Strumenti di tortura e inquisizione: i falsi in cui avete sempre creduto, di Gabriele Campagnano

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 30 /07 /2018 - 22:45 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito Zhistorica un articolo di Gabriele Campagnano pubblicato il 6/2/2018 (http://zweilawyer.com/2018/02/06/strumenti-di-tortura-e-inquisizione/). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Medioevo.

Il Centro culturale Gli scritti (30/7/2018)

Da www.torturemuseum.it

Gli strumenti di tortura medievale, specie quelli attribuiti all’Inquisizione – senza neanche specificare di quale Inquisizione si tratti – suscitano da sempre un interesse profondo, a volte morboso, da parte del grande pubblico.

Molti di voi hanno visitato i musei della tortura e ci hanno chiesto quale sia la veridicità o verosimiglianza storica degli strumenti di tortura esposti. La risposta è abbastanza semplice: si tratta di obbrobri senza alcun valore storico che appestano diverse città italiane e, incredibile dictu, riescono a ottenere patrocini regionali, del FAI e addirittura di ONG piuttosto famose. Un’affermazione tranciante, ma pienamente giustificata alla luce di quanto leggerete qui sotto.

Il primo dato che accende sincera meraviglia è l’assoluta mancanza di testimonianze archeologiche o documentali sui mezzi di tortura che vediamo esposti nei numerosissimi “musei della tortura”. Quasi tutti hanno didascalie che ne spiegano l’uso da parte dell’Inquisizione Romana o di altri tribunali inquisitori.

Ci si aspetterebbe, quindi, di trovare almeno una menzione della Vergine di Norimberga o della Forcella dell’Eretico nel Philippi a Limborch Historia inquisitionis: cui subjungitur liber sententiarum inquisitionis tholosanae ab anno Christi MCCCVII ad annum MCCCXXIII, scritto da Philippus van Limborch nel 1692, un teologo protestante fortemente critico della Chiesa. Oppure di scoprire, tra le pagine di A history of the Inquisition of the Middle Ages, redatto dallo storico statunitense Henry Charles Lea e pubblicato a partire dal 1887, una breve trattazione della Pear of Anguish. E invece niente. Nei venti testi presenti nella bibliografia in calce all’articolo, così come in altre decine da noi visionati, non c’è traccia di questi strumenti. Si rende quindi necessaria un’analisi dei singoli strumenti.

LA PERA VAGINALE

Gli hanno dedicato paragrafi in riviste, libri e articoli. Fa bella mostra di sé nei (penosi) “musei della tortura”. La citano migliaia di siti e pagine web come uno degli strumenti di tortura dell’Inquisizione. Peccato che non sia mai stata utilizzata. In realtà, la pera vaginale (o “poire d’angoisse” o “pear of anguish”) non è mai esistita fino alla costruzione delle prime repliche nel XIX secolo.

Nei verbali dell’Inquisizione dal Cinquecento in poi non se ne trova traccia (e chiunque li abbia avuto sottomano sa perfettamente quanto siano precisi). Stesso dicasi per le altre fonti dell’epoca, compresi i diari di carnefici del potere civile come Franz Schmidt, le enciclopedie mediche, ecc.

La troviamo menzionata per la prima volta ne L’Inventaire général de l’histoire des larrons (L’Inventario generale della Storia dei Ladri) di F. de Calvi, pubblicato nel 1629. È una citazione, tra l’altro, molto contestata, perché si tratta, in quel caso, di una pera orale utilizzata per non far gridare le vittime durante una rapina. La sua invenzione è attribuita a un ladro di nome Palioli, originario di Tolosa. In realtà, anche molti studiosi dei secoli successivi hanno dubitato che “la Pera fosse mai esistita fuori dalla testa di de Calvi”. Tra il Settecento e la fine dell’Ottocento la “pera orale” viene ricordata sporadicamente come strumento per tenere in silenzio le vittime utilizzato per qualche tempo nel XVII secolo da alcuni briganti europei (olandesi o francesi).

Gli esemplari più antichi di poire d’angoisse sono conservati in diversi musei europei a americani. Quella del Louvre, appartenente alla collezione del musicista Alexander-Charles Sauvageot, risale probabilmente al 1800-1830, ed è stata catalogata nel 1856. Quella del Museo di Boston è dello stesso periodo. Tutte le altre sono state realizzate su commissione tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso.

Ed è proprio tra fine Ottocento e primi del Novecento che la Pera Vaginale inizia a trovare posto in quella rievocazione dei Cabinet of Curiosities che sono i “musei della tortura” e, da lì, in volumi divulgativi sull’Inquisizione e le torture medievali. Il sentimento anticlericale ha fatto, lentamente, il resto. Molti autori, probabilmente guidati da un interesse morboso, hanno iniziato a fantasticare sull’uso dello strumento per dilaniare vagine e orifizi anali di streghe e seguaci del demonio.

Un’assurdità che è diventata quasi sapere comune. Non a caso,anche in una delle ultime pubblicazioni relative all’argomento (Bishop, C. 2014, The ‘pear of anguish’: Truth, torture and dark medievalism, International Journal of Cultural Studies, vol. 17, no. 6, pp. 591-602) leggiamo che la pera fu immaginata come “inseribile” anche in orifizi diversi dalla bocca solo nell’Ottocento, e con il fine di sadico godimento sessuale.

Eppure basta una ricerca su google per vederla etichettata come “strumento di tortura medievale usata dall’Inquisizione sulle streghe” (difficile trovare più errori storici in una sola frase!).

LA VERGINE DI NORIMBERGA

La Vergine di Norimberga ha suscitato le più sfrenate fantasie della cultura di massa, ancora di più della Pear of Anguish, ed è presente in qualsiasi museo della tortura in Italia e all’Estero. Spacciata come strumento medievale, è stata in realtà creata solo nel XIX secolo, realizzata su commissione di gentiluomini europei con il gusto per il “finto medioevo gotico”, fatto di inquisitori con il cappuccio, streghe formose e un enorme quantitativo di violenza e atrocità gratuite. Il castello di Otranto, di Horace Walpole, pubblicato nel 1764, è stato forse il romanzo che più di ogni altro ha dato una spinta a questo gusto, protrattosi fino all’epoca vittoriana.

Tornando alla Vergine, il franchise “Museo della Tortura” la descrive così

La storia della tortura ricorda molti congegni che operavano col principio del sarcofago antropomorfo a due ante e con aculei all’interno che penetravano, con la chiusura delle ante, nel corpo della vittima. L’esempio più famoso è la cosiddetta “Vergine di Ferro” [die eiserne Jungfrau] del castello di Norimberga, distrutta dai bombardamenti del 1944.

In realtà, anche quella andata distrutta nel 1944 era una contraffazione ottocentesca, probabilmente del 1830-40. Ma andiamo con ordine.

La prima citazione della Vergine di Norimberga è datata 1793, ad opera dell’erudito tedesco Johann Philipp Siebenkees (1759-1796), che la menziona come utilizzata a Norimberga nel Cinquecento, ma, sebbene abbia ricercato a lungo nei suoi scritti, non ho trovato traccia del passo. Circa mezzo secolo dopo, nel 1840ca, la Vergine è esposta per la prima volta a Norimberga. L’involucro antropomorfo, interamente in metallo, è alto 210cm e largo 90, abbastanza grande, quindi, da contenere un uomo adulto. Gli spuntoni metallici creano il giusto “morso allo stomaco” dei visitatori, che li immaginano penetrare le membra di un essere umano.

Già molti visitatori ottocenteschi ne sottolineano la falsità e il magro interesse storico della Vergine. In Notes and Queries (Oxford University Press, 1893. Pag. 354), J. Ichenhauser definisce la Iron Maiden come “… di nessun interesse per storici e antiquari”. Questo 52 anni prima del bombardamento alleato che ci ha privati di questo pezzo di poco valore.

Ma allora quale fu la vera origine della Vergine di Ferro? Uno dei più importanti archivisti tedeschi, Klaus Graf, in un lungo articolo del 2001, Mordgeschichten und Hexenerinnerungen – das boshafte Gedächtnis auf dem Dorf, definisce la Vergine di Norimberga come “una finzione del XIX secolo, perché solo nella prima metà del XIX secolo gli schandmantel, a volti chiamati “vergini”, vennero dotati di aculei interni; in seguito, questi oggetti furono adattati a morbose fantasie mitiche e letterarie.”

La menzione dello Schandmantel (o Schandtonne) traducibile come “Mantello/Barile della Vergogna”, ci aiuta a fare chiarezza. Questo era infatti una sorta di barile che le autorità civili facevano indossare, in alcuni casi, a prostitute e altri soggetti, con lo scopo di impartire loro una pubblica umiliazione. Morbose fantasie, come dice bene il Graf, e fantasie molto più semplici relative all’orrore e al sacrilego (non di per sé negative, altrimenti non avremmo avuto autori come Lovecraft, Poe, ecc.), hanno preso lo shandmantel come base di partenza per creare qualcos’altro.

Non solo non è arrivata fino a noi una Vergine di Ferro costruita prima della fine del XIX secolo, ma anche in tutte le cronache cittadine, i manuali inquisitori, le procedure dei processi gestiti dal potere secolare, non si trova neanche un accenno al dispositivo. Anche nel diario del più famoso boia del Cinque-Seicento, Franz Schmidt (vedi “A Hangman’s Diary: The Journal of Master Franz Schmidt, Public Executioner” e “I Padroni dell’Acciaio“) non si trova nulla, sebbene egli abbia descritto in modo puntuale ogni punizione ed esecuzione portata a termine (senza mai tralasciare i particolari più raccapiccianti) nei suoi 40 anni di carriera (1578-1617).

LA FORCELLA DELL’ERETICO

Strumento di tortura meno conosciuto – più che altro a causa delle dimensioni ridotte (rispetto alla Vergine di Norimberga) e della mancanza di fini sessuali (Pear of Anguish) – ma altrettanto falso è rappresentato dalla Forcella dell’Eretico. Nel volume (senza alcun valore storico) “La storia dell’ inquisizione” di Carlo Havas è presente una “forchetta o forcella dell’eretico” che non trova riscontro in alcuna fonte. Con la Forcella, tra l’altro, inizia anche la serie di falsi datati 1983 (quindi falsi recentissimi), di cui si ha una prima citazione in “Catalogo della mostra di strumenti di tortura, 1400-1800: nella Casermetta di Forte Belvedere, Firenze, dal 14 maggio a metà settembre, 1983″ - si tratta, a quanto sembra, della prima mostra organizzata dalla società che ora possiede diversi musei della tortura in Italia e all’estero - e nel successivo “Inquisition: A Bilingual Guide to the Exhibition of Torture Instruments from the Middle Ages to the Industrial Era, Presented in Various European Cities in 1983-1987, Firenze, 1985, entrambi redatti da Robert Held.

La Forcella dell’Eretico presenta come una doppia forchetta legata al collo, con le punte rivolte sotto il mento e al petto. Il sito de Il Museo della Tortura, gestito dalla Inquisizione s.r.l., lo definisce così:

Con le quattro punte acutissime conficcate profondamente nella carne sotto il mento e sopra lo sterno veniva impedito qualsiasi movimento della testa: la vittima poteva soltanto bisbigliare “abiuro” (parola questa che ha il significato di rinunzia ad altra religione o dottrina che non sia quella cristiana).

A parte la menzione alla “dottrina cristiana” senza specificare se si trattasse di strumento dell’Inquisizione Romana o di un tribunale protestante, fa sorridere il fatto che, partendo da questa storia della parola sospirata “abiuro”, altri “musei” abbiano addirittura fatto creare dei pezzi che riportano la scritta “abiuro” incisa sul ferro. Le fonti wikipedia per “heretic fork” sono grottesche: un museo della tortura fasullo e la pagina di un negozio online che vende repliche (per giunta maldestre).

Un altro falso del secolo scorso. Molto forte dal punto di vista immaginifico ma pur sempre un falso. Anche in questo caso nessun libro, di quelli conosciuti volgarmente come “manuali dell’Inquisizione”, parla di questo strumento. Dal Malleus Maleficarum al Sacro Arsenale di Eliseo Masini, fino all’opera anticlericale di Henry Charles Lea A history of the Inquisition of the Middle Ages, e alla Storia dell’Inquisizione di Tamburini, nessuno fa menzione di un dispositivo anche solo lontanamente simile alla Forcella dell’Eretico.

In pratica, è possibile che lo abbiano fatto costruire di sana pianta prendendo come canovaccio il libro di Havas, senza neanche rifarsi, quindi, ai falsi vittoriani. Il falso esposto dal “museo” della tortura è stato poi riproposto in un famoso dipinto di Leon Golub nel 1985.

LA SEDIA INQUISITORIA

Che qualcuno abbia potuto credere a una cosa del genere è, dal punto di vista storico, a dir poco mortificante. La Sedia Inquisitoria unisce influenze indiane provenienti dall’Impero Britannico al solito Medioevo Vittoriano, e, ovviamente, non se ne fa menzione in alcun volume dedicato alla prassi inquisitoriale, né ad altre fonti dal XIII al XVIII secolo.

L’idea stessa di inquisitori disposti a spendere cifre enormi per realizzare un simile oggetto è grottesca; il quantitativo di metallo utilizzato, poi, e la presenza di chiodi fatti in serie lasciano presupporre una prima fabbricazione modernissima. È quantomeno sospetto che le prime riproduzioni della Sedia Inquisitoria siano del XX secolo, anzi, più precisamente, del’ultimo quarto del secolo scorso.

È difficile dire se la Sedia Inquisitoria sia stata creata avendo in mente i letti di chiodi dei fachiri o qualche altro falso vittoriano, ma è davvero molto sospetto leggere che la prima menzione del dispositivo risale al… 1880 (Geschichte der Hexen und Hexenprozesse, un altro testo senza alcuna pretesa storica) e la prima costruzione di questo dispositivo a dopo il 1983. Dopo la pubblicazione di quale testo? “Catalogo della mostra di strumenti di tortura, 1400-1800: nella Casermetta di Forte Belvedere, Firenze, dal 14 maggio a metà settembre, 1983″. Ebbene sì, anche la Sedia Inquisitoria potrebbe essere (anzi, siamo più nell’ambito delle probabilità che in quello delle possibilità) la seconda creazione originale dei “musei” della tortura, ed è francamente incredibile che abbia avuto questa diffusione senza suscitare i necessari sospetti storici.

LA CULLA DI GIUDA

Almeno nel caso della Culla di Giuda (Judaswiege o Judas Cradle), alcune pagine wikipedia, come quella in italiano e in tedesco, riportano che si tratta di uno strumento immaginario, stendendo un velo pietoso sull’origine del mito. D’altronde, immaginare un trabiccolo del genere, per cui era necessario l’impiego di diverse persone, 4 funi e un puntale di legno, è storicamente (e fisicamente, visto l’impossibilità di mantenere in equilibrio l’imputato) demenziale.

A prescindere, comunque, dai problemi strutturali dell’attrezzo, è necessario fare il solito lavoro sulle fonti per dimostrare che non fu mai utilizzato o anche solo concepito prima del XIX secolo. La prima menzione? Immagino ci siate arrivati da soli ormai: “Catalogo della mostra di strumenti di tortura, 1400-1800: nella Casermetta di Forte Belvedere, Firenze, dal 14 maggio a metà settembre, 1983”.

La prima menzione de La Culla di Giuda è anch’essa del 1983. Curioso no?

Per quanto riguarda l’incisione spesso riportata nella didascalia di questo oggetto, datata al XVII o XVIII secolo a seconda del “museo”, non sono stato in grado di reperirla in nessun manuale, né viene mai citata la fonte, quindi si tratta di un altro falso.

A questo punto,
sarebbe interessante sapere di più degli autori di questo “Catalogo della mostra di strumenti di tortura, 1400-1800
: nella Casermetta di Forte Belvedere, Firenze, dal 14 maggio a metà settembre, 1983″: Robert Held, Tabatha Catte e Tobia Delmolino. Del primo, che vanta alcune curatele in ambito oplologico, sono riuscito a reperire solo due dichiarazioni: la prima riportata anche ne la pagina de L’Espresso qui sopra, in cui dice che gli originali sono “difficili da reperire perché dopo l’entrata in vigore del codice di Francesco III furono rimossi o distrutti“.

Più che “difficili” avrebbe dovuto dire “impossibili”, ma la cosa bizzarra è ricondurre la distruzione di ogni strumento di tortura degli ultimi otto secoli in tutta Europa, nonché la cancellazione di ogni sua traccia da decine di migliaia di volumi, alla legislazione di un Granduca di Toscana. La seconda è tratta dal già citato “Inquisition: A Bilingual Guide to the Exhibition of Torture Instruments from the Middle Ages to the Industrial Era, Presented in Various European Cities in 1983-1987, Firenze, 1985”, e dà la misura delle conoscenze storiche del soggetto:

Tra il 1450 e il 1700 tra i due e i quattro milioni di donne finirono al rogo sia nell’Europa Cattolica che in quella Protestante.

Una cifra ridicola, equivalente a 45 donne al giorno per 250 anni consecutivi (1340 al mese!). Robert Held comunque (non so se sia il padre del bravo fumettista Joshua Held) deve essere stato a contatto con la fiction letteraria, visto che viene ringraziato da Thomas Harris nel libro “Hannibal” (Harris è l’autore de Il Silenzio degli Innocenti e seguiti). Di Tabatha Catte, che dovrebbe aver curato la sola impaginazione, non si sa nulla, così come di Delmolino.

Ovviamente, per amore della verità storica, saremmo felici di ricevere segnalazioni sulla presenza di queste torture in fonti originali, in modo da effettuare eventuali correzioni.

Vi starete chiedendo, a questo punto, quali fossero i veri strumenti di tortura dell’Inquisizione Romana. A questi dedicheremo un apposito articolo, per ora possiamo anticipare una porzione del capitolo dedicato alla tortura da Eliseo Masini nel Sacro Arsenale (1621). Da questo e da altri volumi si evince chiaramente come la tortura più praticata fosse quella della “corda” (o “strappado”), mentre per chi non era in grado di sostenerla per problemi fisici, poteva essere sottoposto alla (dolorosissima) fustigazione con bacchette di legno sui palmi delle mani o sulla pianta dei piedi.

Tra l’altro, in pochi sanno che la confessione sotto tortura doveva essere confermata ventiquattro ore dopo, altrimenti rimaneva inaccettabile. E che, ad esempio, si utilizzava la corda per evitare spargimenti di sangue, poiché si trattava di una delle proibizioni più stringenti tra quelle che gravavano in capo all’inquisitore. Ma per una trattazione più completa dovrete aspettare ancora qualche giorno.

Bibliografia

- Eliseo Masini, Sacro arsenale, ouero, Prattica dell’officio della Santa Inquisitione, 1621;

- Philippus van Limborch, Philippi a Limborch Historia inquisitionis: cui subjungitur liber sententiarum inquisitionis tholosanae ab anno Christi MCCCVII ad annum MCCCXXIII, 1692;

- Piazza, Girolamo Bartolomeo, A short and true account of the Inquisition and its proceedings, as it is practis’d in Italy, set forth in some particular cases : whereunto is added, an extract out of an authentick book of legends of the Roman Church, 1722;

- Samuel Chandler, The history of persecution : in four parts. Viz. I. Amongst the heathens. II. Under the Christian emperors. III. Under the papacy and Inquisition. IV. Amongst Protestants, 1736;

- Archibald Bower, Authentic Memoirs Concerning the Portuguese Inquisition, 1761;

- Modesto Rastrelli, Fatti attenenti all’Inquisizione e sua istoria generale, e particolare di Toscana, 1782;

- Antonio Puigblanch, The Inquisition Unmasked: Being an Historical and Philosophical Account of that Tremendous…, 1816

- Vari, Records of the Spanish Inquisition: translated from the original manuscripts, 1828;

- C. H. Davie, History of the Inquisition, from its establishment to the present time, 1850;

- Pietro Tamburini, Storia generale dell’Inquisizione, 1862;

- Henry Charles Lea, A history of the Inquisition of the Middle Ages, 1887;

- George Lincoln Burr, Narratives of the witchcraft cases, 1648-1706, 1914;

- Turberville, Arthur Stanley, Medieval heresy & the inquisition, 1920;

- Alexander Herculano, History Of The Origin And Establishment Of The Inquisition In Portugal, 1926

- Edward Peters, Inquisition, 1989;

- Kamen Henry, The Spanish Inquisition: A Historical Revision, 1999;

- E. Brambilla, Alle origini del Sant’Uffizio. Penitenza, confessione e giustizia spirituale dal medioevo al XVI secolo, 2000;

- Franco Cardini, Marina Montesano, La lunga storia dell’inquisizione. Luci e ombre della «leggenda nera», 2005;

- Andrea Del Col, L‘inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, 2007;