La storia di Rebecca, ex schiava di Boko Haram: “Ho vissuto l’inferno, sono viva grazie alla fede”. La testimonianza della donna nigeriana, protagonista a Roma dell’evento “Colosseo Rosso”, sui due anni di prigionia e violenze da parte dell’organizzazione terroristica africana, di Andrés Beltramo Álvarez
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Riprendiamo da La Stampa del 28/2/2018 un articolo di Andrés Beltramo Álvarez. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione La libertà religiosa e la persecuzione delle minoranze.
Il Centro culturale Gli scritti (18/2/2018)
Rebecca Bitrus a Roma con il sacerdote nigeriano
Joseph Fidelis (foto: Andrés Beltramo Álvarez)
Due anni di calvario, 24 mesi di sequestro, abusi e violenze. A soli 28 anni Rebecca Bitrus è scesa nell’inferno, ma è sopravvissuta. In Nigeria, suo paese natale, è caduta nelle mani dei terroristi di Boko Haram che l’hanno sfruttata e violentata. Ha perso un figlio per aver rifiutato di rinunciare alla sua fede cristiana ed è riuscita a liberarsi quasi miracolosamente. Superata la tragedia ha realizzato il sogno della sua vita: incontrare il Papa in Vaticano. Dopo averlo fatto, ha esclamato: «Sono contenta, se dovessi morire adesso lo farei avendo raggiunto la massima felicità».
«Voglio raccontare la mia storia, la fede mi ha aiutato a sopravvivere e voglio dire a tutti che l’unica cosa che ci salva è Dio» ha affermato la donna, con una voce flebile, appena percepibile, e in un dialetto africano quasi incomprensibile, a Vatican Insider che l’ha incontrata nei giorni scorsi nella Casa del Clero di via della Scrofa, a Roma. Nella capitale, questa ragazza giovane e timida è stata ospite d’eccezione dell’iniziativa di Aiuto alla Chiesa che Soffre “Colosseo Rosso” dedicata ai cristiani perseguitati; sabato scorso, 24 febbraio, insieme ai familiari di Asia Bibi, è stata ricevuta da Papa Francesco nel Palazzo apostolico.
Seduta su un divano, alternando la commozione a momenti di vergogna, Rebecca ha raccontato la sua storia: «Sono stata sequestrata da Boko Haram, sono arrivati il 28 agosto del 2014». Dogon Ghukwu Kangarwan Bagi è il nome della sua comunità, situata al nord dello Stato nigeriano del Borno, al confine tra Ciad e Niger. Al momento dell’attacco la ragazza aveva provato a fuggire con suo marito e i suoi figli, Zacarías e Jonatan. «Lascia il bambino e scappa, posso prendermi io cura di lui, sono una donna», ha detto al marito quando ha visto che il piccolo ne ritardava la fuga. La paura era che il suo sposo fosse catturato e reclutato come soldato.
L’uomo è riuscito a fuggire, lei invece è stata rapita e portata in un campo. «Mi hanno trasformato in una schiava. Ho lavorato per loro, ho cucinato, ho pulito e lavato i vestiti. Dopo un anno mi hanno chiesto di diventare musulmana, ma non volevo rinunciare alla mia fede. Credo in Gesù e qualunque cosa mi facciano non cambierò la mia opinione», ha detto.
Nel campo, situato in un’area strategica vicino ad un enorme fiume, Rebecca ha conosciuto altre schiave che venivano portate da tutta la regione. Quando venivano attaccati dai soldati nigeriani, i terroristi usavano le donne come scudi umani. Durante la prigionia i miliziani hanno cercato di convertire la ragazza all’Islam in ogni modo; dopo circa un anno hanno perso la pazienza e l’hanno rinchiusa in una gabbia sottoterra per tre giorni, senza cibo nè acqua. Ma non hanno ottenuto il loro obiettivo. Quindi hanno preso Jonatan, il figlio di poco più di un anno, e lo hanno gettato nel fiume dove è annegato quasi immediatamente.
La scena ha lacerato il cuore della donna, ma non le ha impedito di andare avanti. Quella stessa notte alla donna è stato assegnato un nuovo marito; le hanno dovuto legare mani e piedi perché lui potesse abusare di lei. È rimasta incinta e ha partorito il bambino nella foresta, da sola. Lo hanno chiamato Abramo, ma la madre ha subito cambiato il suo nome in Cristoph.
Nel 2016 Rebecca Bitrus ha ottenuto la libertà, fuggendo durante un attacco delle forze nigeriane sul campo. Ha preso i suoi due figli ed è scappata nella direzione opposta dei terroristi. Ha camminato per 28 giorni, pensando che la strada la portasse nel centro della Nigeria, invece ha finito per attraversare il confine ed entrare nel Niger. È sopravvissuta mangiando erba. Sulle sue gambe conserva ancora i segni indelebili di quella marcia, decine di piccole ferite trasformatesi in calli.
Giunta vicino ad un lago, la giovane voleva abbandonare il figlio di Boko Haram. Non lo sentiva suo. Era il ricordo della violenza subita, ma non ha avuto il coraggio di farlo. Alla fine è riuscita ad intercettare l’esercito nigeriano che l’ha riportata nel suo paese, a Maiduguri, capitale del Borno. Lì è stata consegnata alla Chiesa cattolica e ha ottenuto un posto dove dormire, cibo e vestiti.
Tra emozione e dolore ha ritrovato il marito. Con difficoltà, è riuscita a malapena a spiegare che aveva perso Jonatan e che Cristoph era il frutto dello stupro di un terrorista. «Pensavo che fossi morta. Mi basta vederti tornare viva, ti amo così come sei», le ha risposto l’uomo tra le lacrime.
La famiglia risiede ora in un’abitazione di fortuna, parte di un edificio ancora in costruzione progettato inizialmente come segreteria episcopale della diocesi di Maiduguri. Con loro vivono altre 200 persone, tra adulti e bambini. Nessuno osa tornare nei propri villaggi, collocati nel raggio d’azione di Boko Haram.
Rebecca ora sorride e si emoziona a ricordare l’incontro con Papa Francesco di sabato scorso. «Sono molto contenta, se dovessi morire adesso lo farei avendo raggiunto la massima felicità. Tutta la sofferenza l’ho lasciata alle spalle, ho perdonato e sono felice di aver incontrato il Papa. È la gioia più grande per me».
«Al Santo Padre – ha proseguito – ho raccontato la mia storia e gli ho detto che il mio unico motivo di orgoglio è di non aver rinunciato alla mia fede. La cosa importante è che l’ho fatto non con la mia forza, la mia volontà, ma grazie a Dio che mi ha aiutato e mi ha sostenuto mentre ero nelle mani dei terroristi che mi torturavano e violentavano. La fede mi ha aiutato a sopravvivere». Il Pontefice ha apprezzato la testimonianza della donna e le ha assicurato che il figlio morto «ora sta con Dio», poi le ha chiesto di accettare il bimbo di Boko Haram come se fosse suo, perché, nonostante tutto, «anche lui è un dono di Dio».
«Durante la mia sofferenza – ha confessato Rebecca – ho ricordato la passione di Gesù, che è stato crocifisso ma ha perdonato che gli faceva del male. Quando pensavo a questo, mi dicevo: io voglio imitare Gesù, voglio perdonare queste persone. Questo mi ha dato la forza interna per vivere quei momenti terribili».