelli superstiti e l’opportunità di andare in Germania come rifugiata, dove Nadia Murad è diventata un’attivista a fianco della ong Yazda.
«Nadia non ha soltanto ritrovato la propria voce, ma è diventata la voce di tutti gli yazidi rimasti vittime di questo genocidio», scrive Amal Clooney nella prefazione. L’avvocatessa, assistente legale di Murad, sottolinea il recente risultato di questo impegno: «Il Consiglio di sicurezza ha adottato una risoluzione epocale, istituendo un team investigativo con il compito di raccogliere le prove dei crimini perpetrati dal Daesh in Iraq. Significa che le prove verranno conservate e i singoli membri del Daesh potranno essere processati». Un passo fondamentale perché il sogno di Nadia possa, un giorno, diventare realtà.
2/ La storia di Denis Mukwege. Il medico coraggioso che cura le donne vittime di stupri, di Anna Pozzi
Riprendiamo da Avvenire del 6/12/2009 un articolo di Anna Pozzi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Per la pace, contro la guerra.
Il Centro culturale Gli scritti (7/10/2018)
Il dottor Denis Mukwege (Ansa)
Il dottor Denis Mukwege parla al telefono dal suo ufficio presso l’ospedale Panzi di Bukavu, in Sud Kivu. È preoccupato. I suoi colleghi, all’altro capo del filo, riferiscono di un attacco nella notte. Un gruppo di miliziani è entrato nell’ospedale di Lemera più a sud, dove questo coraggioso medico ha cominciato la sua attività molti anni fa. Hanno saccheggiato tutto e costretto pazienti e personale alla fuga. Anche il villaggio è svuotato. Case bruciate, uomini feriti, donne violentate. Loro sono rimasti per presidiare quel che resta, ma la paura è molta. Non si sa cosa potrebbe accadere da un momento all’altro. Mukwege li incoraggia e chiede loro di essere molto prudenti. Intanto, fuori dal suo ufficio una fila di parenti e malati aspetta di incontrarlo.
«Ci sono troppi interessi in questa regione – dice il ginecologo,54 anni, figlio di un pastore cristiano pentecostale –. E l’interesse per l’uomo viene dopo tutti gli altri interessi materiali». Anche se è diventato un personaggio di fama internazionale con molti viaggi e riconoscimenti all’estero – tra gli altri, il premio Olof Palme e quello delle Nazioni Unite peri diritti umani 2008 –, il dottor Mukwege – studi in Francia, cinque figli – non trascura l’attività sul terreno: che significa innanzitutto l’assistenza alle donne vittime di violenza sessuale. C’è un intero reparto di donne stuprate nel suo ospedale: sono in media tra le 200 e le 250, circa 3.600 in un anno.
«La violenza, specialmente quella contro le donne, ha assunto dimensioni inaudite», dice, mentre ci accompagna verso il reparto dedicato a loro, collocato discretamente in un’area un po’ marginale dell’ospedale. «In questi ultimi anni – continua – non parliamo più solo di stupri, ma di vere torture. In alcuni villaggi, tutte le donne sono state violentate, rapite, ridotte a schiave sessuali, contagiate dall’Aids; un trauma per l’intera comunità, che provocala distruzione della struttura e della coesione sociale».
Kalemie è una di loro: ha solo quindici anni ed è disperata. L’aggressione subìta le ha reso orribile l’oggi e le ha tolto ogni speranza per il domani. Diversi uomini l’hanno brutalmente violentata, anche con le canne dei fucili. È viva per miracolo, ma non potrà più avere figli. E per la sua cultura significa che non è più una donna. Accanto a lei c’è un’anziana che dimostra almeno settant’anni. Anche lei è stata violentata in questa follia disumana che non guarda in faccia nessuno. I suoi organi genitali sono collassati e lei è viva per miracolo.
Il Panzi è l’unico centro sanitario del Sud Kivu che opera le donne con gravi danni all’apparato genitale. Ma sono solo una piccola parte di quelle che hanno subìto violenza. Un’inchiesta condotta nel 2006 dal Fondo Onu perla popolazione (Unfpa) su metà dei centri sanitari del Congo ha individuato 50mila casi di stupro, 25mila dei quali in Sud Kivu. I responsabili sono indistintamente militari, poliziotti, ribelli, banditi... Stupri come "arma di guerra" o, addirittura, come lo ha definito qualcuno, un vero "genocidio sessuale", di cui sono responsabili indistintamente militari, poliziotti, ribelli, banditi. Quasi sempre nella totale impunità. Nel Sud Kivu, nel 2005, sono stati registrati dalle strutture sanitarie 14.200 stupri; solo 287 sono stati portati in tribunale; e appena per 58 ci sono stati verdetti di condanna.
«Molte ragazze – spiega Mukwege – sono state rapite in foresta e usate come schiave sessuali dai ribelli. Alcune di loro hanno partorito in condizioni difficilissime. E anche quando riescono a scappare o vengono liberate, spesso non possono tornare a casa con il figlio del "nemico". "Il figlio di un serpente è un piccolo serpente", si dice da queste parti. Tutta la società è traumatizzata da quest’ondata di violenze sulle donne. Per questo cerchiamo di curare non solo loro, ma anche di creare le condizioni perché possano ritornare in famiglia o al villaggio. Oggi è tutta la nostra società che ha bisogno di essere curata».