[La rete delle immagini di Lina Bolzoni.] La figura chiave di un'idea, di Salvatore Settis
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Riprendiamo da La Repubblica del 29/8/2002 un articolo di Salvatore Settis. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Letteratura e, in particolare, L. Bolzoni, Dante, o della memoria appassionata.
Il Centro culturale Gli scritti (26/8/2018)
Il nuovo libro di Lina Bolzoni, La rete delle immagini (Einaudi, pagg. XXX-250, euro 22) non è un libro di letteratura italiana, eppure contiene analisi penetranti di testi come il Colloquio spirituale di Simone da Cascina, le poesie di Jacopone da Todi, le prediche di S. Bernardino da Siena.
Non è un libro di storia dell'arte, eppure suggerisce nuove chiavi di lettura per gli affreschi del Camposanto di Pisa o per quelli del Palazzo Pubblico di Siena. Non è un libro di storia della filosofia, eppure vi s'incontra la sistematica delle conoscenze fissata in struttura «ad albero» da Raimondo Lullo.
Insomma, questo è un libro di storia culturale (necessariamente metadisciplinare), mirato al recupero di un codice «trasversale», che permetteva di organizzare sia le immagini che i discorsi (in particolare le prediche) mediante segmentazioni e aggregazioni mnemoniche, «schemi che hanno sede nella mente e che prendono forma attraverso vari strumenti. Per questo si collocano alla frontiera fra parola e immagine, fra visibile e invisibile, e anche fra lettura e scrittura, fra memoria e invenzione, fra esegesi e riuso, fra uso individuale e uso pubblico, fra didattica e mistica».
Sono insomma, ci dice l'autrice, «guardiani dei confini». Questa metafora dei «guardiani dei confini» è citazione nascosta da Aby Warburg. Egli soleva dire che «bisogna ubbidire al problema che ci comanda», senza temere i confini fra le discipline; e che «nessuna polizia di frontiera può impedire allo studioso di violare i confini fra i diversi campi del sapere», intesi in senso accademico.
Ma come funzionava questa «rete delle immagini»? Questo libro ci invita a «spostare l' attenzione dalle immagini ai loro usi, ai modi della loro recezione», dissezionando i meccanismi del «funzionamento» delle immagini come macchine visuali che catturano e trasmettono idee, che accrescono il potere della parola parlata.
Ma come si sviluppa in concreto l'interazione testo-immagine? Ci sono casi in cui un testo è illustrato da immagini (accade nei manoscritti illustrati), e casi in cui immagini sono accompagnate da testi (come le didascalie esplicative di certi cicli di affreschi). La storia di quest'ultima tipologia è anche, scrive la Bolzoni, la «storia di una lunga sfortuna», almeno a partire da Vasari che condannava l'inserzione di scritte nella pittura come un espediente volgare, quasi un'abdicazione del pittore al potere espressivo dell'arte sua.
Vasari non capiva più la cultura medievale che aveva originato quegli straordinari connubi fra parola e figura, e gli storici dell'arte degli ultimi secoli lo hanno troppo spesso seguito, anziché ripensare quel «genere» nel suo contesto originario. Nelle pagine sul Camposanto pisano, questo libro mostra i vantaggi di un approccio storicamente accurato, che ricollocando le iscrizioni al loro posto funzionale, e cioè in intersezione con le immagini, accresce oltre misura lo spessore della nostra percezione, di osservatori di oggi, approssimandolo a quello degli spettatori di allora.
Ma c'è un altro livello di interazioni testo-immagine, ed è quando un testo non è illustrato, e tuttavia evoca alla mente delle immagini; o quando un'immagine non ha testo, e tuttavia evoca alla mente un testo. Nell'un caso e nell' altro, la «cucitura» fra testo e immagine avviene non sulla pagina scritta o sulla parete affrescata, ma nella mente dell'osservatore.
Si tratta di effetti calcolati, che fanno riferimento a un codice comune e corrente di organizzazione delle conoscenze: quel codice perduto, appunto, che questo libro ci aiuta a recuperare. Per «testo», sia chiaro, dobbiamo qui intendere non solo la pagina scritta ma anche la parola parlata, anzi predicata: le prediche (per esempio di San Bernardino) presuppongono quello stesso codice culturale non meno dei trattati spirituali, sono intrise di immagini mentali che le parole evocano nella mente dell' ascoltatore.
È grazie a quel codice comune che sistema dei discorsi e sistema delle immagini «si tengono» a vicenda: le prediche furono anche un'«educazione dello sguardo», e simmetricamente le immagini furono anche un'«educazione all' ascolto». Non era, questo, un esercizio gratuito: al contrario, esso era puntato su una «modellazione dell' anima» dei fedeli secondo ordini di valori conformi tanto al Vangelo quanto alle analisi della facoltà spirituali (intelletto, memoria e volontà) come si era venuta precisando nella tradizione scolastica. Parola e immagine erano insomma intese come strumenti di una tecnologia morale ispirata da un quadro teologico.
Possiamo vedere «in azione» questo codice culturale, in modo particolarmente efficace, nelle pagine dedicate al Colloquio spirituale di Simone da Cascina, un testo che non fu mai illustrato, ma è tutto teso a «di virtuose immagini ornare dentro» il proprio lettore. Il testo è perciò ricco di immagini icastiche: immagini verbali che creano immagini mentali, che a loro volta suggeriscono immagini disegnate o dipinte, che non sono tradotte in forma grafica in quel testo, ma che ricorrono, in forma del tutto simile e talvolta identica, in altri manoscritti medievali del tutto indipendenti, per esempio nella Summa vitiorum et virtutum di Guglielmo Peraldo o in un manoscritto di fine Trecento della Laurenziana.
Una volta recuperato visivamente il codice culturale comune, le parole di Simone da Cascina assumono di colpo un nuovo spessore, e possiamo «vederne» l'efficacia operativa nell' orizzonte culturale del suo pubblico. Verrebbe fatto di dire che, prima del decisivo confronto con le immagini dipinte, noi lettori siamo come il popolo di Pisa che poteva ascoltare una predica senza vedere le immagini; mentre dopo aver riscoperto il codice culturale che Simone aveva in mente siamo invece, come lo stesso autore, in grado di visualizzare il codice figurale a cui egli fa riferimento.
Ma è davvero così? Davvero quel codice era accessibile solo ai livelli più colti? Ebbene, uno dei meriti di questo libro è di rispondere «no» a questa domanda. Nessun dubbio che esistessero vari livelli di cultura e di percezione; ma l'efficacia mnemonica ed emotiva dell' intera procedura richiede strettamente che il popolo che ascolta la predica, anche se non in grado di compilar trattati (e spesso neanche di leggerli) avesse un qualche livello di consapevolezza dello stesso identico codice culturale. Senza questa consapevolezza, lo sforzo del predicatore finirebbe con l'esser nullo.
In altri termini, la pratica socio-culturale della predica intrisa di immagini mentali da evocarsi nell'animo dell'ascoltatore presuppone due elementi egualmente indispensabili: da un lato, il predicatore deve avere la conoscenza piena del codice e l'autorità per usarlo ed esplorarne le potenzialità; dall'altro, il suo pubblico deve avere la consapevolezza dell'esistenza di quel codice e riconoscere l'autorità del predicatore per farsi guidare da lui nel processo del suo inscenamento, o messa in opera.
I casi in cui schemi come l'albero o la Torre della Sapienza ricorrono non in manoscritti, ma in chiese (il pavimento musivo di Otranto, un affresco ad Averara) confermano questa tesi. Questa «educazione dello sguardo» funziona per stadi progressivi. Il predicatore, mettiamo, evoca l'immagine della «Torre della Sapienza», quindi invita il pubblico a «guardare fisso», cioè a concentrarsi sui particolari, «scomponendo» la Torre nei suoi singoli elementi: le fondamenta, la larghezza, l' altezza, le colonne che ne reggono la base, la scala d' accesso, le file di mattoni del muro, i merli, le porte, le finestre. Fin qui, le nozioni più comuni bastano a seguire il discorso: tutti sanno che cos'è una torre, tutti sanno che è «scomponibile», fatta di blocchi di pietra o mattoni.
Ma la Torre di cui si parla è, ripete il predicatore, la Torre della Sapienza: e il pubblico viene invitato a risemantizzare i singoli elementi in riferimento a significati spirituali o morali: fondamento è l'umiltà, madre di ogni virtù; la torre si regge su quattro colonne, le virtù cardinali; la scala rappresenta la penitenza (ognuno dei 7 scalini ne indica una tappa); nel muro, ognuna delle 12 fila rappresenta una virtù, e ognuno dei suoi 9 mattoni un precetto morale; e così via. Infine, il pubblico viene invitato a memorizzare la totalità, la Torre, disponendo in gerarchia i singoli elementi: il fondamento è più importante delle colonne, le colonne più importanti delle file di mattoni etc.
Si ricompone nella mente l'immagine della Turris Sapientiae; il pubblico sa ormai che non c'è sapienza che non si fondi sull'umiltà, a cui non si acceda mediante la penitenza, e così via. L'immagine sensibile evocata dalle parole conferisce pregnanza ed efficacia morale all'immagine mentale, la trasforma in un'immagine memorabile.
Un libro come questo poteva esser scritto solo da chi, come Lina Bolzoni, ha esplorato i meccanismi dell' arte della memoria (La stanza della memoria, Einaudi), partendo da Giulio Camillo ma andando all'indietro fino al Medio Evo. Solo con quell'esperienza di spola fra testo, immagini reali e immagini mentali si poteva dare al libro la tessitura, l'andamento e l'efficacia di un racconto (che è, anche, il racconto della ricerca dell'autrice, delle sue scoperte). Solo calandosi fino in fondo in quel mondo non solo di parole e d'immagini, ma di idee e di processi mentali, era possibile adottarne il linguaggio e la misura.
E infatti, dopo aver detto che quegli schemi mentali, quei «guardiani dei confini», sono stati a lungo dimenticati o marginalizzati, l'autrice dichiara che, al contrario, la sua intenzione è di riportarli al centro, di usarli come la chiave d'accesso a quel codice culturale perduto: «Come la pietra evangelica buttata via dai muratori, tutto questo è diventato per noi pietra d' angolo».
Ecco: in quest'uso efficace e persuasivo della metafora della pietra angolare, che a sua volta rimanda al Vangelo e dal Vangelo ai Salmi, Lina Bolzoni ha mostrato (proprio come un predicatore medievale) quanto può essere potentemente evocativa un'immagine mentale, che a sua volta rimanda a un testo. Dobbiamo esserle grati di aver contribuito, con questo libro importante, alla nostra ri-educazione dello sguardo.