La chiesa nell'era di Internet: consigli per comunicare on-line, di Paola Springhetti
Riprendiamo sul nostro sito tre brevi relazioni tenute da Paola Springhetti, giornalista, membro del Direttivo nazionale Ucsi, in occasione del corso “Nuovi media e parrocchia: da comunicatori nell'era digitale. Corso per animatori della comunicazione e della cultura” organizzato dall’Ufficio Comunicazioni Sociali della Diocesi di Roma nel febbraio-aprile 2010 e pubblicati, insieme agli altri interventi dell'itinerario, nel sussidio “Parrocchia e nuovi media”.
Il centro culturale Gli scritti (8/6/2010)
1/ L’importanza della comunicazione nella chiesa
La comunicazione non è un lusso, come tutt’ora molte realtà ecclesiali, molte parrocchie, molte associazioni, sembrano pensare. Un lusso vuol dire una cosa costosa che solo alcuni possono permettersi perché hanno il tempo e i soldi da impiegare. Non è così, non è più così o non è sempre così. Anzi, molto spesso, questo è un po’ un alibi per non impegnarsi sul piano della comunicazione.
La comunicazione non è neanche un accessorio, un optional, una cosa che io posso decidere di fare o non fare. Non lo è nella vita delle singole persone, perché le persone che non riescono a comunicare, non riescono a stabilire relazioni, stanno male. Non lo è nella vita dei gruppi, perché i gruppi che non comunicano con l’esterno, con le altre realtà, sono destinati o a morire per asfissia oppure a evolvere in forme pericolose come le gang giovanili che ultimamente si moltiplicano nella nostra città. Non a caso una gang, una banda, non comunica con il mondo adulto e in generale con il mondo esterno e quando ci entra in contatto è in modo conflittuale e violento, se comunicasse non ci sarebbe bisogno di violenza.
La comunicazione non è un accessorio in una società. La società in cui i flussi di comunicazione si bloccano è una società frammetata, che costruisce continuamente muri, e quindi in cui le varie componenti possono solo scontrarsi, ma non possono dialogare, è anche una società che non cresce, che non sa parlare con i propri vicini di casa e quindi non sa esportare le cose migliori che ha, che crea, che produce, e non sa arricchirsi di quello che i vicini di casa creano, producono, esportano. È una società che prima o poi fa la guerra con gli altri.
Chi comunica cresce. Io mi occupo un po’ di volontariato e trent’anni di storia del terzo settore ci dicono che il saper comunicare è uno di quegli elementi che determina la crescita di una associazione, di una cooperativa, di qualunque organizzazione. Non è l’unico evidentemente, ma le organizzazioni che non comunicano, non crescono. Se io adesso vi chiedessi di dirmi la prima organizzazione di volontariato o la prima cooperativa che vi viene in mente, probabilmente mi direste il nome di una organizzazione che comunica bene. Questa cosa non vale solo per il terzo settore, o per le aziende che stanno sul mercato, ma anche per le parrocchie, che sono comunità, che sono gruppi con le loro dinamiche, all’interno delle quali la comunicazione, se c’è, fa crescere, se non c’è, è molto più difficile, se non impossibile.
Naturalmente per comunicare bisogna aver qualcosa da dire. Oggi la maggior parte della comunicazione che ci raggiunge, non ha contenuto, vale in quanto tale. Pensate alle ore che gli adolescenti passano su Facebook, nei social network, su Messenger. Cosa si dicono? Molto spesso nulla: intavolano conversazioni simili a quelle che iniziamo in ascensore quando siamo vicini ad altre persone ed è difficile stare zitti, ma puoi solo dire frasi banali, una conversazione fatica, che significa soltanto: “Sono qui, ci sono, teniamo aperto questo canale che prima o poi potremmo avere qualcosa da dirci”.
Quindi non è affatto scontato che bisogna avere qualcosa da dire, il fatto è che ormai ci siamo abituati al chiacchiericcio sul nulla. Ognuno di noi però si deve chiedere seriamente cosa ha da dire. Bisogna avere qualcosa da dire e qualcosa per dirlo. Servono strumenti, ma serve soprattutto un linguaggio. Prima si diceva che noi spesso diamo dei messaggi che sono contraddetti dalla maggioranza, sono messaggi di minoranza, ma questo non vuol dire che siano veri, anzi. Quindi rischiano di perdersi in contesti che sono soverchiati da comunicazioni di tutti i tipi. I messaggi possono, anzi, devono, essere diversi.
Comunicare con un linguaggio appropriato
Noi dobbiamo avere qualcosa di originale da dire, ma le parole non possono essere altre, rispetto a quelle che la gente è in grado di decodificare. Se tutti parliamo italiano, detto in termini molto banali, non posso mettermi a parlare in greco antico. Questo è un grosso problema, perché è un problema di tecniche che dobbiamo possedere, ma è un problema culturale, la capacità di calare i nostri messaggi dentro un linguaggio che sia recepibile. In questo senso è vero che la comunicazione è creativa, ne sono assolutamente convinta, però una creatività che poggi su un sistema di regole, che vanno dall’uso della punteggiatura, a come impagino un testo, che colore uso per i titoli e via dicendo. Nulla è meno casuale di quello che sembra casuale, nella comunicazione.
Qualcosa da dire, qualcosa per dirlo, qualcuno a cui dirlo. La domanda qui è: “A chi mi rivolgo?”. Non è una domanda optional, è sostanziale per la comunicazione. Devo sapere se sto parlando ai miei amici, a gente che vive in un contesto culturale completamente diverso dal mio, a gente che non mi condivide, ai giovani o agli anziani. Queste non sono cose che vengono a posteriori - io scrivo tutto il mio bel testo e poi, siccome in realtà all’ultimo momento mi rendo conto che volevo rivolgermi ai giovani, cambio un paio di aggettivi. Non funziona così! Il mio interlocutore deve essere presente nei miei pensieri fin dall’inizio del mio sforzo di comunicazione.
Per spedire una comunicazione c’è bisogno di un indirizzo, altrimenti è come affidare al postino una busta sulla quale non c’è scritto nulla, non arriverà mai a destinazione. Troppo spesso noi usiamo gli strumenti della comunicazione, non per comunicare, ma per esprimerci. È una differenza fondamentale: si esprime chi lancia dei messaggi, e poi se c’è qualcuno che li raccoglie, meglio così. L’artista si esprime, fa un’opera d’arte e quando la fa non è tenuto per niente a chiedersi: “Ma questo signore che passa per la strada capirà la mia opera d’arte?”. Tanto è vero che la storia dell’arte è piena di artisti che vengono pienamente apprezzati due generazioni dopo, o alcuni secoli dopo. Noi non ce lo possiamo permettere: la comunicazione non è giocare a fare l’artista e “se non mi capiscono sono gli altri che sono ignoranti”. La comunicazione è stabilire delle relazioni in cui io lancio dei messaggi e ascolto la risposta.
A differenza dell’esprimersi, il comunicare è sempre un processo di andata e ritorno, e quindi fa parte della comunicazione procurarsi delle orecchie: non mi devo solo preoccupare di stabilire a quale mezzo affido oggi il mio discorso, ma anche del fatto che chi mi ha ascoltato ha qualcosa da dire, se quello che ho detto gli è servito, se è d’accordo, se non lo è, cosa mi dice, se mi ascolta, perché se non mi ascolta vuol dire che la comunicazione non si è stabilita.
Questo perché la comunicazione è frutto di relazione, ma soprattutto serve a creare relazioni, che poi non è detto che debbano essere eterne, ci sono anche relazioni occasionali, però serve a creare relazione. Da qui nasce il corso così come abbiamo pensato di impostarlo. Un corso il cui obiettivo non è chiaramente quello di formare dei professionisti della comunicazione, perché non basterebbero sei incontri per questo, però è quello di lavorare insieme per raggiungere alcuni obiettivi.
Il primo obiettivo è quello di essere consapevoli di quello che stiamo facendo. Troppo spesso la comunicazione è affidata alla buona volontà e non siamo consapevoli né delle potenzialità, né dei limiti di quello che stiamo facendo.
Secondo obiettivo è mettersi in grado di saper valutare il proprio lavoro comunicativo e saperne vedere gli errori. Forse non siamo e non saremo mai dei professionisti, ma se sappiamo valutare quello che andiamo facendo, possiamo migliorare costantemente e rendere la comunicazione sempre più efficace, altrimenti resterà sempre e soltanto “carina”.
Il terzo obiettivo è imparare a scegliere gli strumenti che ci servono per raggiungere gli obiettivi che ci siamo dati per la nostra comunicazione. In genere noi siamo più bravi a criticare la comunicazione altrui che però è efficace, che non a vedere i limiti della nostra. Saper valutare un prodotto comunicativo ci può anche aiutare a capire che bisogna chiedere aiuto, consulenza, a qualcuno che ne sa più di noi, perché altrimenti non ne veniamo a capo.
È stato scelto di incentrare il corso sul tema dei nuovi mezzi di comunicazione e in particolare i siti web, non solo perché il discorso del Papa per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali di quest’anno è un po’ una sfida su questo tema, che peraltro era già presente nei discorsi precedenti, ma anche perché sono sempre di più, e questo è un dato di fatto, le parrocchie che hanno dei siti, perché il sito web è uno strumento poco costoso, anzi pressoché gratuito che presenta delle grosse potenzialità. La domanda è: “Le sappiamo sfruttare?” Riusciamo a utilizzare questo strumento apparentemente così facile e così a portata di mano al meglio?
2/ Fare un’intervista
In che modo racconto nel sito la vita, le esperienze, la produzione culturale della mia parrocchia? A volte gli articoli non bastano. C’è bisogno di coinvolgere qualcuno che per vari motivi un articolo non lo scriverebbe mai: il parroco che non ha tempo, l’anziano che non ha il computer, lo straniero che parla male l’italiano…
Ma anche il personaggio noto che è venuto a fare una relazione nella nostra parrocchia, l’esperto che ci abita e che vorremmo coinvolgere in qualche modo…. In tutti questi casi, e in altri, l’intervista è un ottimo strumento, perché permette di far parlare persone cui altrimenti non sarebbe possibile dar voce, e di farli parlare direttamente: per il lettore è molto diverso leggere le sue parole tra virgolette piuttosto che un riassunto fatto da un’altra persona. Il problema è che fare un’intervista è più difficile di quello che sembra.
Cos’è un’intervista
Sergio Lepri, un giornalista cattolico che è stato per 40 anni direttore dell’Ansa, ha definito l’intervista come «un colloquio fra un giornalista e un interlocutore che lo ha accettato, conoscendone gli scopi: rendere pubbliche le sue risposte» (Professione giornalista, Etaslibri 1991). Dentro questa pur sintetica frase ci sono alcuni elementi interessanti, da rilevare.
Il primo è che si tratta di un colloquio, cioè di qualcosa di diverso da un meccanico e rigido chiedere e registrare risposte: c’è un ascolto reciproco, una reazione alle domande, ma anche alle risposte, per cui l’intervistatore più chiedere ulteriori spiegazioni, può insistere su un punto, può cambiare le domande che si era preparato…
Il secondo è che ci sono ruoli distinti: un giornalista, cioè uno che fa domande, e un interlocutore, cioè uno che dà le risposte. Il che implica che l’intervistatore deve essersi preparato e deve sapere dove vuole andare a parare, e che l’interlocutore deve rispondere a domande che possono anche essere scomode, e non scegliersi quelle che gradisce.
Il terzo è che l’interlocutore sa che le cose che ti dice verranno pubblicate.
Nel fare un’intervista è bene tenere conto anche del contesto in cui andrà a collocarsi. Se, per esempio, occuperà uno spazio autonomo nel sito (è l’unico pezzo su un certo argomento), oppure andrà a completare altri interventi sullo stesso tema (es.: i giovani scrivono un pezzo sul campo scuola che hanno fatto, in un’intervista al parroco si trova un commento o un approfondimento tematico). È evidente, infatti, che l’impostazione cambia.
Come si fa un’intervista
Ha scritto Gian Antonio Stella, che la buona intervista è una specie di miracolo, il frutto «della magica congiunzione astrale di molte cose: una notizia forte, un personaggio che sta in piedi, un momento ”giusto”, un dialogo che scivola via fluido e che allo stesso tempo sia rotto qua e là da ricorrenti soprassalti che ravvivino l’attenzione» (L’intervista, in AA.VV. Come si scrive il Corriere della Sera, Rizzoli 2003, p. 64).
Tradotto per noi, questo significa che l’intervistato deve avere qualcosa da dire, e deve essere un personaggio per qualche motivo interessante. Ma è ovvio anche che l’intervistatore deve essere preparato quanto basta per fare le domande giuste.
Esistono fondamentalmente due tipi di interviste:
- di indagine (voglio sapere qualche cosa di più su un fatto o una persona)
- di divulgazione (ho davanti a me un esperto, il mio ruolo è sostanzialmente di divulgatore)
Naturalmente le due tipologie possono sovrapporsi, in tutto o in parte, ma in linea di massima possiamo dire che sono diverse e che richiedono tipi di domande diverse. Più insistenti nel primo caso: dobbiamo fare dire all’intervistato quel che ci interessa sapere, vincendo le sue reticenze, stando attenti se cambia discorso, chiedendo conferme alle risposte che ha dato. Nel secondo caso, invece, si tratta soprattutto di portare l’intervistato sui temi che riteniamo più interessanti, nell’evitare le divagazioni che fanno perdere il filo, nel controllare di aver capito esattamente quel che intendeva dire.
Si può anche distinguere tra:
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interviste tematiche (al centro c’è il contenuto che si vuole approfondire)
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interviste personali (al centro c’è il personaggio, quello che fa e che pensa, la sua vita)
Per fare un buona intervista, dicevamo, bisogna prepararsi, e bene: le domande devono essere pertinenti e chiare, e per prepararle occorre sapere di che cosa si parla.
È bene iniziare avendo tra le mani una scaletta con alcune domande, ma essendo pronti ad adattarle a seconda delle risposte che man mano si ricevono. Come ho già detto, una intervista non è un esame, ma un colloquio, e non si riesce a realizzarla se non si entra in comunicazione con l’intervistato. Per questo non funzionano né i toni eccessivamente aggressivi —che mettono l’interlocutore su atteggiamenti di difesa— né quelli troppo morbidi e servili, che non aiutano a tirare fuori il meglio.
Spesso arriva la richiesta di mandare le domande scritte. Da una parte è meglio evitare questa modalità, troppo fredda e meccanica, in quanto, appunto, impedisce di interagire. Ma dall’altra parte, quando l’intervistato, come nel nostro caso, non è un professionista e non ha molta pratica di interviste, può essere tutelato dal fatto di poter contare su risposte scritte: almeno, non correrà il rischio di essere accusato di avere travisato il pensiero del proprio interlocutore.
Le domande devono essere formulate in modo:
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chiaro, preciso, breve (non più lunghe delle risposte!)
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aperto (cosa ne pensa di…?) o chiuso (pensa questo o quest’altro?)
È sempre imbarazzante sentirsi dire dal proprio interlocutore: scusi, non ho capito, può ripetere? Eppure succede, perché succede che gli intervistatori non hanno le idee chiare. Possiamo dire che, se per formulare una domanda ci servono 20 minuti di spiegazione, c’è qualcosa che non va. Così come è imbarazzante, per il lettore, trovarsi davanti a domande più lunghe delle risposte.
È buona norma registrare sempre le interviste: riascoltandole per trascriverle, spesso si colgono sfumature, che altrimenti possono sfuggire, e inoltre resta un documento cui fare riferimento in caso di contestazioni.
Come si cucina un’intervista
Cucinare l’intervista (cioè lavorarla per renderla pubblicabile) è indispensabile per tanti motivi: l’interlocutore è prolisso, oppure parla difficile, oppure si lascia andare ad un linguaggio orale troppo informale o sgrammaticato…
Un’intervista deve farsi leggere, dunque deve essere interessante, chiara, tesa… Bisogna quindi sistemare l’italiano, tagliare le digressioni, dare un ritmo. Non basta trascrivere: compito di chi fa l’intervista è renderla pubblicabile, cioè tirare fuori un testo in cui l’intervistato si riconosca, e che il lettore legga volentieri. Per questo ci vuole molta libertà nelle domande, ma fedeltà nelle risposte. Come ha detto un famoso giornalista, il capolavoro è quando uno ti dice “bravo” e tu, rileggendola, non trovi una sola parola che sia stata riportata alla lettera.
Proprio perché “rendere” l’intervista non è affatto semplice, è buona norma farla rileggere all’interessato, prima della pubblicazione. Tanto più se non si è professionisti.
3/ Domande e regole per scrivere un testo
Scrivere un testo giornalistico (notizia, articolo, intervista o quant’altro), in modo che sia pubblicabile, è cosa più difficile di quanto spesso non si creda. Infatti, la maggior parte dei testi pubblicati nei blog e, purtroppo, anche in molti siti, non viene letta da nessuno, o al massimo viene letta fino alla terza riga, quando va bene. È ovvio invece che, se si pubblica qualcosa, è
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perché venga letta
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perché venga letta dal maggior numero possibile di persone.
Perché questo avvenga occorre che il testo in questione contenga qualcosa di interessante, e che lo esprima in modo leggibile. Ecco quindi alcuni consigli per scrivere un pezzo, tenendo presente che il farsi leggere è una battaglia che si inizia ancora prima di cominciare a battere i tasti.
1. Ricordare sempre che gli italiani non leggono
Lo dicono tutte le statistiche e le indagini che periodicamente vengono svolte: gli italiani amano poco la lettura, sia di libri (basti pensare che si legge di più da bambini che da adulti) che di giornali. Per quel che riguarda il web, il tempo dedicato alla lettura di un pezzo non supera, in media, i 20 secondi.
Allora, prima di cominciare a scrivere, bisognerebbe porsi un paio di domande. La prima è: perché qualcuno dovrebbe perdere tempo dietro le parole scrivo? La seconda è speculare: io quanto leggo di quello che scrivono gli altri?
Il tempo è una cosa preziosa, per tutti. Fermarsi a riflettere su questa semplice constatazione, può aiutarci ad entrare nell’ordine di idee giusto per scrivere bene.
2. Ho qualcosa da dire?
La domanda non è scontata. A volte scriviamo d’impulso, buttando giù tutto quello che abbiamo da dire su un certo argomento. Senza renderci conto che, magari, quelle cose sono già state dette, a volte sullo stesso sito per cui scriviamo. Oppure che non abbiamo l’autorevolezza per dirle. Oppure che si tratta solo di opinioni, che potrebbero non interessare agli altri.
La verità è che a volte non abbiamo niente da dire (niente che sia importante, almeno). A volte invece ce l’abbiamo, qualcosa da dire, ma non sappiamo cos’è, perché non l’abbiamo messo a fuoco. Così lo nascondiamo in mezzo ad una serie di considerazioni inutili, rendendolo poco identificabile.
3. Ho individuato la notizia?
Questo “qualcosa da dire”, nel linguaggio dell’informazione, si chiama “notizia”. Sono stati scritti interi manuali per spiegare che cosa è: in estrema sintesi, potremmo dire che è un fatto, un avvenimento, un’idea che vengono ritenuti interessanti per sé e per gli altri e per i quali, quindi, si ritiene valga la pena spendere energie e risorse.
I blog dei gruppi, delle associazioni, delle parrocchie troppo spesso sono pieni di chiacchiere non richieste, e poveri di notizie, che invece sarebbero richieste. Una notizia, infatti, è tale anche perché risponde ad un interesse del lettore.
4. Devo dare una forma alla notizia
Una volta che ho individuato la notizia, mi devo chiedere qual è il modo migliore per raccontarla ed eventualmente per commentarla. Il linguaggio giornalistico mette a disposizione vari generi da utilizzare: c’è l’articolo, ma c’è anche l’intervista, che permette di far parlare persone autorevoli sul tema che sto trattando. C’è naturalmente l’inchiesta, molto complessa da realizzare. E ci sono anche le tabelle o i grafici, che in genere tendiamo a ignorare, e che invece possono essere una risorsa preziosa. Gli articoli con i dati sono in genere molto lunghi e noiosi e scoraggiano la lettura: è molto meglio citare nell’articolo i due o tre dati fondamentali, e lasciare ai grafici (e ai lettori volonterosi) la presentazione più analitica.
Utilizzare sapientemente i vari generi, alternandoli, rende il sito più vario, vivace e meno scontato. Inoltre, se una notizia è importante, è meglio lavorarci su, organizzando diversi pezzi ognuno dei quali ne affronta un aspetto, piuttosto che proporre un unico, lunghissimo pezzo.
In un sito, poi, c’è la possibilità di lasciare spazio alle mail o ai post dei lettori: è anche questo un modo per renderlo più vivo, oltre che partecipato.
5. Devo dare una struttura al pezzo
L’inizio
Poniamo di aver deciso di scrivere un articolo. Da dove cominciamo? Dall’inizio, naturalmente. Non è una battuta: la maggior parte delle persone, non avvezze alla scrittura giornalistica, comincia dalla fine, cioè dal commento. Prima ancora di dire di che cosa sta parlando, comincia a dire che è bella, che però lei non d’accordo, che bisogna farla in un’altro modo eccetera. Così non funziona.
Nelle prime righe del testo ci devono essere le cinque w della notizia, che vorrebbe poi dire il chi, il cosa, il dove, il quando e il come. E magari anche il perché. Il resto a seguire, per chi va avanti con la lettura.
Il lettore ha bisogno di capire di che cosa si parla, per poter decidere se lo interessa e se andrà avanti. L’inizio deve essere quindi sintetico, chiaro, e pieno di informazioni. In più, deve essere in qualche modo avvincente, cioè deve avvincere (tenere legati) al testo: è nelle prime cinque righe (e prima ancora nel titolo) che si gioca il “successo” del testo.
Il corpo
La parte centrale dell’articolo sviluppa quanto detto nell’incipit, sempre in modo stringato. È molto importante dare un ordine lineare alle affermazioni, aprire e chiudere il discorso senza abbandonarlo e riprenderlo più avanti, senza sovrapposizioni, ripetizioni e intrecci complicati. Il lettore inoltre ha sempre il diritto di sapere quando sta leggendo il racconto di un fatto e quando invece il commento di qualcun altro o del giornalista stesso: bisogna tenerne conto quando si scrive, e se si cita qualcuno, vanno sempre messe tra virgolette le parole esatte.
La conclusione
Pochi lettori arrivano fino alla fine degli articoli. Ciò nonostante, se il vostro articolo è sufficientemente breve e avete ancora qualche riga a disposizione, una conclusione può essere utile. In genere, è strettamente connessa all’inizio: lo riprende e lo ribadisce, meglio se con una frase efficace. In un certo senso, chiude il cerchio sottolineando come nel vostro pezzo avete dimostrato le affermazioni iniziali.
Un consiglio ulteriore: se gestite un sito, stabilite alcune lunghezze standard per i pezzi, sia per voi che per le persone a cui chiedere di scrivere i pezzi. Per esempio, 3.600 battute per un pezzo lungo, 2.500 per uno più breve. Non cadete mai nel tranello di dire: fammi un pezzo di una pagina, di due pagine, eccetera: nulla è più arbitrario della lunghezza di una pagina scritta al computer. Date una lunghezza prestabilita e chiedete a tutti di organizzare il proprio scritto all’interno di quello spazio.
6. Devo trovare le parole
Ho individuato la notizia, ho deciso di scrivere un articolo, adesso devo trovare le parole. Devono essere parole chiare e facilmente comprensibili a tutti, ma il pezzo non deve essere sciatto, anzi, possibilmente deve avere una personalità. Quindi devo cercare parole che non siano:
-banali, perché devono suscitare interesse;
-retoriche, perché devono suscitare fiducia in quel che si legge;
-inutili, perché devono dire qualcosa.
Possibilmente evitate le parole straniere, sciogliete sempre le sigle (almeno la prima volta che, nel pezzo, le usate), evitate l’eccesso di elenchi.
7. Devo scrivere giornalisticamente
La scrittura giornalistica si caratterizza perché racconta cose, sinteticamente, semplicemente, preferendo Seneca a Cicerone.
Racconta cose, nel senso che è densa di fatti e fa a meno delle divagazioni.
È sintetica, per tutti i motivi detti fino ad ora, e perché lo spazio a disposizione è limitato (anche quello immateriale del web, che sembra infinito, ma nella percezione del lettore è organizzato con confini chiari).
È semplice, perché deve essere comprensibile da tutti, compreso il navigatore occasionalmente approdato ai nostri lidi.
Preferisce Seneca, cioè la costruzione del periodo con frasi brevi e paratattiche piuttosto che le architetture linguistiche ciceroniane, che sanno tanto di cultura ma anche di esibizionismo.
Una buona regola giornalistica è di usare molti sostantivi e pochi aggettivi o avverbi, perché nei sostantivi stanno i fatti e negli aggettivi e negli avverbi, di solito, i commenti. Provate a riscrivere un articolo togliendo tutti gli aggettivi e gli avverbi: provare per credere.
8. Devo rileggere
Finalmente il pezzo è nato. E adesso? Rileggetelo, con una duplice attenzione: gli errori e la lunghezza. Qualche errore scappa sempre, o nella fretta della digitazione o a causa delle interferenze del correttore automatico (attenzione ai numi propri!). E anche qualche lunghezza scappa sempre: se rileggendo cercate qualcosa da tagliare, lo troverete sicuramente.
9. Devo tagliare ancora
E dopo aver tagliato? Tagliate ancora. Ogni cosa detta con una parola di troppo è detta male, perché quella parola farà scappare il lettore.
10. Devo scrivere per gli altri, e non per me
Il pezzo è scritto e pubblicato, e adesso? Se tutto il lavoro che ho fatto fino ad ora non era rivolto a gratificare il mio narcisismo, ma a mettere in circolo una scheggia di sapere, adesso ho qualche altra domanda da pormi. La prima è: che cosa pensa il mio lettore di quello che ho scritto? Lo ha capito? Gli è piaciuto? Gli è utile?
La seconda riguarda il mio “editore”, nel nostro caso la parrocchia. Quello che ho scritto è in consonanza con la mission che ha affidato al sito? La comunità che cosa ne pensa?
La terza riguarda noi stessi, in quanto autori del pezzo. Rileggetelo dopo un po’ di tempo, e chiedetevi: che cosa ne penso? Mi piace ancora? Si scoprono cose interessanti.