Non c’è stato solo il colonialismo europeo, ma anche quello cubano. Il caso dell’Eritrea e la fuga dei migranti da una nazione post-socialista. Il caso dei profughi della Diciotti 1/ Diciotti: il ministro Salvini li definisce «illegali», ma chi più di loro ha diritto all’asilo. Secondo Reporters Sans Frontieres il Paese africano contende il 180° posto, quello dello Stato meno libero del Mondo, alla Corea del Nord, di Gian Antonio Stella 2/ Perché tutti scappano dall’Eritrea, di Riccardo Barlaam 3/ La fine delle ostilità. Etiopia ed Eritrea, una pace che può cambiare l'Africa, di Giulio Albanese
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1/ Diciotti: il ministro Salvini li definisce «illegali», ma chi più di loro ha diritto all’asilo. Secondo Reporters Sans Frontieres il Paese africano contende il 180° posto, quello dello Stato meno libero del Mondo, alla Corea del Nord, di Gian Antonio Stella
Riprendiamo da Il Corriere della Sera del 23/8/2018 un articolo di Gian Antonio Stella. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Immigrazione e integrazione e Storia e filosofia: il novecento.
Il Centro culturale Gli scritti (2/9/2018)
N.B. de Gli scritti Con precisione Stella spiega come gli eritrei della Diciotti siano presumibilmente da considerare “rifugiati” e non “migranti clandestini” – come è noto la distinzione è fondamentale in merito alla condizione giuridica successiva al primo soccorso: il “rifugiato”, poiché “deve” essere accolto nella nazione in cui fugge riceverà nuovi documenti dal paese ospitante e una serie di aiuti per l’inserimento in esso, mentre il migrante clandestino non riceverà né gli uni, né gli altri, una volta che non gli sarà riconosciuto lo status di “rifugiato”.
Precisa è anche la rapida descrizione che dà del regime eritreo e precedentemente di quello etiopico: si tratta di povertà e di situazione di oppressione dovute non al colonialismo occidentale, bensì a quello marxista che, con il concorso di paesi come l'Unione Sovietica e Cuba, hanno sostenuto per anni dittature che, ovviamente, si sono poi svincolate dopo la caduta del Muro di Berlino, da quel mondo di riferimento originario, mantenendone però i tratti militaristi.
L'occupazione dell'Eritrea da parte delle
truppe etiopi, cubane e sovietiche
Le terribili prigioni in Eritrea
Era il 21 giugno scorso, quando il vicepremier leghista, in visita a Terni, disse quelle parole parlando «da ministro e da padre di famiglia». Spiegò che molti dei richiedenti asilo, a suo dire, imbrogliavano: «Solo 7 su 100 ne han diritto davvero» e al contrario di quanti «bivaccano in giro mentre gli paghiamo colazione, pranzo e cena», quei sette su cento «hanno in casa mia casa loro. Perché se scappano davvero dalla guerra vanno trattati con i guanti bianchi».
Due mesi fa. E non faceva una generosa regalia tra una fucilata e l’altra sugli immigrati. Glielo imponeva la legge. L’articolo 10 della Costituzione: «Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo». La convenzione di Ginevra del ‘51 da noi ratificata nel ‘54: ha diritto all’asilo chi scappa per il «giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni».
La stessa liceità o meno d’una politica muscolare sulla immigrazione che raccoglie di qua applausi e di là sgomento passa in secondo piano davanti al tema di oggi: i rifugiati hanno diritto o no a essere trattati non coi guanti bianchi, troppa grazia, ma secondo le regole della Carta?
Perché nessuno, che si sappia, ha messo mai in discussione casi come quello degli eritrei. Non a caso riconosciuti come profughi, negli anni, con quote anche superiori al 90%. Soprattutto nei paesi nordici. Certo, fece eccezione ad esempio Piergianni Prosperini, già assessore alla sicurezza della Lombardia a cavallo tra la Lega e la destra più rabbiosa, che si avventurò a definire «l’amico Isaias», cioè il dittatore Isaias Afewerki al potere dal ‘91 e presidente a vita dal ’93, «un uomo capace e sagace» che dominava l’Eritrea «con mano ferma e paterna». E sputò sui giovani in fuga: «Dove sono questi torturati? Ho girato il Paese in lungo e in largo ma non ho visto prigioni con torturati o torturanti». Macché torture: «Casomai li ammazzano: li butti in un formicaio e li troveremo fra duemila anni…» Tempo dopo, si sarebbe capito il motivo di tanta devozione: un traffico d’armi con Asmara che l’avrebbe portato a una condanna a quattro anni di galera.
Cosa sia l’Eritrea lo dicono l’implacabile rapporto della Commissione d’Inchiesta Onu (con 830 interviste e 160 deposizioni scritte) sulle torture più spaventose usate contro i prigionieri. E la scomparsa di giornalisti e oppositori inabissati nelle carceri. E le classifiche di Reporters Sans Frontieres che da anni vedono il paese africano contendere il 180° posto, quello dello Stato meno libero del creato, alla Corea del Nord. E poi lo ricordano la chiusura dal 2006 dell’Università di Asmara, rimpiazzata da una specie di ateneo militare dove ogni refolo di aspirazione alla libertà didattica è stroncato all’istante. E l’abolizione della stampa, eccetto il quotidiano Haddas Ertra posseduto al 100% dal ministero dell’Informazione. E i libri di scuola che traboccano di peana al regime facendo tornare alla mente certi termini fascisti: «Il passo romano di parata / è un esempio di moto uniforme». E i rapporti di Amnesty International come l’ultimo, del febbraio scorso: «Sono in migliaia a tentare di fuggire per non subire l’oppressione del governo o per evitare la leva obbligatoria a tempo indeterminato». Tempo indeterminato. Va da sé che è possibile chiedere il passaporto (se te lo danno) non prima dei 40 anni per le donne e non prima dei 50 per l’uomo.
Tema: chi più degli eritrei (soprattutto quelli cristiani che più acutamente soffrono l’asfissia della dittatura nata marxista) ha diritto a chiedere (senza automatismi: chiedere) lo status di rifugiato in un Paese come l’Italia che, stando alle ultime tabelle del Global Trends Unhcr, ha 2,76 profughi riconosciuti ogni 1.000 abitanti contro gli 11,5 della Svizzera, gli 11,7 della Germania, il 17,4 di Malta o i 23,7 della Svezia?
E può bastare il sorprendente abbraccio di un mese fa fra Isaias Afewerki e il nuovo premier etiope Abiy Ahmed, figlio di un islamico e di una cristiana, a rassicurare gli eritrei sulla fine reale di una guerra un po’ rovente e un po’ fredda durata un’eternità? Certo, gli stessi operatori umanitari e i diplomatici che operano in zona riconoscono che per i «tigrini» che vivevano in Etiopia non è stato difficile per anni spacciarsi per eritrei e godere d’un pregiudizio positivo. È successo. Non si sa in quanti casi, ma è successo. C’è un solo modo per scoprire chi fa il furbo: parlare con le persone, ascoltarle, farle interrogare da interpreti che conoscano la lingua, approfondire... Ma è difficile farlo, tenendo tutti al di là di una barriera.
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2/ Perché tutti scappano dall’Eritrea, di Riccardo Barlaam
Riprendiamo da Il Sole 24 Ore del 16/6/2015 un articolo di Riccardo Barlaam. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Immigrazione e integrazione e Storia e filosofia: il novecento.
Il Centro culturale Gli scritti (2/9/2018)
Secondo le statistiche Onu, gli eritrei, tra i migranti che arrivano sulle nostre coste, sono i più numerosi. Per capire perché la gente - a ritmo di 4mila al mese - scappa dall'Eritrea, attraversa i deserti con i trafficanti di uomini, e sale sui barconi, bisogna ripercorrere a ritroso e cercare di dipanare il lungo gomitolo della storia.
L'Eritrea è stata una colonia italiana dal 1890. Poi dal 1941 è stata occupata dalla Gran Bretagna. Nel 1952 le Nazioni Unite decidono che il piccolo paese del Corno d'Africa diventi uno stato federato all'impero di Etiopia. Nel 1962 l'imperatore etiope Haile Selassie decide di annetterla all'Etiopia. Da allora comincia una lunga guerra per ottenere l'indipendenza dall'impero del Negus (sostenuto economicamente dagli Usa) da parte del Fronte di liberazione eritreo (Fle). A cui si aggiunge a partire dagli anni Settanta un altro gruppo indipendentista il Fronte di liberazione del popolo eritreo (Fple), di ispirazione marxista, sostenuto dall'Urss, Cuba e blocco dei paesi non allineati.
Negli anni Settanta scoppia una guerra civile tra i due blocchi indipendentisti. Quello di ispirazione marxista ha la meglio. Nel 1978 e nel 1980 Ottanta scoppia di nuovo una lunga guerra con l'Etiopia (sostenuta ora dai sovietici) che rioccupa gran parte del Paese. Dal 1984 comincia una graduale riconquista da parte dei gruppi indipendentisti che ha fine nel 1991 con la conquista di Asmara. Nel 1993 sotto l'egida dell'Onu si svolge un referendum per decidere se l'Eritrea deve finalmente diventare un paese indipendente o mantenere la federazione con l'Etiopia. Il 99% degli eritrei vota per l'indipendenza, dichiarata ufficialmente il 24 maggio 1993.
Da allora il paese è in mano a Isaias Afewerki, presidente-padrone. Una fragile indipendenza e un'ancora più fragile pace. Con conflitti regionali che scoppiano ancora negli anni Novanta prima con lo Yemen e poi con lo storico avversario Etiopia - che non ha un accesso al mare - per una questione legata ai confini. Fino al 2000 quando viene negoziato un accordo di pace ad Algeri, dopo 42 anni di guerre, lotte armate, devastazioni.
Aferwerki ha isolato e militarizzato l'Eritrea. La gente è poverissima, con la corruzione alle stelle.
L'Eritrea è una sorta di Corea del Nord, piantata nel Corno d'Africa (paese con cui divide l'ultimo posto nella classifica mondiale della libertà di stampa).
Un paradiso nel Mar Rosso, che potrebbe prosperare con il turismo, trasformato in inferno.
Le violenze e la fame sono le molle che muovono le persone a scappare. Scappano da un futuro senza futuro. Il governo eritreo che nega tutte le libertà civili e ogni libertà di espressione è stato accusato di repressione e di impedire lo sviluppo della democrazia: le elezioni politiche che, secondo gli accordi Onu, avrebbero dovuto tenersi nel 2001 non sono mai avvenute. Non si hanno notizie sullo stato dell'economia e sulla scarsità alimentare. Nel 2011 tutto il Corno d'Africa è stato interessato da una severa crisi alimentare. L'Eritrea, che rifiuta gli aiuti, ha sempre negato la crisi. Tuttavia da racconti di chi c'è stato o di chi riesce a scappare, emerge tutta un'altra realtà. Secondo l'Onu e Human right Watch l'esodo attuale è alimentato dalla violazione dei diritti umani, si parla di esecuzioni sommarie senza processo, sparizioni, torture e coscrizione obbligatoria.
L'opposizione non esiste più. Chi protesta finisce, come in Corea nel Nord, in campi di prigionia, sorta di gulag, campi di lavoro forzati, prigioni sotterranee, container sotto al sole africano come celle. Dal 2001 dissidenti e giornalisti eritrei sono tenuti in carcere senza accuse formali e senza processo.
In Eritrea c'è il servizio militare obbligatorio per tutti gli uomini e le donne dai 17 anni in poi, a tempo indeterminato. Nessuno può avere un passaporto prima dei 60 anni per questo motivo. Si vive al di sotto della soglia di povertà. Chi lavora, gli impiegati statali, i professori, i militari, guadagna circa 10 euro al mese. La corruzione è dilagante. In un contesto in cui crescono gli investimenti cinesi grazie al basso costo della mano d'opera. La situazione è peggiorata dal 2009, da quando l'Onu ha imposto delle sanzioni economiche all'Eritrea accusata di armare il terrorismo islamico in Somalia.
Il paese è sempre più isolato. La gente vive nella povertà e nel terrore della delazione. Si sparisce per un niente. Tutti spiano tutti. Chi riesce, appena può, scappa dal paese, grazie alla corruzione dei militari che accettano di far uscire le persone in cambio di denaro. Lo spietato e brutale dittatore Isaias Aferwerki domina sempre più incontrastato, nell’indifferenza della comunità internazionale. Grazie anche alle rimesse che arrivano dagli eritrei della diaspora. Il regime lucra anche su quello: da qualche anno ha introdotto una tassa del 2% sulle rimesse che arrivano dall'estero. Così quelli che scappano sono costretti per legge a sostenere il loro carnefice.
© da Il Sole 24 Ore RIPRODUZIONE RISERVATA
La bandiera dell'Etiopia dal
1987 al 1991 con la stella rossa
3/ La fine delle ostilità. Etiopia ed Eritrea, una pace che può cambiare l'Africa, di Giulio Albanese
Riprendiamo da Avvenire del 24/8/2018 un articolo di Giulio Albanese. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Immigrazione e integrazione e Storia e filosofia: il novecento.
Il Centro culturale Gli scritti (2/9/2018)
Abiy Ahmed (a destra) durante i colloqui
con il leader eritreo Isaias Afwerki
All’inizio dell’anno nessuno avrebbe immaginato che il 2018 sarebbe stato un tempo di cambiamenti così radicali nelle relazioni tra Etiopia ed Eritrea e più in generale nella cornice geopolitica del Corno d’Africa. Infatti, lo scorso 8 luglio, è stata firmata una dichiarazione che pone fine allo 'stato di guerra' tra i due Paesi. A siglarla sono stati Abiy Ahmed, nuovo primo ministro etiope e il presidente eritreo, Isaias Afwerki. Il disgelo nelle relazioni diplomatiche era iniziato lo scorso aprile con l’insediamento, ad Addis Abeba, del nuovo premier Abiy che ha subito espresso un indirizzo politico all’insegna del dialogo, non solo con le opposizioni interne, ma anche con la vicina Eritrea.
La sorpresa è comunque stata ufficializzata a giugno quando Abiy ha dichiarato che il suo esecutivo avrebbe rinunciato alle rivendicazioni territoriali in Eritrea, quelle che hanno rappresentato l’oggetto del contenzioso sfociato, il 1° maggio del 1998, nella sanguinosa guerra fratricida tra i due Paesi. La riapertura della rotta aerea diretta tra le due capitali, Addis Abeba e Asmara, del commercio bilaterale e delle rispettive ambasciate, sono segnali incoraggianti.
Ma per comprendere il significato del nuovo corso è necessario tornare indietro con la moviola della Storia. L’Eritrea, infatti, era storicamente parte integrante del grande impero d’Etiopia, ma nel 1950 ottenne finalmente lo status di regione autonoma federata dell’Etiopia per decisione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Purtroppo, nel 1962, per decisione unilaterale dell’imperatore d’allora, il negus Hailé Selassié, l’Eritrea venne nuovamente annessa all’Etiopia, scatenando l’inizio di una trentennale guerra per l’indipendenza. Il 12 settembre del 1974 un colpo di Stato compiuto ad Addis Abeba da un gruppo di ufficiali dell’esercito etiope detronizzò Hailé Selassié, proclamando poi, il 12 marzo del 1975 la fine del regime imperiale e la nascita di uno Stato comunista.
Etiopia, Monumento alle virtù comuniste
Due anni dopo prevalse l’ala più radicale del partito guidata dal maggiore Menghiastu Hailè Mariàm, soprannominato il 'Negus Rosso'che instaurò, per alcuni anni, un regime dispotico contro chiunque si opponesse al suo delirio di onnipotenza. A pagare un prezzo altissimo furono i civili, in particolare quelli eritrei, che si opposero strenuamente al regime di Menghiastu con azioni di guerriglia. Successivamente, con la caduta dell’ex Unione Sovietica, iniziò un nuovo corso con la nascita di uno Stato repubblicano, sancito ufficialmente con la nuova costituzione del 1995. Nel frattempo nel 1993, l’Eritrea aveva ottenuto l’indipendenza dopo essere stata a lungo una provincia dell’Etiopia. Inizialmente, i due Paesi mantennero buone relazioni, ma nel 1998 iniziò una guerra per il possesso di Badme, una località sperduta a cavallo del vecchio confine coloniale italo-abissino.
Fidel Castro e Mengistu
Per quella petraia sassosa e polverosa morirono circa ottantamila soldati, in uno scenario bellico devastante. Poi dal 2000, con gli accordi di Algeri, si giunse ad un 'cessate il fuoco provvisorio', che ha offerto il pretesto ad Afewerki, 'padre-padrone' dell’Eritrea, di militarizzare l’intero Paese imponendo a tutti la leva permanente e drenando le poche risorse in armamenti. Da qui la fuga di massa dei giovani verso l’Europa. Da rilevare che Afewerki ha imposto il monopartitismo impedendo lo svolgimento di libere elezioni. E dall’indipendenza in poi, molti oppositori politici sono stati arrestati, mentre l’economia nazionale è stata fortemente penalizzata. Afewerki, con la ristretta cerchia dei suoi collaboratori più fidati, ha, ancora oggi, il controllo di tutto: assetti istituzionali e militari, scelte politiche e programmi economici.
Sul versante opposto, in Etiopia, il continuo stato di allerta sul confine nord-orientale, ha fatto sì che la spesa militare crescesse a dismisura. La crisi economica e il montare delle proteste regionaliste, soprattutto nella regione dell’Oromia, hanno rischiato di generare vere e proprie insurrezioni. Un clima di forte instabilità che ha allarmato i principali investitori stranieri, in primis, il governo di Pechino. A questo punto non restava altra possibilità che innescare l’agognato cambiamento, affermando nei fatti una piattaforma democratica.
Il merito è tutto di Abiy, il 42enne ex ministro della Scienza e della Tecnologia, leader dell’Organizzazione democratica del popolo oromo (Opdo), una delle 4 formazioni politiche su base etnica che formano la coalizione al governo, il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf). Nato nella città di Beshasha, nella regione dell’Oromia, appartiene ad una famiglia mista, con padre musulmano e madre cristiana. Ha svolto il servizio militare nelle forze armate, raggiungendo il grado di tenente colonnello. Successivamente, ha fondato e diretto l’agenzia governativa responsabile della sicurezza informatica.
Ebbene questo giovane premier si sta rivelando un vero e proprio statista e un grande riformatore. Abiy ha avviato da subito cambiamenti forti e radicali. Anzitutto ha decretato la fine dello stato d’emergenza, liberando gli oppositori politici, denunciando l’uso della tortura da parte dei servizi di sicurezza. Inoltre, nei primi cento giorni del suo governo, ha licenziato i funzionari governativi implicati nelle violazioni dei diritti umani. Abiy è certamente una figura carismatica ed è visto come latore di speranza anche dal gruppo etnico degli oromo, che costituisce più del 40 per cento della popolazione, e che da anni patisce l’esclusione sociale e politica, oltre che economica, rispetto agli interessi generali dei governi centrali che si sono succeduti al potere. A ciò si aggiunga il fatto che provenendo da una famiglia mista (padre musulmano e madre cristiana), Abiy potrebbe avviare una stagione di confronto e collaborazione in Etiopia tra le due principali comunità religiose, quella dei cristiani e quella dei musulmani.
Da rilevare che ha anche riformato i vertici delle forze armate e avviato un processo di liberalizzazione dell’economia. Sta anche studiando una riforma della costituzione, secondo lui, troppo condizionata dal federalismo etnico. Ma l’orizzonte di Abiy, va ben oltre la cornice del Corno d’Africa. Non è un caso se già all’indomani della sua nomina, il neopremier etiope si è recato nella capitale saudita, Ryad, per incontrare l’erede al trono, il principe Mohammed bin Salman, anch’egli protagonista di una svolta nel suo Paese. Per le rispettive diplomazie, è importante creare un nuovo arco d’alleanze dal Mar Rosso all’Oceano Indiano, in grado di contenere l’esuberanza di Turchia e Qatar in Sudan e in Somalia.
Ma attenzione, non è tutto oro quello che luccica. Lo dimostra l’attentato dello scorso 23 giugno, contro Abiy. È avvenuto durante un comizio del leader etiope: una granata ha fatto una vittima e 150 feriti. Abiy, comunque, non vuole cedere alle intimidazioni e intende andare avanti con determinazione. Ha capito bene che una radicalizzazione del confronto con le opposizioni politiche ed etniche avrebbe a lungo andare determinato l’implosione del suo Paese. Inoltre, il nuovo corso avviato con l’Eritrea era indispensabile per ridare stabilità all’intera regione del Corno d’Africa, una delle più instabili e povere di tutto il continente africano. E poi, come molti analisti hanno evidenziato, l’Unione Africana ha estremo bisogno di nuovi leader, del calibro di Abiy, capaci di fare sistema, contrastando l’indirizzo delle oligarchie dominanti nel continente. Sarà la Storia a giudicare.