«Un prete che abitua alle mezze misure sciupa il suo tempo». Don Tonino D’Ammando, parroco dei Protomartiri, in una comunità chiamata alla santità. La sua vita fu un debito da “saldare”, una gratitudine che mette in movimento e diviene testimonianza, di Andrea Lonardo
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Riprendiamo dal sito Romasette di Avvenire un articolo di Andrea Lonardo pubblicato il 16/4/2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi della rubrica Ritratti romani, cfr. il tag ritratti_romani. Per altri testi cfr. la sezione Testi di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (28/1/2018)
Don Tonino ha vissuto per saldare un debito.
Una volta raccontò un fatto che può essere preso ad emblema della sua idea di sacerdozio. Ripensava alla borsa di studio che gli permise di formarsi al Capranica e disse: «Avrò reso grazie a chi mi ha offerto la possibilità di studiare solo quando avrò creato anche io una borsa di studio per un nuovo studente».
Ecco cosa era per lui l’essere parroco: esprimere la gratitudine per il dono della fede donandola ad altri, permettendo ad altri, con la propria testimonianza, di diventare cristiani.
Chi pensa con gratitudine al proprio passato generalmente ritiene che l’essenziale consista nel rendere grazie a chi ci ha fatto il dono. Per don Tonino l’essenziale era, invece, non trattenere il dono ricevuto, ma generare un dono ulteriore per chi ne fosse ancora privo.
Allo stesso modo si dona la vita, perché si è felici di averla ricevuta in dono: un figlio esprime la sua gratitudine ai genitori, non tanto quando dice loro grazie, ma quando diventa a sua volta genitore. Manifesta così di aver a tal punto compreso quanto grande sia il dono della vita ricevuta, da non poter continuare a vivere senza generare a sua volta dei figli.
San Paolo, scrivendo ai Romani prima di visitare per la prima volta l’urbe, dichiara: «Sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, ad annunciare il Vangelo anche a voi che siete a Roma» (Rm 1,14-15). Per lui il dono di aver ricevuto sulla via di Damasco l’apparizione di Cristo risorto era così grande da dover viaggiare per condividere tale incontro con chiunque non conoscesse ancora il Signore.
Era un debito. Non un debito fastidioso, come quando si deve pagare un mutuo, bensì la gioiosa consapevolezza di aver ricevuto un tesoro immeritato, un tesoro talmente necessario agli uomini che senza di esso non si potrebbe vivere, perché l’uomo non vive di solo pane. Paolo, una volta visitata Roma, intendeva partire per la Spagna per “saldare” il debito con quelle popolazioni che nemmeno conosceva, ma che mancavano della fede nel Cristo.
Ecco la vita di don Tonino: un debito da “saldare”, una gratitudine che mette in movimento e diviene testimonianza, la scoperta di Cristo che deve essere condivisa e donata.
Don Tonino era nato a Castel di Tora in provincia d Rieti nel 1918. Era stato prigioniero in un campo di concentramento degli alleati, nel corso della II guerra mondiale, quando venne catturato in Africa dagli inglesi. Finita la guerra era diventato ingegnere, trovando poi lavoro presso le acciaierie di Terni. La sua vocazione al sacerdozio era maturata lì, mentre da laico esercitava la sua professione. Venne quindi accolto al Collegio Capranica, appunto, sostenuto da benefattori che gli permisero di prepararsi all’ordinazione. La sua vocazione veniva allora definita “adulta”: divenne sacerdote nel 1957, all’età di 39 anni. Divenne vice-parroco a San Clemente e poi parroco a San Bruno alla Pisana.
Nella vita di una persona ogni momento è significativo e chissà quanti hanno beneficiato dell’incontro con don Tonino in queste prime tappe della sua vita. Ma esiste poi un luogo che ti definisce e che diviene la tua casa, la casa nella quale accogli gli altri. Come il popolo di Israele è identificato da una terra, così la casa di don Tonino è stata la parrocchia dei Protomartiri. Egli vi giunse nel 1968 e vi rimase come parroco fino al 1989 (continuando poi ad abitare lì fino alla morte).
In quegli anni non si pensava nemmeno all’ipotesi di essere trasferiti, una volta divenuti parroci di una grande parrocchia. Don Tonino è stato così parroco dei Protomartiri per 21 anni. Per più di due decenni è stato “padre” di quella comunità.
Più che le riunioni che proponeva, più che le catechesi settimanali che organizzava per gli adulti - al mattino, al pomeriggio e alla sera, in maniera che sia chi lavorava, sia i pensionati, avessero uno spazio di formazione -, ciò che lo caratterizzava era l’incontro personale. A qualsiasi ora uno fosse passato in parrocchia, lo avrebbe trovato seduto nel suo studio, in attesa.
Ascoltare, consigliare, confessare. Questa è stata la vita di don Tonino. Una vita semplice nella quale, più che da gesti particolari, il segno è stato lasciato dalla continuità. Esserci e continuare a ripetere i gesti che valgono: incontrare ogni persona della parrocchia che avesse avuto desiderio di un incontro. Attendere i parrocchiani, ma anche andare a trovarli, bussando alle porte delle loro case. Don Tonino conosceva ogni appartamento del quartiere, avendo più volte percorse le strade per la benedizioni delle case e, al contempo, era il primo ad essere chiamato ogni volta che qualcuno si ammalava.
Padre perché fedelmente presente. Padre perché sempre lì. Padre perché in attesa. Sempre e comunque.
L’altro pilastro della sua vita era la celebrazione domenicale. Don Tonino aveva una peculiare modalità di predicare. Scriveva a macchina l’omelia, tutta incentrata su di un’immagine di vita legata al vangelo. Poi la ciclostilava, imprimendola sulla cera, come allora si usava quando ancora non c’erano fotocopiatrici, computer e stampanti. Infine, dopo la proclamazione del Vangelo, la distribuiva e la leggeva. Quei fogli entravano nelle case, venivano conservati, creavano una memoria e un legame di anno in anno.
Anche nei funerali egli era abituato ad annunciare il vangelo alla stessa maniera. Fino al mattino componeva l’omelia e lo si trovava poi, pochi minuti prima della celebrazione, nella stanza del ciclostile a moltiplicare le copie. Quei fogli scritti per amore dei defunti della parrocchia e per sostenere i durissimi momenti dei parenti e degli amici erano come una carezza, nella quale don Tonino metteva a luce i suoi sentimenti verso chi aveva contribuito all’edificazione della comunità.
Alcuni di essi sono stati scelti e pubblicati insieme, come un florilegio di quel modo di guidare una comunità e accompagnarla nella gioia e nel dolore, in un volume intitolato Dall’alto del campanile. Lettere di don Tonino D’Ammando.
In una sua omelia, scritta per il 35° di sacerdozio e per il 25° della parrocchia dei Protomartiri, scriveva di aver salito a fatica, ormai vecchio, i 174 scalini del campanile, così come si era recato, lassù, in alto, quando la parrocchia era ancora in costruzione, non appena nominato parroco, per vedere in unico sguardo il popolo che gli era stato affidato: «Ci sono otto o novemila persone per le quali ho messo a disposizione il mio sacerdozio che non è mio, ma vostro, appartiene a voi perché era destinato a voi. Il cuore si deve dilatare sempre più, deve diventare di una paternità più vasta, più capace, più comprensiva, più misericordiosa, più tenera».
Ed aggiungeva, lui che si era legato al movimento Pro sanctitate, quasi precorrendo l’Esortazione Apostolica Gaudete et Exsultate: «Ma voi sapete che significa fare il prete? Fare il prete vuol dire aiutare ogni persona a essere in pari con il battesimo, a vivere in grazia di Dio, a fare Chiesa, ad andare verso gli altri, verso tutti. Se il prete non fa questo, perde tempo. Se il prete non aiuta le persone a essere un po’ più buone, cioè a farsi sante, perde tempo, sciupa il tempo, spreca il tempo. Perché questa è la vocazione di ogni uomo: Dio ci chiama a essere santi. Non solo a essere buoni, ma a essere santi, a essere pieni e perfetti nell’amore. Non alle mezze misure, non ad accontentarsi, non al pressappoco, non al quasi, ma alla misura completa».