Il ghetto di San Ferdinando e la morte di Soumaila dal 2010 ad oggi. Ecco la serie degli articoli: 1.2012/ Stranieri & diritti. Rosarno, una tendopoli per i lavoratori immigrati, di Antonio Maria Mira 2.2013/ Rosarno. Né acqua né luce nel ghetto degli invisibili, di Antonio Maria Mira 3.2013/ "Schiavi" delle arance, di Antonio Maria Mira 4.2013/ Rosarno, 4 anni dopo riesplode l’emergenza, di Antonio Maria Mira 5.2014/ Rosarno, ancora ghetto dei migranti, di Antonio Maria Mira 6.2016/ Reportage. Rosarno, una tendopoli per i lavoratori immigrati, di Antonio Maria Mira 7.2018/ Ingiusta e nera è la morte. Soumaila, la sua vita e il suo lavoro, di Antonio Maria Mira

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 10 /06 /2018 - 22:24 pm | Permalink | Homepage
- Tag usati: , ,
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

N.B. de Gli scritti

Nel cercare di comprendere qualcosa della situazione che ha portato alla terribile morte di Soumaila Sacko, ucciso vicino al campo di San Ferdinando, ci siamo resi conto che solo Avvenire aveva, anno dopo anno, descritto quella situazione non di “emergenza”, bensì di ordinaria invivibilità.
Ogni anno un inviato del quotidiano si è recato presso il “ghetto” dei migranti in cerca di lavoro nella piana.
Da tali reportage risulta chiaramente che l’attenzione andrebbe spostata dal recupero in mare e dalla prima accoglienza - che sono gli unici aspetti a meritare le prime pagine dei giornali – ai progetti di integrazione di lungo periodo che passano, inevitabilmente, per una politica del lavoro.
È per questo che il ministro Minniti, di formazione comunista, aveva, d’accordo con il primo ministro Gentiloni e con il segretario Renzi, iniziato una politica tesa a contrastare i flussi migratori. Contestualmente, il ministro Pinotti, sempre in pieno accordo con Gentiloni e Renzi, aveva dato inizio ad una missione militare italiana in Niger per controllare i flussi e rallentarli.
L’operato del governo Gentiloni e dei due ministri Minniti e Pinotti non proveniva da un intento razzista.
Le loro scelte erano nate dalla crescente consapevolezza che in questo momento l’Italia non era in grado di offrire lavoro a molti dei migranti e, pertanto, il rischio che si apriva era che la loro situazione nel nostro paese divenisse peggiore, terminata la prima accoglienza, di quella che avevano in partenza nel loro paese.
Minniti e Pinotti, Gentiloni e Renzi resisi della gravità della situazione reale, che solo a tratti emerge sui media – si pensi alle donne nigeriane che divengono prostitute o ai lavoratori agricoli saltuari di Rosarno o, ancor più, ai tanti migranti che, una volta usciti dai programmi di prima accoglienza non hanno altra via che l’elemosina dinanzi ai supermercati o l’ingrossare le file della malavita –, hanno iniziato a lavorare ad un progetto di rallentamento del flusso migratorio, perseguito per il bene dei migranti e non semplicemente per la salvaguardia dell’Italia.
L’esistenza di tale linea politica del Governo Gentiloni già posta in essere permette di comprendere che è assolutamente distorcente rispetto ai problemi reali che sono sul tappeto il ridurre la questione ad una battaglia tra presunti "razzisti" e presunti "anti-razzisti".
L'opinione è stata forse confusa dal fatto che il Governo Gentiloni, per ragioni difficili da definire, legate anche alla paura di perdere il voto dell’elettorato di sinistra, abbia sottaciuto tali sue scelte, perseguendole senza mai dichiararle appieno ed aumentando così la mancata informazione su tale delicatissima questione.
Certo è che, comunque, l’Italia ha bisogno non di un "non-progetto" che si limiti alla prima accoglienza (sulla quale è, fra l’altro, facilissimo speculare, poiché tanti sono gli interessi della malavita ed anche di italiani in difficoltà con strutture turistiche a guadagnare annualmente sulla quota riservata ai migranti della quale possono trarre profitto ospitandoli), dimenticando le questioni del lavoro e dell'inserimento reale nella vita del paese.
Ha bisogno, invece, di un progetto incentrato sugli anni successivi ai 12 mesi della prima accoglienza, cioè di un progetto che si misuri sulla situazione che si crea una volta che il 95% dei migranti non riceve lo status di rifugiato e viene così condannato a cercarsi un lavoro in condizioni come quella di Rosarno – se i migranti avessero altre possibilità, non finirebbero certamente in ghetti come quello.
Senza un progetto di sviluppo lavorativo, di lotta alla corruzione e di vera integrazione – e senza una chiarezza sullo status del 95% dei migranti che vengono dichiarati irregolari e liquidati dalle strutture di prima accoglienza senza alcuna soluzione praticabile in vista – il caso di Rosarno che si protrae dal 2010 non vedrà prospettive concrete e praticabili.
Da porre in rilievo è anche l’errore del mancato ascolto dei vescovi dei diversi paesi africani i quali, più volte, si sono fatti avanti in interviste ed interventi pubblici, chiedendo un cambio di politica internazionale ed invocando aiuti mirati ad organismi locali per migliorare la situazione lavorativa nei paesi d’origine, invitando contestualmente i loro giovani a non lasciare il paese per non rovinarsi la vita.
In questo senso, il parallelo con gli italiani migranti nel passato in America o in Svizzera dovrebbe essere ridimensionato, sebbene continui ad essere retoricamente utile a chi non intende affrontare concretamente la situazione presente, poiché allora esistevano reali possibilità di sviluppo e lavoro in quei paesi, mentre la situazione italiana oggi si caratterizza per una carenza di lavoro: gli italiani temono non che i migranti rubino loro il lavoro, ma piuttosto che non ne trovino e che finiscano quindi a vivere da mendicanti.
Appare anche evidente che deve essere fatta una campagna di informazione nei paesi d'origine per sfatare, purtroppo, la persistente immagine dell'Italia come di paese del Nord del mondo, ricco di opportunità per lavorare ed anzi arricchirsi e per permettere di conoscere anticipatamente che si finirà nel corso del viaggio nelle mani della mafia africana, in quella araba dei paesi del Maghreb e in quella italiana: più volte questo sito ha denunciato che le ragazze che partono non vengono avvertite del fatto che saranno violentate nel viaggio e che saranno obbligate obbligate alla prostituzione: esse partono, invece, convinte con promesse di lavoro di diverso tipo alle quali credono, fino all'arrivo in Libia.
Ciò che è più necessario oggi non è l'enunciazione di principi astratti, ma proposte concrete da parte di "intellettuali", media e poltici dei vari partiti su come accogliere integrando, quindi in una prospettiva che non sia né di accoglienza indiscriminata, né di respingimento indiscriminato, bensì progettuale e realistica, capace di offrire opportunità e non ingannare, capace di coinvolgere i paesi più ricchi dell'Italia, siano essi arabi, asiatici o europei, a condividere un progetto comune di accoglienza prolungata nel tempo.

Per approfondimenti, cfr. la sezione Immigrazione, accoglienza, integrazione

1.2012/ Stranieri & diritti. Rosarno, una tendopoli per i lavoratori immigrati, di Antonio Maria Mira

Riprendiamo da Avvenire del 14/1/2012 un articolo di Antonio Maria Mira. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (10/6/2018)

​La decisione ieri dopo un vertice in prefettura a Reggio Calabria. Martedì il ministro Riccardi sarà in visita per verificare le condizioni dei migranti «Ci sentiamo meno soli», commenta il sindaco.

​Una tendopoli per 270 immigrati, con servizi igienici e una grande cucina da campo. E sarà allestita proprio dove gli immigrati non li volevano «per questioni di decoro». Finalmente qualcosa si muove per i lavoratori africani di Rosarno. Così, con le attuali strutture disponibili e quelle in arrivo, circa 500 immigrati potranno avere un ricovero dignitoso.

Dopo la denuncia di Avvenire di domenica scorsa che aveva ospitato anche l’appello al governo del sindaco Elisabetta Tripodi e di alcuni immigrati, partono le prime iniziative concrete per cercare di alleviare sofferenza ed emarginazione dei circa duemila extracomunitari che nella cittadina calabrese sono tornati alla ricerca di un lavoro. È il frutto della riunione del tavolo tecnico per i problemi di Rosarno convocato ieri dal prefetto di Reggio Calabria, Luigi Varratta, alla presenza di Daniela Pompeo, inviata appositamente dal ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione Andrea Riccardi.

“Viaggio a Rosarno. Prima ghetto ora inferno” avevamo titolato domenica il reportage da Rosarno e dagli altri paesi della Piana di Gioia Tauro, descrivendo i luoghi dove gli immigrati cercano di sopravvivere: catapecchie sgangherate, aziende abbandonate, e vere e proprie favelas di baracche e tendine, in mezzo al fango e ai rifiuti, senza luce né acqua, in piccoli gruppi in mezzo alla campagna ma anche in agglomerati di 3-500 persone.

«In una situazione come quella di quest’anno potrebbe bastare una scintilla per far scattare la protesta», era stato l’allarme del sindaco che aveva denunciato: «Ancora una volta siamo stati lasciati da soli. Lo sapevamo che saremmo restati col cerino in mano e per questo avevo lanciato per tempo l’allarme».

Inascoltato. Così erano state purtroppo pochissime le iniziative che il Comune aveva potuto prendere da solo. Il campo coi container che può ospitare 120 persone in attesa di altri 8 in arrivo da Catanzaro. Mentre la proposta, avanzata insieme alla prefettura e in accordo col comune di San Ferdinando, di allestire una tendopoli nell’Area di sviluppo industriale, aveva trovato «un’assurda opposizione», come ci aveva spiegato il sindaco Tripodi.

«C’era poi l’ipotesi di fare una tendopoli nell’area Asi di San Ferdinando – aveva raccontato il primo cittadino –. Quel Comune è d’accordo ma l’amministrazione dell’Asi ha detto di no per questioni di decoro dell’area». E invece proprio da qui si è partiti.

Nella riunione di ieri è stato, infatti, deciso di requisire le aree Asi necessarie per costruire la tendopoli. Un decreto urgente di requisizione firmato dal prefetto è stato consegnato direttamente dagli uomini dal questore di Reggio Calabria, Casabona, all’amministrazione dell’Asi, a conferma di come questa volta le istituzioni dello Stato si siano mosse come un’efficiente squadra. E con decisione e rapidità.

Appelli per fortuna ricevuti, dunque, come quello di Diallo Mamadou, immigrato dalla Guinea Conakry che ci aveva implorato. «Guarda dove vivo, ti sembra possibile? Noi restiamo sempre nella fogna». Aggiungendo un invito a Riccardi. «Dì al nuovo ministro di venire qui a vedere come viviamo. Lo aspetto». E martedì il ministro per l’Integrazione sarà in visita a Rosarno per presiedere un vertice con le autorità locali. Intanto ha inviato la dottoressa Pompeo per un primo sopralluogo che ha dato questi importanti risultati.

Accompagnata dal sindaco ha visitato alcuni dei ghetti-inferno di Rosarno, dall’ex Pomona, l’azienda agrumicola abbandonata e occupata oggi da più di 350 immigrati, con baracche e tendine in mezzo al fango, alle casette in rovina della zona delle “timpe”, nel centro di Rosarno, dove sopravvivono alcune centinaia di africani in veri e propri “buchi” sotterranei.

Ma sono le prime decisioni operative prese ieri a Reggio Calabria a far ben sperare. Anche perché sia la provincia che la regione hanno dato la propria disponibilità a collaborare. «Adesso ci sentiamo meno soli – commenta il sindaco Tripodi – ed è molto importante soprattutto in questi giorni, dopo il ripetersi di intimidazione contro la nostra amministrazione». Inoltre, aggiunge il sindaco, «è un segnale che quando tutti collaborano, le cose si possono realizzare. In una mattinata siamo riusciti a sbloccare quello che non si era riusciti a fare un tre mesi. Per questo ringrazio Avvenire per l’attenzione che ci ha dato e per aver “svegliato” quella degli altri».

Molto positivo il commento anche di don Pino Demasi, vicario generale della diocesi di Oppido-Palmi, in prima linea nell’aiuto agli immigrati. «Siamo soddisfatti che, prima di tutto, sia stata data attenzione alla persona dell’immigrato, alla necessità di salvaguardarlo. Perché dobbiamo sempre ricordare la centralità della persona». E sottolinea anche che «l’impegno del governo è un forte segnale di cambiamento sul tema dell’immigrazione e di attenzione reale». Intanto decine di immigrati sono arrivati ieri a Roma, da Rosarno, per dire «basta allo sfruttamento» e chiedere aiuto al governo. Una delegazione di cinque persone è stata ricevuta al ministero dell’Interno.

2.2013/ Rosarno. Né acqua né luce nel ghetto degli invisibili, di Antonio Maria Mira

Riprendiamo da Avvenire del 30/11/2013 un articolo di Antonio Maria Mira. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (10/6/2018)

«Qua c’è il rischio di una guerra tra poveri». È molto preoccupato Raphael, immigrato del Burkina Faso. Assieme ad altri 40 connazionali occupa una casetta, poco più di una catapecchia, nelle campagne di Rizziconi, località "bivio Marotta". È uno degli "invisibili" che vivono tra uliveti e agrumenti della Piana di Gioia Tauro. Tra fango e freddo. «Siamo circa mille a vivere in queste condizioni», ci spiega. E poi aggiunge il perché della sua preoccupazione. «Il "posto" è di altri immigrati che sono andati a lavorare a Foggia, ma hanno già chiamato che stanno tornando. Sarà un casino tra noi». Una "guerra" per un tugurio. Entriamo. Due stanze senza luce né acqua (tranne quella che piove dal tetto), reti e materassi ammassati. I vestiti sono appesi ai chiodi. Coperte offerte dai volontari delle associazioni cattoliche, gli unici che "osano" avventurarsi in queste zone. Come Bartolo Mercuri, presidente dell’associazione "Il Cenacolo" che opera con la Caritas diocesana di Oppido-Palmi, nostro accompagnatore nel dramma di Rosarno. Questa volta ha portato scarpe. Le avevano chieste gli immigrati e ora, ordinatamente, se le dividono.

Fuori dalla catapecchia ci sono alcune baracche. In una i tappeti per la preghiera. Un’altra è attrezzata a doccia: alcuni teli di plastica per garantire la privacy e uno a terra per evitare il fango. «L’acqua l’andiamo a prendere in un campo vicino ma a piedi, non usiamo le biciclette per non rovinare il terreno. Il contadino è gentile e già ci sopporta...», dice ancora Raphael. Acqua comunque non potabile. «Ma noi la beviamo lo stesso...», sorride. Bolle un pentolone su un fuoco di legna. È per la doccia. Altre baracche, rami e plastica, sono vuote. «Le abbiamo fatte per quelli che arriveranno». Sperando che si accontentino e, davvero, non scoppi la "guerra" tra poveri.

Salutiamo gli immigrati che ci chiedono una sola cosa. «Non vogliamo stare tutti insieme a Rosarno, ci portino qui le tende, vicino al lavoro». Quello che c’è. Anche quest’anno se ne vede poco e mal pagato. Eppure vogliono solo lavorare. Proprio Raphael, 30 anni, in Italia da 14, un lavoro lo aveva, nel bresciano. «Facevo il falegname in fabbrica ma poi con la crisi sono stato il primo ad essere licenziato. Dal 2011 sono qui».

Ci spostiamo e ci infiliamo in una stradina sterrata in mezzo agli ulivi. Siamo a Drosi e questa era una piccola fattoria. Ora sembra un villaggio africano, ghetto per circa 250 immigrati. «Papà Africa», «papà Caritas», così accolgono Bartolo. Casette diroccate, col tetto coperto in qualche modo da teli di plastica. Panni stesi, galline che scorrazzano. Nelle casette, anche qui senza acqua né luce, è il consueto caos di materassi, brande e coperte. Gli immigrati sono fuori, seduti in gruppetti. «Oggi niente lavoro». Chissà quando... Ma nessuno si lamenta. Nessun problema con i locali. Su un capannone le bandiere francese e italiana, un quadro di Cristo e un piccolo Babbo Natale. Ma quale Natale li attende? Scene che si ripetono a decine tra Gioia Tauro, Rosarno, Rizziconi, San Ferdinando. "Invisibili" ma ben noti a tutti.

Ci spostiamo nella grande tendopoli di San Ferdinando che, al confronto, sembra una reggia. Le tende sono ordinate, ci sono alcune stufette, anche queste dono del volontariato, in particolare della parrocchia di S. Antonio, guidata da don Roberto Meduri. Ma non c’è elettricità da maggio. E nel frattempo qualcuno ha perfino rubato parte dei cavi. «Se ci danno la luce a noi basta – dice Khadim –, il resto lo dobbiamo trovare noi, ci arrangiamo». Ed è quello che fanno. L’acqua c’è ma non è potabile. «La beviamo lo stesso se no che facciamo?». Ci sono i bagni e per le docce è nato un piccolo commercio di acqua calda: un secchio 50 centesimi, scaldata sul fuoco di legna. L’arte di arrangiarsi. Non l’unica. Un immigrato ghanese taglia i capelli, alcune donne preparano dolci tradizionali. Un altro immigrato ha tirato su una baracca dove cucina. «È il ristorante della tendopoli», scherza. Un altro, proveniente dal Gambia, aggiusta le biciclette. C’è la fila. «È bravissimo e gli diamo qualche euro», ci spiegano. Certo i problemi non mancano. I rifiuti non li porta via nessuno. Allora li bruciano attorno al campo e sono quelli prodotti da centinaia di persone. Ma c’è anche voglia di normalità. Amidu del Burkina Faso si è costruito una specie di chitarra con una piccola tanica, un bastone e dei cavetti d’acciaio. Ma anche qui c’è la stessa preoccupazione. «Quando arriveranno gli altri qui sarà "guerra" tra poveri». Anche perché la tendopoli è piena e attorno cominciano a sorgere le prime baracche.

3.2013/ "Schiavi" delle arance. Rosarno, 4 anni dopo riesplode l’emergenza, di Antonio Maria Mira

Riprendiamo da Avvenire del 30/11/2013 un articolo di Antonio Maria Mira. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (10/6/2018)

«Prima che sia troppo tardi...». È la frase che abbiamo sentito più volte nel nostro ultimo viaggio a Rosarno e negli altri paesi della Piana di Gioia Tauro. Ce lo hanno detto gli immigrati, i volontari, i parroci, i sindaci. Per Man Addia, 31 anni, liberiano, è stato purtroppo davvero «troppo tardi». È morto nell’auto dove si era dovuto adattare, perché ormai non c’è più posto nella tendopoli di San Ferdinando, l’unica struttura per gli immigrati, assieme al piccolo villaggio di container di Rosarno.

In tutto appena 600 posti (500 più 100). Pochi, pochissimi, a fronte delle migliaia di immigrati presenti per la raccolta di arance e clementine. Attorno alla tendopoli stanno sorgendo tante baracche, mentre nelle campagne vivono gli "invisibili". E il grosso deve ancora arrivare.

Mentre il Centro di accoglienza in costruzione a Rosarno su un terreno confiscato alla ’ndrangheta è bloccato perché una delle imprese è stata raggiunta da un’interdittiva antimafia. Così a quasi quattro anni dalla rivolta del gennaio 2010, quando gli immigrati reagirono alle violenze e allo sfruttamento di ’ndragheta e proprietari terrieri, nulla è cambiato. Malgrado le denunce della Chiesa locale e dei sindaci della zona. Così si può morire di freddo e di stenti.

Che tutto non sia chiaro lo dimostra l’attenzione della magistratura. Ieri il procuratore di Palmi, Giuseppe Creazzo, accompagnato dalla polizia giudiziaria, ha fatto un’ispezione nel campo. Si vuole capire come è stata possibile quella morte ma anche quale sia lo stato della tendopoli che pur allestita dallo Stato (sulle tende è scritto "Protezione civile") non è adeguata, senza elettricità né riscaldamento. E poi come è possibile che tutto sia sempre uguale, perché questa non è un’emergenza, visto che si ripete da anni. Mentre gli interventi sono inadeguati. Proprio per questo la procura sta da tempo tenendo d’occhio la situazione.

A denunciare con forza, ma anche a rimboccarsi le maniche, è la Chiesa, locale a nazionale. Lo scorso anno la Caritas italiana offrì 40mila euro e altri 10mila la diocesi di Oppido-Palmi. Soldi preziosissimi per l’impianto elettrico e la bolletta. Ma finiti questi fondi, l’elettricità è stata staccata. «Non possiamo sostituirci sempre alle istituzioni – denuncia il vescovo Francesco Milito –. Nonostante tutto la Chiesa continua ad assistere questi fratelli. Altri che dovevano intervenire, invece, non lo hanno fatto. E così ogni anno si arriva a questa situazione drammatica».

Monsignor Milito ha dedicato al tema dell’immigrazione ben quattro messaggi in un un anno. E i titoli sono più che espliciti. «Ancora al "freddo e al gelo". Avvento di fraternità», «Settembre andiamo. È tempo di migrare. Dove? Come?», «Non ci costò l’aver amato», «Da Natale a Pasqua: non ha colori la pelle di Dio». Sempre, spiega il vescovo, «per richiamare le istituzioni alle proprie responsabilità. Invano...».

Anche il sindaco di San Ferdinando, Domenico Madafferi, si è rivolto a tanti. «Ho scritto al presidente della Repubblica, al ministro dell’Interno, al presidente della Regione. Nessuna risposta. Solo la Regione mi ha detto che non intende spendere neanche un euro». Ora, «grazie all’impegno del prefetto di Reggio Calabria, arriveranno 40mila euro per l’elettricità. Useremo un gruppo elettrogeno perché rifare il contratto con l’Enel ci costerebbe da solo 12mila euro. Nessuno sconto». Basterà? «No – aggiunge –. Ho proposto di usare i capannoni abbandonati nell’area industriale, sono pronto a requisirli. Ma non mi rispondono. Ancora una volta noi sindaci siamo lasciati soli. Mi dicano quello che devo fare – è il suo appello –. Ma nessuno ci sostiene, tutti se ne fregano, perché gli immigrati non votano. Dovrei smantellare le baracche ma non lo faccio perché provocherebbe un’altra rivolta. Mi chiamino pure "il sindaco della tendopoli", è un onore. Ma ci aiutino, qui è di nuovo emergenza».

4.2014/ Rosarno (e non solo) 5 anni dopo. La logica dei contabili, di Antonio Maria Mira

Riprendiamo da Avvenire del 9/12/2014 un articolo di Antonio Maria Mira. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (10/6/2018)

Mentre cammino tra i poveri giacigli del nuovo ghetto degli immigrati di Rosarno mi rimbomba nella testa la frase, famosa e famigerata, di Salvatore Buzzi tra i principali protagonisti della "cupola" romana. «Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno...». Non è possibile non provare indignazione. Con chi ha fatto e, magari, ancora fa affari sulla disperazione delle persone. E ancor di più con chi glielo ha permesso e glielo lascia fare.

A Roma come a Rosarno dove la Cupola romana era venuta a "fare affari" visto che qui, purtroppo, la "materia prima" umana non manca. E non manca da almeno 15 anni. E ogni anno è uguale o peggio del precedente. Si avvicina il 2015, e sarà il quinto anniversario della "rivolta di Rosarno" del 7 gennaio 2010. I migranti africani allora protestarono contro lo sfruttamento della ’ndrangheta e anche di un sistema economico locale (e non solo) dove dominavano, e ancora dominano, speculazioni, lavoro nero, ingiustizia e illegalità e dove l’intimidazione criminale si era fatta sanguinosa.

Grazie alla comprensibile e disperata rabbia dei lavoratori africani, l’Italia e il Mondo scoprirono le drammatiche realtà di Rosarno, San Ferdinando, Rizziconi, Gioia Tauro e di tanti paesi di questa piana un tempo "giardino" di agrumi e ulivi e oggi ghetto di migliaia di migranti. "Avvenire" lo aveva già scoperto e denunciato da anni, documentando lo sfruttamento e la mancanza di accoglienza. E lo ha continuato a fare in questi cinque anni raccontando, e non soltanto a ogni anniversario della rivolta, una situazione che non cambiava, che non è cambiata.

Anzi che è tornata a peggiorare. Abbiamo girato tra le catapecchie delle campagne, tra fabbriche dismesse, tendopoli e baraccopoli, tra fango e rifiuti. Ci siamo ritrovati a dover raccontare un’altra volta di stenti e di morti di freddo. Ma anche a poter dare voce e volto a un volontariato ostinatamente in prima linea, a buona e concreta gente di parrocchia e di associazione, agli operatori della Caritas. Da soli, in un perdurante e colpevole vuoto delle istituzioni, mentre le tempeste scatenate dalle indagini sui profittatori inducono tanti a pensare che il bene sia solo apparente, contagiabile e infatti contagiato dal male. Non è così, e occorre dirlo con forza, ringraziando chi testimonia la verità di una scelta civile e cristiana per i poveri e gli sfruttati che è senza calcoli e senza interessi.

Ma il male è tenace. E nelle terre di Rosarno, anche quest’anno, abita e prospera tra la miseria di baracche e di altre catapecchie, tra il fango e i rifiuti. I lavoratori dalla pelle scura sono tornati, come cinque anni fa, a occupare un capannone come allora l’ex Opera Sila. Certo, meglio che all’aperto ma sempre di un ritorno al "ghetto" si tratta: senza luce, senza riscaldamento, senza bagni, malgrado l’ammirevole e quotidiano impegno dei volontari e del giovane parroco don Roberto.Emergenza continua, malgrado tutti sappiano che qui, ogni anno, da novembre alla primavera, arrivano migliaia di migranti con la speranza, o l’illusione, di un lavoro e di un povero guadagno.

Tutti sanno, ma tutti fanno finta di non sapere di questa "piccola Africa" sfruttata e abbandonata. Solo iniziative tampone, all’ultimo secondo, spesso sbagliate. Come la scelta, in sé giusta, di abbattere le baracche malsane, ma di farlo a ottobre e senza proporre alternative. Così i lavoratori migranti sono indotti, anzi costretti a trovare da soli "soluzioni" che non sono molto meglio delle baracche e, spesso, anche peggiori.

Emergenza, già. Ma che emergenza è un fenomeno che si ripete ogni anno da tanti anni? La realtà dice, anzi grida, che quest’«emergenza» a qualcuno fa comodo. A quelli della "cupola" romana e ai protagonisti di altre poco chiare gestioni dei centri per migranti che i lettori di questo giornale conoscono bene e che, in parte, sono finite sotto la lente degli inquirenti. Fa comodo, perché il ricorso a strumenti straordinari invece che a una quotidiana ordinaria buona amministrazione crea zone grigie.

E fa male perché in Italia si continua a ragionare sul numero delle persone sbarcate e non sulle persone stesse. Si riempiono "centri", sempre più grandi, o si lasciano crescere "ghetti" ma non si realizzano programmi di integrazione. E così Rosarno e le tante altre Rosarno d’Italia restano uguali a se stesse per anni. Vince la contabilità non l’umanità. E gli esiti, doppiamente devastanti, sono oggi sotto i nostri occhi.

5.2014/ Rosarno, ancora ghetto dei migranti, di Antonio Maria Mira

Riprendiamo da Avvenire del 9/12/2014 un articolo di Antonio Maria Mira. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (10/6/2018)

Nel grande capannone camminiamo tra decine di tendine. Tra l’una e l’altra poveri giacigli di cartoni, coperte e qualche materasso. Benvenuti ancora una volta nel ghetto di Rosarno. Tra pochi giorni saranno cinque anni dalla rivolta degli immigrati. Era il 7 gennaio 2010 e i lavoratori africani scesero in piazza, anche violentemente, contro lo sfruttamento e la violenza della ’ndrangheta.

Da allora nulla o quasi è cambiato. Cinque anni fa gran parte dei migranti erano ammassati nell’ex Opera Sila, azienda mai entrata in funzione e abbandonata. Oggi sono in una "fabbrichetta" (così la chiamano) nel comune di San Ferdinando, accanto a Rosarno. Una delle tante "aziende fantasma" dell’area industriale, prodotto di truffe sui contributi europei. I primi ad usarla sono proprio i migranti. Sono circa cinquecento, tra l’ambiente più grande e alcune stanzette, senza infissi, senza luce, senza riscaldamento.

L’acqua è solo al di fuori. Anzi c’è anche dentro, ma è la pioggia che si infiltra «a catinelle tra le giunture del capannone, evidentemente costruito malissimo», denuncia don Roberto Meduri, il giovane parroco di S. Antonio al "Bosco" di Rosarno, la contrada dove cinque anni fa scoppiò la rivolta. Domenica è riuscito a portare ottanta materassi regalati da una signora del Vibonese. Ma non bastano. «Qui ogni giorno arrivano nuovi migranti – dice ancora il sacerdote –. Ancora un centinaio dormono per terra sui cartoni. Solo con qualche coperta che abbiamo portato. Prima non avevano neanche quelle».

Non fosse per i volontari della parrocchia, della Caritas diocesana e di altre associazioni, ad aiutare gli immigrati non ci sarebbe nessuno. Qui nella "fabbrichetta" e anche nella tendopoli installata tre anni fa. Dovrebbe ospitare 400 persone ma ormai sono più di ottocento, ma c’è la luce e anche i bagni che però sono intasati perché gli scarichi sono stati costruiti senza pendenza.

Ad ottobre sono state abbattute le oltre cento baracche che lo scorso anno erano state costruite attorno alle tende.

Baracche sicuramente precarie e insane ma comunque un riparo. Così i migranti hanno deciso di occupare la fabbrica abbandonata. I volontari hanno aiutato a ripristinare l’acqua e hanno messo dei teli neri di plastica come porte delle stanzette. Sono qui tutti i giorni, in particolare Domenico e Gennaro detto "Rambo" per la sua passione per l’atletica. Cercano di stimolarli, qualche volta anche alzando la voce, a tenere pulito e in ordine. «Raccogliamo i rifiuti e poi con una carriola li accumuliamo fuori per farli portare via dal comune che altrimenti qui dentro non verrebbe mai», spiega Gennaro. Comune da poco sciolto per mafia.

Ma la preoccupazione maggiore è evitare che nascano nuove baracche, qui e alla tendopoli. «Cerchiamo di convincerli e fino ad ora ci siamo riusciti, tranne per alcune baracche che ospitano spacci e negozietti autogestiti – sottolinea don Roberto –. Ma stanno arrivando altri migranti e se non sarà trovata un’altra soluzione non riusciremo più a impedire che facciano le baracche. Come potremmo farlo? Non me la sento. Cosa gli dico, di dormire all’aperto? Non voglio più celebrare funerali per ragazzi morti di freddo come l’anno scorso».

Spiega di aver segnalato questa grave situazione alla Prefettura, «ma mi hanno risposto che senza la denuncia dei proprietari della "fabbrichetta" non possono intervenire. Ma i proprietari ora sono delle banche....». Almeno, aggiunge, «ci portino dei bagni chimici, perché qui i rischi sanitari sono molto alti».

Malgrado la crisi economica e la ancor più grave crisi dell’agricoltura calabrese, i migranti continuano ad arrivare a Rosarno e negli altri paesi della Piana di Gioia Tauro. Se l’anno scorso le clementine venivano pagate 20 centesimi al chilo, quest’anno si è scesi a 8. Così la paga del lavoratore migrante è scesa da 25 a 15 euro al giorno. Sempre che si riesca a lavorare. Quando giriamo tra tendopoli e "fabbrichetta" è mattina ma gli africani sono quasi tutti qui. Niente lavoro oggi. E allora qualcuno si avvicina e chiede. «Mi dai due euro, ho fame». Elemosina. Non ci era mai accaduto in tanti anni. Altri mangiano mele. «Ce le ha date il Banco alimentare, sono arrivati due tir di mele e uno di uva», dice Bartolo Mercuri, presidente dell’associazione "Il Cenacolo" di Maropati che da più di 15 anni aiuta i migranti. «Non ne ho mai visti tanti come quest’anno, sono sicuramente più di 2.500, e sono molto più giovani», aggiunge sconsolato. È lui a farci da guida anche quest’anno.

Prima una tappa nelle campagne. In una casupola diroccata vivono in cinquanta, senza acqua né luce. Fuori, una accanto all’altra, la latrina (un buco per terra in mezzo ad un telo), e la doccia (altro telo almeno per la privacy). All’interno materassi e vecchie brande. In un ripostiglio anche il tappeto per la preghiera. Ci spostiamo nella zona vecchia di Rosarno, la zona delle "timpe". Casette non finite e diroccate. Qui venne quasi tre anni fa anche l’allora ministro per l’integrazione, Andrea Riccardi. Dopo la sua visita porte e finestre di questa catapecchie vennero murate, ma gli immigrati le hanno sfondate tornando all’interno. E anche qui la novità: «Mi dai due euro, non ho da mangiare...». Bartolo, per tutti "papà Caritas", li invita a venire al centro dell’associazione, dove si preparano pacchi alimentari e di vestiario. Di nuovo solo la presenza del volontariato.

Ci spostiamo alla tendopoli dove i volontari della Caritas diocesana riescono a offrire alcuni servizi, dall’assistenza legale alla scuola di italiano, gestita da suor Lina e suor Lidia. L’assistenza sanitaria la fa Emergency che da tre anni ha un ambulatorio a Polistena, in un palazzo confiscato alla ’ndrangheta assegnato alla parrocchia di Santa Marina Vergine, guidata da don Pino Demasi, sacerdote in prima linea sul fronte della legalità e dell’aiuto ai migranti. Alcune tende non reggono più l’acqua ma è toccato ancora una volta ai volontari della parrocchia di S. Antonio rimediare dei teli di plastica. Soli, assolutamente soli. Mentre il flusso dei giovani migrati non accenna a diminuire per riempire ancora una volta i ghetti di Rosarno.

6.2016/ Reportage. Rosarno, una tendopoli per i lavoratori immigrati, di Antonio Maria Mira

Riprendiamo da Avvenire del 23/7/2016 un articolo di Antonio Maria Mira. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (10/6/2018)

Sul grande prato incolto sono stati piantati dei lunghi picchetti di metallo collegati da una fettuccia in plastica bianca e rossa. Qui, nell’area industriale del comune di San Ferdinando, tra cinque giorni, come Avvenire è in grado di rivelare, comincerà a nascere la nuova e efficiente tendopoli per i lavoratori migranti. Una risposta al dramma e allo sfruttamento di centinaia di giovani africani che giungono a Rosarno e negli altri paesi della Piana di Gioia Tauro per la raccolta degli agrumi.  E finiscono in mano a caporali, imprenditori disonesti, mafiosi. Si chiude il capitolo della vecchia tendopoli diventata ormai una baraccopoli con più di mille persone, e se ne apre uno nuovo, nel nome dell’accoglienza, della solidarietà e della legalità. Con un grande lavoro di squadra che ancora una volta vede insieme istituzioni statali e locali, chiesa, associazioni e volontariato.

Ci saranno 44 grandi tende da otto posti, una zona cottura ogni cinque tende, un modulo infermeria, uno per la chiesa e uno per la moschea, uno per il deposito e uno per la guardiania.  Oltre a cinque container con bagni e docce. Sopra le tende delle tettoie di plastica per ripararle dalle corrosive deiezioni degli uccelli. Tutto a norma così come l’impianto idrico e quello elettrico. Quest’ultimo sarà aereo e con cavi di alluminio e non di rame, per evitare i furti che avevano colpito la vecchia tendopoli.

Ce lo spiega Sandro Borruto, funzionario della Prefettura di Reggio Calabria distaccato presso il comune di San Ferdinando, sciolto per infiltrazione della ’ndrangheta. Sarà proprio il comune, in collaborazione con la Regione, a realizzare a partire dal 28 luglio i primi lavori di allestimento, con la pulizia del terreno, gli allacciamenti, il fondo in ghiaia e la recinzione in “new jersey” donati in comodato d’uso gratuito dall’Anas. Per tutti questi lavori saranno invitate ditte presenti nella “white list” della prefettura, visto che siamo in zona ad altra infiltrazione mafiosa nelle imprese.  Anche per questo, ci spiega il prefetto Claudio Sammartino, «il cantiere e i mezzi saranno attentamente sorvegliati».

Costo dei lavori 60mila euro, parte del finanziamento di 300mila euro stanziato dalla Regione. Gli altri 240mila serviranno per le tende, acquistate con un bando e complete di impianto elettrico. Tutto procede speditamente e l’intenzione è di finire i lavori per settembre, in tempo per la prima “ondata” di arrivi, quella per la raccolta delle olive.

Eliminando contemporaneamente le vecchie tende e le baracche, anche per evitare che siano nuovamente occupate, con ulteriori rischi. Per la gestione del nuovo campo (quello vecchio di fatto non lo era) nascerà un’associazione che coinvolgerà la Croce rossa, Emergency, Medu, Libera, Caritas e altre associazioni. E anche gli stessi migranti. «In modo da esaltare il loro protagonismo e la capacità di autogestirsi», sottolinea il prefetto. Una gestione che, dunque, conferma la collaborazione tra istituzioni e associazioni.

«Deve esserci un impegno da parte loro – aggiunge Sammartino –. Le Forze dell’ordine devono fornire la cornice di legalità, ma è la società che si deve governare». Ma il nuovo campo è solo un primo passo, per sanare una situazione vergognosa e a rischio (nella tendopoli sono morti 5 migranti, l’ultimo ucciso in una colluttazione da un carabiniere). C’è poi il progetto di accoglienza diffusa per il quale il prefetto ha sollecitato i comuni e che dovrà coinvolgere anche le associazioni del mondo agricolo, per evitare che anche con le migliori intenzioni la tendopoli torni ad essere un ghetto. «Per questo serve un secondo passaggio, quello delle politiche di integrazione – conclude il prefetto – da parte della Regione e degli enti locali».

7.2018/ Ingiusta e nera è la morte. Soumaila, la sua vita e il suo lavoro, di Antonio Maria Mira

Riprendiamo da Avvenire del 5/6/2018 un articolo di Antonio Maria Mira. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (10/6/2018)

Soumaila aveva visto la morte da vicino quattro volte ma era riuscito a sfuggire. La morte che accompagna chi fugge dai drammi africani attraversando il mare verso la speranza di una vita. Anche Soumaila era su un barcone, non sappiamo se salvato da una nave militare o di un’Ong. Poi la Calabria, tendopoli-baraccopoli di San Ferdinando, unica "non scelta" per i lavoratori migranti di Rosarno e della Piana di Gioia Tauro.

La morte Soumaila l’ha vista da vicino tre volte, proprio qui, in questo non luogo. Lui regolare, regolarissimo, ma da sempre sfruttato da caporali e imprenditori italiani. Due volte la sua baracca è stata distrutta dalle fiamme. Il 3 luglio 2017 e il 27 gennaio 2018, quando le fiamme hanno ucciso la giovane Becky Moses. Soumaila, che in quelle baracche viveva, era invece riuscito a salvarsi. La sua baracca era stata distrutta due volte e due volte lui l’aveva ricostruita. Con materiale rimediato, raccolto in luoghi abbandonati, come la fabbrica dove è stato ucciso.

Una fabbrica dove degli italianissimi delinquenti avevano sotterrato 135mila tonnellate di rifiuti pericolosi. Un inquinamento che nessuno ha pagato. Tutto prescritto. Nessuno ha bonificato, i veleni sono ancora lì, in una località che, ironia della sorte, si chiama Tranquilla. E lì sono andati Soumaila e i suoi amici che sicuramente non sapevano niente di quei veleni. Per loro era solo un luogo dove recuperare materiale per costruire le baracche.

Soprattutto lamiere che resistono agli incendi. Ma sempre baracche. Baracche, solo baracche nella vita italiana di Soumaila, lavoratore della terra in nero e senza casa. Questa la sua «pacchia», come il neoministro dell’Interno, Matteo Salvini ha definito l’accoglienza dei 'migranti economici' in Italia. E tra un incendio e l’altro la morte ha preso anche le sembianze della malasanità, ancor più mala per i migranti, malgrado la legge preveda che abbiano pienamente diritto all’assistenza sanitaria.

Poco più di un anno fa, come ci racconta don Roberto Meduri, parroco a Rosarno, che lo conosceva bene, Soumaila si sente male, ha dolori fortissimi alla pancia, per giorni non tocca cibo. «Abbiamo chiamato più volte il 118, ma non gli volevano credere. Allora l’ho accompagnato io all’ospedale. Aveva un’ulcera perforata. L’hanno operato d’urgenza ed è rimasto in ospedale più di due settimane».

A vegliarlo di notte don Roberto e i volontari di varie associazioni. E anche quella volta Soumaila ce l’aveva fatta. Per un soffio. Ed è tornato alla sua baracca. Solo negli ultimi mesi aveva avuto diritto a un posto nella nuova tendopoli, ma spesso tornava nella vecchia baraccopoli, distante 200 metri, in parte rinata dopo l’ultimo incendio. Anche per il suo impegno da sindacalista. E lavorava, perché era un buon lavoratore, apprezzato per l’impegno. Anche se sempre sfruttato. Solo pochi giorni fa aveva avuto finalmente la notizia di un prossimo vero e sicuro contratto. Finalmente giustizia e diritti. Per sé, per la giovane moglie e la figlia di 5 anni lasciate nel Mali. Troppo tardi. Il suo gran cuore lo ha portato ad accompagnare i due amici. Tre persone diventate bersagli.

Un dramma che ha richiamato l’attenzione sulle condizioni di questi lavoratori. Regolari e sfruttati. Regolari, ma costretti a vivere in tendopoli, se va bene, o baraccopoli. Campi, sempre campi, più o meno organizzati, da tenere lontani, invisibili. Forse perché ci sarebbe da vergognarsi di questi luoghi. Anzi non luoghi, ma funzionali a un sistema economico che va avanti solo grazie a questi schiavi. Una 'pacchia' davvero! E non è solo responsabilità della ’ndrangheta. Lo è di chi dovrebbe offrire a questi lavoratori oltre che un vero contratto anche una vera casa. Impossibile? A pochi chilometri da dove Soumaila è stato ucciso, il bravo imprenditore Carmelo Basile lo fa con convinzione nella sua grande azienda di successo 'Fattoria della Piana'. E lo fanno anche i giovani della cooperativa Valle del Marro, che coltiva terreni confiscati alla ’ndrangheta.

Si può, anche qui. Ma la responsabilità è anche di tante distrazioni. Infatti noi riflettiamo quando ci sono i morti, ma perché i vivi non ci fanno riflettere? E anche i morti finiscono presto nel dimenticatoio: Yeroslav, 44 anni, ucraino, Man Addia, 31 anni, liberiano, Saidou, 36 anni, maliano, Sekine Traone, 27 anni, anche lui del Mali. E ancora altri due dei quali non siamo riusciti a sapere il nome. Morti in cinque anni nella tendopoli o nei campi, uccisi o consumati dal freddo e dagli stenti. E poi i dieci africani presi a sprangate all’inizio del 2016. Drammi che sui giornali durano lo spazio di qualche giorno. Ma che nulla o poco fanno cambiare in queste realtà. Verità e giustizia per Soumaila significa soprattutto occuparsi di queste persone senza aspettare di commentare il prossimo fatto tragico. E tanto più ora che invece di migliorare l’accoglienza, di garantire una vera simmetria tra diritti e doveri, sembra riaprirsi la scorciatoia degli slogan.