1/ Riconciliazione. I parenti del beato Rivi incontrano la figlia del suo assassino. Il quattordicenne venne ucciso in odio alla fede il 13 aprile 1945 da un gruppo di partigiani accecati dall’ideologia comunista che lo sequestrarono e lo sottoposero a torture orribili, di Edoardo Tincani 2/ Il perdono per l’assassinio di Rolando Rivi. «Solo il bene è fecondo». Settantatré anni dopo la sua uccisione, Meris Corghi ha chiesto perdono per ciò che fece suo padre. La sua lettera, la risposta del cugino del beato e le parole di don Camisasca 3/ 130 sacerdoti uccisi dalla Resistenza prima e dopo la fine della guerra. Roberto Beretta racconta la “strage nascosta” compiuta in Italia dai partigiani
1/ Riconciliazione. I parenti del beato Rivi incontrano la figlia del suo assassino. Il quattordicenne venne ucciso in odio alla fede il 13 aprile 1945 da un gruppo di partigiani accecati dall’ideologia comunista che lo sequestrarono e lo sottoposero a torture orribili, di Edoardo Tincani
Riprendiamo da Avvenire del 14/4/2018 un articolo di Edoardo Tincani. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Resistenza e liberazione.
Il Centro culturale Gli scritti (22/4/2018)
Il luogo del martirio di Rolando Rivi, il seminarista
quattordicenne torturato e ucciso dai partigiani
Questa domenica, 15 aprile, alle 17.30, a San Valentino di Castellarano in provincia di Reggio Emilia, il vescovo Massimo Camisasca presiederà la Messa nel 73° anniversario del martirio del beato Rolando Rivi.
La celebrazione avrà luogo nell’antica pieve che, su disposizione dello stesso Camisasca, al titolo di parrocchia dei Santi Valentino ed Eleucadio martiri affianca ora quello di Santuario del beato Rolando Rivi martire. Qui infatti il piccolo Rolando fu battezzato l’8 gennaio 1931 e, all’età di cinque anni, iniziò a servire all’altare come chierichetto; qui, guardando al suo parroco, don Olinto Marzocchini, maturò la vocazione al sacerdozio. Rolando entrò poi nel Seminario di Marola a 11 anni e, quando nel 1944 il Seminario venne chiuso a causa degli eventi della seconda guerra mondiale, continuò a casa la sua vita da seminarista avendo la pieve di San Valentino come punto di riferimento. Il quattordicenne venne ucciso in odio alla fede il 13 aprile 1945 da un gruppo di partigiani accecati dall’ideologia comunista che lo sequestrarono e lo sottoposero a torture orribili, finché il commissario politico, condotto Rolando in un bosco, lo uccise con due colpi di pistola mentre il seminarista pregava di fianco alla buca scavata per lui nel terreno.
Nonostante i tormenti patiti Rivi rinnovò sino alla fine il suo «sì» a Cristo. Là dove l’ideologia e l’odio della guerra sembravano dominare incontrastati, fece risuonare alto il suo amore per il Signore. E domani nella Pieve di San Valentino, dove le spoglie mortali di Rolando Rivi riposano nell’altare maggiore, si vivrà uno storico gesto di riconciliazione attraverso l’incontro fra la figlia di colui che premette il grilletto contro l’innocente, nello spirito della richiesta di perdono cristiano, e i parenti più prossimi del seminarista oggi beato.
2/ Il perdono per l’assassinio di Rolando Rivi. «Solo il bene è fecondo». Settantatré anni dopo la sua uccisione, Meris Corghi ha chiesto perdono per ciò che fece suo padre. La sua lettera, la risposta del cugino del beato e le parole di don Camisasca
Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo redazionale pubblicato il 16/4/2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (22/4/2018)
Meris Corghi, figlia del partigiano Giuseppe, e Rosanna
Rivi, sorella di Rolando, si stringono la mano
«Rolando quando è morto aveva 14 anni, era un granello di senape, per dirla con l’espressione del Vangelo. In realtà sta crescendo un albero perché persone da tutta Italia vengono qui e da tutto il mondo. Che cosa vedono in Rolando? Io penso una passione. E la passione, quando è autentica, genera sempre nuova vita». Ha usato queste parole, il vescovo di Reggio Emilia, don Massimo Camisasca, in un’intervista precedente la celebrazione che si è svolta ieri alla Pieve di San Valentino, per spiegare chi fosse il beato Rolando Rivi, il giovane ucciso dai partigiani il 13 aprile 1945 in odium fidei.
«IL MALE È INFECONDO». Quella di ieri è stata una giornata straordinaria perché Meris Corghi, figlia del partigiano Giuseppe che uccise il giovane seminarista, ha chiesto perdono ai fratelli e al cugino del beato, Alfonso, e ad altri familiari. Un gesto dal «valore enorme – sempre per usare le parole di Camisasca – per l’itinerario compiuto dentro di lei. Nello stesso tempo un valore enorme perché lei è arrivata a riconoscere che il male non ha ragioni nell’uomo. E soprattutto è infecondo ed è mortale e che quindi al male bisogna contrapporre il bene, il perdono. Oggi, si noti, non è soltanto un perdono chiesto, ma è un perdono donato. Questo incontro è sicuramente importante e sarà sicuramente fecondo. Io spero l’inizio di una serie di altri perdoni».
SEME DI PACIFICAZIONE. I lettori di Tempi conoscono la vicenda di Rolando e, secondo il vescovo, è una vicenda che ancora oggi ha molto da insegnarci: «Soprattutto perché – ha detto ancora Camisasca – aiuta a rendersi conto quale significato abbia per il popolo cristiano e per tutta la comunità della provincia di Reggio e di Modena. Perché questi eventi così grandi si possono comprendere soltanto nel tempo e i significati sono due: il primo è quello di una vita offerta a Cristo. Lui diceva “io sono di Gesù”, in fondo è l’unica parola che abbiamo di Rolando. In secondo luogo è un seme di pacificazione di cui c’è molto bisogno e anche ciò che avviene qui oggi spero sia un seme di pacificazione».
LE PAROLE DI MERIS CORGHI. In una chiesa colma di fedeli, Meris Corghi ha chiesto perdono, leggendo una lettera toccante:
«Giuseppe Corghi era mio padre. Io sono Meris, Meris Corghi e sono onorata di essere qui. Durante un percorso che mi ha trasformato profondamente nell’animo, ho sentito che c’era qualcosa che dovevo fare, ma non sapevo cosa. Non sapevo praticamente nulla di questa vicenda, perché io non ero nata all’epoca e dopo ero troppo piccola per capire i discorsi. Ma, piano piano hanno cominciato ad affiorare dei tasselli, ho cominciato a pormi delle domande e ho iniziato un cammino che mi ha portato fino a qui oggi. Non ho quasi idea di come sia successo, so soltanto che è stato come essere guidata. Sì, sono stata guidata, forse dalla presenza di mio padre nel cercare una risoluzione per poter ritrovare la pace. Forse dalla luce divina che ognuno di noi porta nel cuore, forse dallo stesso beato Rolando che desidera più di ogni altro in questo momento storico e decisivo per il mondo l’unione e la pace.
Io sono solo la figlia e la risposta che ho trovato nel cuore è stata: siamo tutti figli, figli dello stesso padre e fratelli, ognuno con i suoi personali fardelli. Vi chiedo con immensa umiltà di permettermi di pronunciare queste parole che mi sono state dettate dal cuore. Sono una figlia anche io, come tutti.
Ho sempre pensato a mio padre come ogni figlia dovrebbe pensare a un padre: una forza, un pilastro, un punto di riferimento. Da lui ho saputo sempre molto dell’amore e molto poco della guerra. Lui era mio padre, il mio esempio. Mi faceva ballare, mi faceva girare sulle punte come una ballerina. Era tutto. È impegnativo per me essere qui ora, quello che ha stravolto la vita di mio padre e ha travolto la vita di Rolando è l’odio che cresce tra gli uomini e si trasforma nella guerra.
Una notte di Natale la guerra si fermò e tutti furono solo uomini mentre dalle trincee salivano i canti di Natale. Una tregua per gli uomini e uno smacco al grande separatore. Una pietra miliare di pace come quella che stiamo creando oggi. Guardarsi nei cuori le scelte che ogni giorno facciamo possono portare la vita e la pace o l’odio e la guerra. Siamo tutti responsabili della pace di domani a partire da ora, di ogni singolo istante. “Prenderai per mano tuo fratello, lo sosterrai, lo aiuterai a volare o lo invidierai, lo giudicherai e lo abbatterai nella polvere?” Nessuno tocchi Caino, quel Caino che Cristo stesso sulla croce ha salvato.
Siamo tutti fratelli e nella guerra tutti perdiamo. Avete perso Rolando e si è perduto mio padre, ma Cristo ha salvato tutti gli uomini. Prima di spirare sulla croce usò il suo ultimo fiato solo per perdonare i suoi carnefici. “Padre perdona loro perché non sanno”.
Io credo che nessuno di quei soldati che hanno combattuto e quelli che combattono oggi sappiano realmente cosa stanno facendo e perché. Le ragioni economiche e di potere, la voglia che il grande separatore ha di distruggere. E come ride sul mondo ogni volta che gli permettiamo di faro. Lui, il burattinaio e i potenti burattini nelle sue mani. In cambio di vanagloria questo potere uccide la vita degli altri, la calpesta e la travia, usiamo gli ideali degli uomini e li mette l’uno contro l’altro e non si comprende più che l’ideale supremo è la vita, la vita è l’ideale supremo. Adopera questa fiamma del cuore per i propri loschi fini, alimenta l’odio, soffiando con la sua bocca vorace. Il risultato, se non ci fermiamo adesso, sarà un’esplosione un’immensa esplosione.
Quello che sono venuta a dire qui oggi è che l’unico movimento che può invertire questo processo è l’unione. Se gli uomini si uniscono nel cuore diventano forti, diventano una grande anima, diventano davvero la manifestazione del creatore. E come la luce si è propagata da un solo punto nel cuore di Dio in tutto l’universo, ognuno dei nostri sacri cuori può diffondere questa luce sulla terra.
La fiamma può essere accesa da un’emozione profonda, un’emozione che si trova solo quando ci si arrende alla Grazia. Arrendiamoci a Dio nel perdono e mettiamo una fiamma di luce, diventiamo esempi della Grazia. Gesù è la strada e noi siamo la sua pace.
Sono qui oggi per restituire le responsabilità, io qui, oggi, figlia non sono venuta tanto a chiedere perdono per mio padre, ma a chiedere perdono per l’odio che scatena la guerra. Vinciamolo con la pace, perdoniamoci oggi, facciamolo qui, diamo un segnale forte della nostra volontà di risurrezione. E ora, è ora per la vita di riconciliarsi con la vita. Vi prego partiamo da qui per fare un mondo nuovo. Le responsabilità ultime dell’odio non sono degli uomini, ma dei creatori di queste guerre di tutte le guerre che ci usano e ci rendono tutti perdenti. Ma noi abbiamo l’arma più potente di tutte, noi abbiamo un cuore, possediamo il potere dell’amore e siamo tanti. Il loro odio non sopravvivrà al nostro amore.
Ognuno di noi nelle atrocità dei conflitti ha perso qualcuno: un fratello, un padre, un cugino, una madre, una figlia, un nonno, un bisnonno: nessuno è stato risparmiato, ma noi qui oggi possiamo diventare una valanga di amore, che questa stretta di mano diventi simbolo della vittoria dell’amore Dio, un’esplosione di luce che parte da qui e si propaga in tutto l’universo. L’unica vera esplosione e mi permetto di parlare a nome di tutti, sia quella della gioia sui sentieri dei nostri figli. Facciamo che diventino creatori di pace come lo è diventato il beato Rolando in questa vicenda e come cerco di esserlo io in questo momento nella memoria di mio padre. Che nessun ordine dato dai signori della guerra possa più abbattere i nostri figli. E non ci saranno più figli perduti né padri con la colpa di essere rimasti vivi. Siamo purtroppo tutti figli della guerra. Combattere significa cercare di restare vivi. Questa stretta di mano tra le nostre due famiglie sia il simbolo della giusta espiazione per l’odio fraterno per ogni padre, per ogni nonno, per ogni bisnonno che ognuno ha nella nostra famiglia tornato vivo dalla guerra.
Che questa stretta di mano possa essere la mano tesa di Gesù sulla genealogia di tutte le nostre famiglie annullando i conflitti, che ognuno di noi oggi possa andare a casa libero, risorto.
Ognuno ha un compito nella vita, una missione, la mia era fare ritrovare la pace a mio padre e tentare di riconciliare i nostri cuori. Con l’aiuto di Dio oggi si compirà dentro una stretta di mano.
Trasformati nella morte e riuniti dall’amore e dal perdono del Padre, che il sorriso di Rolando possa risplendere su tutti voi e accanto a lui anche quello di mio padre. Ciò che l’odio del separatore ha diviso possa riunirsi nell’amore del sacro Cuore di Gesù e nell’amore del Padre.
Vi imploro a nome di tutte le vittime di tutte le guerre: pace, pace, pace. Ringrazio profondamente i famigliari del Beato Rolando, che hanno accolto questa richiesta di riconciliazione aprendo il loro cuore in questo giorno speciale. E ringrazio tutti, ma proprio tutti voi che siete qui. Grazie a tutti.
Una stretta di mano a volte non basta, altre volte è un’esplosione di amore che può trasformare il mondo, questa è una di quelle volte. Prego Rosanna Rivi, sorella di Rolando e Maria moglie di Guido, suo fratello, di avvicinarsi e a voi di unirvi a noi in questa stretta di mano».
LE PAROLE DI ALFONSO. Commossa la risposta di Alfonso, che ha accolto la richiesta di perdono con queste parole:
«Rolando era per i fratelli Rosanna e Guido e per noi cugini l’amico prediletto per ogni gioco. Da giovane seminarista fu il maestro che ci ha introdotto a ciò che veramente conta: la fede in Dio. La sua morte ha segnato le nostre vite con un dolore profondo, illuminato però da quella stessa fede, da quello stesso affidarci al Signore che Rolando ci aveva testimoniato e insegnato. Nel martirio di Rolando abbiamo visto fiorire nel tempo un bene sempre prezioso come nel giorno della beatificazione quando siamo stati inondati dalla commozione e dalla letizia. Nei nostri cuori rimaneva però una segreta speranza che cioè anche la violenza usata contro Rolando fosse in qualche modo redenta perché la vittoria del bene sul male potesse giungere alla sua pienezza. Per questo oggi abbiamo colto con gioia la presenza di Meris Corghi fra di noi, come fosse una sorella. Alla sua domanda di perdono rispondiamo di cuore col dono del perdono. Un dono che non è roba nostra ma viene da Dio per primo in Cristo, come insegnava Rolando: ci ha amati, perdonati e redenti. Ricordo che Rolando diceva: se vuoi bene a Gesù, vuoi bene a tutti. Grazie Rolando, grazie Meris per il gesto che hai fatto».
3/ 130 sacerdoti uccisi dalla Resistenza prima e dopo la fine della guerra. Roberto Beretta racconta la “strage nascosta” compiuta in Italia dai partigiani
Riprendiamo dal sito dell’agenzia di stampa Zenit un’intervista pubblicata il 24/4/2005. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (22/4/2018)
Tra la fine del 1943 e i primi mesi del 1948, in Italia si assistette alla giustizia sommaria di più di un centinaio di sacerdoti, colpevoli – nella maggior parte dei casi – di aver stigmatizzato dal pulpito “le ruberie e gli eccidi compiuti dai partigiani” o di essersi opposti “alla politicizzazione in senso comunista della Resistenza”.
Autore di un libro pubblicato recentemente da “Piemme” col titolo di “Storia dei preti uccisi dai partigiani”, Roberto Beretta, giornalista di “Avvenire” e scrittore, in una intervista rilasciata a ZENIT racconta la storia di questi sacerdoti, e chiede che gli venga “restituita la dignità defraudata da tante censure e silenzi”.
Tema scottante e poco noto quello dei sacerdoti uccisi dai partigiani. Quante furono le vittime e quali le motivazioni di questa violenza omicida?
Beretta: 130 sacerdoti uccisi tra l’8 settembre 1943 (giorno dell’armistizio) e il 18 aprile 1948 (data delle elezioni vinte dalla Democrazia Cristiana): ecco le cifre della “strage nascosta” compiuta dalla Resistenza prima e dopo la fine della guerra.
Si è parlato infatti, anche se non molto, delle vittime del famoso “triangolo rosso” emiliano tra Reggio, Bologna e Ferrara; ma nessuno finora aveva messo insieme e forse nemmeno immaginava che fossero così numerose le storie di preti uccisi dai partigiani nel Nord Italia.
Togliamo pure una cinquantina di sacerdoti assassinati ai confini orientali, tra Venezia Giulia ed ex Jugoslavia, in maggioranza dai partigiani di Tito: costoro meriterebbero un libro a sé, per la commistione di cause ideologiche e nazionalistiche nel loro assassinio.
Ma ciò che forse colpisce di più è che sono stati ben 80 i sacerdoti ammazzati nelle “civilissime” e “democratiche” regioni del Nord Italia: 28 nell’Emilia Romagna del suddetto “triangolo”, certo, ma ben 14 in Toscana, 12 nel “partigiano” Piemonte, 5 in Liguria, 4 nelle Marche, 3 in Lombardia e altrettanti nel Veneto…
C’era un piano preordinato o furono vittime dell’odio ideologico contro la fede e contro la Chiesa cattolica?
Beretta: Questa è la domanda che spero affiori alla mente di chi scorrerà la mia ricerca. Perché sono stati uccisi questi preti? Erano davvero così fascisti da aver bisogno di essere “epurati”, nella foga della liberazione? Beh, bisogna distinguere. Fascisti – nel senso di un’adesione poco critica e di accettazione di cariche dal regime – erano 6 o 7, non di più: forse nei loro confronti si può capire (non certo giustificare!) la brutale esecuzione senza processo né difesa. Poi c’è una dozzina di cappellani militari della Rsi: ma si può giudicare “collusione col fascismo” la scelta di portare assistenza spirituale ai soldati di Salò? Restano comunque gli altri 60, e viene da chiedersi quali fossero le loro colpe.
Alcuni furono uccisi per rapina, pare; altri per vendetta personale o perché erano “padroni” (il Pci aveva lasciato credere ai suoi militanti che, per preparare la “nazione socialista” del futuro, bisognasse far fuori i capitalisti…); parecchi perché dal pulpito avevano invitato i giovani ad arruolarsi nell’esercito di Salò – sembrava a molti il male minore – oppure avevano stigmatizzato le ruberie e gli eccidi compiuti dai partigiani.
C’era un progetto preordinato in tutto ciò? Difficile dimostrarlo. Difficile del resto che Togliatti o i massimi vertici del Pci avessero ordinato una strategia del genere. Di certo coprirono le stragi partigiane, facendone fuggire i responsabili all’estero (vedi il caso di don Pessina ucciso a Correggio nel 1946), allargando le maglie dell’amnistia, intimidendo i testimoni e scoraggiando i processi.
Diversi tra i sacerdoti uccisi erano stati cappellani e attivi nella Resistenza contro l’occupazione nazifascista dell’Italia.
Perché divennero vittime di coloro che avevano aiutato?
Beretta: Questi sono i casi politicamente più sconcertanti. Qualcuno dei “miei preti”, infatti, fu addirittura ucciso perché era cappellano dei partigiani, quelli “bianchi” o cattolici, e si opponeva alla politicizzazione in senso comunista della Resistenza.
C’è il caso di un francescano veneto che operava in Piemonte, padre Ottorino Squizzato: attirato con il suo comandante in un agguato e trucidato da partigiani comunisti. Il caso di don Attilio Pavese, dalle parti di Tortona: lo fecero fuori col pretesto di un tentativo di fuga dei prigionieri che stava confessando, prima che venissero fucilati.
Ma forse il più commovente è il caso di don Giuseppe Jemmi, vice-parroco a Felina sull’Appennino reggiano: andò egli stesso a cercare i partigiani suoi assassini, che non l’avevano trovato in canonica, pensando che avessero bisogno di lui. Accortosi che l’avrebbero ucciso, scappò ma lo ripresero; altri partigiani suoi amici cercarono di liberarlo facendoselo affidare; ma nulla poté salvarlo: fu ucciso a 26 anni, a una settimana dal 25 aprile, perché aveva osato dire in predica che chi uccide è sempre un assassino, anche se porta la camicia rossa.
Parafrasando la storica Elena Aga Rossi, in una parte del libro lei sostiene che i preti uccisi dalla Resistenza debbano essere per lo meno proclamati “martiri del 18 aprile”, ovvero delle elezioni che nel 1948 impedirono che l’Italia diventasse uno Stato socialista. E’ evidente che in moltissimi casi i sacerdoti furono uccisi per la loro fede in Cristo, e infatti la Chiesa sta valutando la loro possibile beatificazione, ma mi sembra di capire che lei sia favorevole a veder riconosciuto loro il “martirio”, com’è avvenuto per le vittime della persecuzione religiosa del 1936-1939 in Spagna. Può precisarci il suo punto di vista?
Beretta: No, in realtà io mi limito a farmi una domanda, la seguente: la memoria di questi ed altri eccidi “rossi” ha influito, e come, sulle elezioni del 1948? La mia (e di altri studiosi ben più qualificati di me) risposta è affermativa: in un clima emotivo molto caldo come quello che precedette le elezioni del 18 aprile, credo che il ricordo di ingiustizie così palesi come l’assassinio impunito di tanti innocenti sacerdoti giocò, alla fine, contro coloro che li avevano voluti o coperti.
In questo senso considero i miei preti “martiri del 18 aprile”: il loro sacrificio, cioè, non è stato vano, anzi si può accostare a quello di chi perse la vita nella Resistenza perché l’Italia tornasse ad essere libera e democratica. Quanto al riconoscimento canonico del martirio, quello spetta alla Chiesa. La quale non sempre ha dimostrato il suo coraggio e tanto meno la sua riconoscenza verso i preti assassinati: a volte, infatti, li ha completamente dimenticati, mostrando di credere alle calunnie che gli assassini facevano circolare per giustificare il loro delitto (di solito si diceva che i sacerdoti uccisi erano spie, o fascisti, o che avevano un amante: così la vittima veniva uccisa anche nella memoria…).
Ancora oggi, a 60 anni di distanza dai fatti avvenuti, c’è chi ha paura di parlare, chi preferisce “lasciar perdere”. Solo in alcuni casi è in atto un recupero di queste figure, compresi alcuni processi di beatificazione in progetto.
A 60 anni dalla Liberazione del nostro Paese, lei chiede di restituire alla memoria delle vittime l’onore della verità. Auspica quindi che i responsabili di quelle ideologie, che portarono all’assassinio dei sacerdoti, facciano un pubblico mea culpa?
Beretta: Non pretendo tanto: se la vedano con la loro coscienza. Però, cercando in infinite telefonate e contatti le loro storie, ho imparato a voler bene ai “miei preti”. Ecco, vorrei che a loro fosse restituita la dignità defraudata da tante censure e silenzi.
Alcuni di questi preti sono stati “prelevati” di notte e mai più ritrovati; per pochissimi è stato fatto un processo; molti risultano tuttora diffamati in modo gravissimo; di quasi nessuno si può parlare senza sentirsi dare del “fascista” o del “nostalgico”; ancora oggi, nell’indagare queste storie, ho incontrato paura ed omertà.
La nostra Repubblica è cresciuta portandosi dentro ferite profonde come queste. E credo che non potrà mai essere quella che gli stessi patrioti della Resistenza sognavano se non avrà il coraggio di affrontare tali nodi.