Don Gianni Todescato (1929-2016), prete fedele alla sua comunità: il parroco romano che fece le prove con Paolo VI della messa in italiano voluta dal Concilio, di Andrea Lonardo
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Riprendiamo dal sito Romasette di Avvenire un articolo di Andrea Lonardo pubblicato il 9/3/2018 nella rubrica Ritratti romani. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli della stessa rubrica, cfr. il tag ritratti_romani. Per altri testi, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (11/3/2018)
Don Gianni Todescato, a Concilio Vaticano II ancora in corso, fu invitato da Paolo VI per ben tre sere consecutive, in preparazione alla prima messa celebrata in italiano. Don Gianni lo raccontò pubblicamente, con la discrezione che gli era abituale, in occasione dell’anniversario dell’evento.
Nella cappella privata di papa Montini, il papa stesso, due studiosi e l’allora giovane parroco di Santa Chiara provarono più volte le varie parti della nuova messa, senza ancora celebrarla, discutendo di ogni suo passaggio, dell’adattamento dei gesti da compiere e delle parole da dire. Il papa volle proprio lui, a rappresentare il clero romano, in quelle tre sere propedeutiche alla celebrazione del 7 marzo 1965, la prima in lingua “volgare”, che cambiò da allora il modo di celebrare la liturgia - i segni del cambiamento sono evidenti negli stessi affreschi della parrocchia di Santa Chiara; la chiesa venne costruita nel 1962 con l'altare a muro e l'affresco con il Crocifisso e l'Ultima Cena era dipinto al di sopra di tale altare, ma, a Concilio finito, l'altare venne spostato in avanti e il pittore spagnolo Mariano Villalta Lapayes dovette ridipingere dopo il 1965 la parte bassa non più occupata.
Don Gianni era arrivato a Roma alla fine degli anni ’50 dalla diocesi di Vicenza (era stato ordinato sacerdote nel 1951). Aveva risposto all’appello di Pio XII che chiedeva una disponibilità di preti di altre diocesi italiane per le parrocchie romane, preoccupato com’era della carenza di clero e della scristianizzazione che toccavano la città del papa.
Quel giovane prete veneto divenne subito vice-parroco e si mise a disposizione anche per offrire conferenze, ove necessario, nei diversi quartieri di Roma, in particolare presentando la figura di Cesare Pavese ed il suo rapporto con il “mistero”.
Fin da subito appare così uno degli elementi che sarà caratteristico del ministero di don Gianni: l’attenzione alla cultura ed anzi la stima e il rispetto per essa, in quanto espressione della ricerca dell’uomo. Don Gianni non aveva titoli particolari di studio - allora questo era abituale per il clero - ma studiava con grande fedeltà e passione da autodidatta. Ogni parrocchiano di Santa Chiara lo ricorda camminare avanti e indietro nel parcheggio della parrocchia, leggendo i suoi amati libri subito dopo pranzo.
Questo desiderio di aggiornarsi, di conoscere le ultime pubblicazioni e ricerche, lo caratterizzò sempre, tanto era peculiare della sua fede. Non leggeva molti libri di esegesi o di teologia, ma, oltre ai diversi quotidiani, non cessava di interessarsi alla letteratura, alla musica, all’arte, all’economia, alla politica, alla sociologia, alla filosofia, a tutto ciò che l’uomo aveva prodotto e produceva nella storia.
Questa attenzione nasceva da un vero amore cristiano alla vita. Non aveva niente di snobbistico o di aristocratico. Solo per dare un esempio della semplicità di don Gianni, che andava di pari passo al suo amore per la cultura, basti pensare all’associazione dei portieri dei diversi palazzi di Vigna Clara che egli aveva incoraggiato: con essi una volta al mese andava a cena per condividere con loro la fatica del loro lavoro a servizio del quartiere.
Ciò che leggeva si travasava poi nella sua predicazione. Don Gianni “registrava” ciò che leggeva preparando piccole schede cartacee - a quei tempi non esistevano ancora i computer - dove egli annotava l’autore e la frase che lo aveva colpito e che poteva illuminare uno degli aspetti del Vangelo di Gesù. Preparando la messa di ogni domenica don Gianni cercava fra le sue schedine, tutte minuziosamente suddivise per argomento, quelle che potevano toccare l’attenzione dei fedeli mostrando quanto la vita di Gesù potesse essere illuminata dalle riflessioni umane.
Ma più ancora di questa attenzione, ciò che ha caratterizzato il ministero di don Gianni è stato la fedeltà da parroco di una sola parrocchia che gli permise di diventare nel tempo un punto di riferimento per tutti coloro che si aggiungevano via via alla comunità.
Don Gianni, inaftti, è stato parroco di Santa Chiara per ben 41 anni e ½. Si potrebbe dire che per lui valse l’antica stabilitas loci degli antichi monaci: solo fermandosi nello stesso luogo si poteva avere frutto. In realtà ciò era tipico di tutti i parroci dell’epoca, ma lui visse tale permanenza nello stesso luogo per un periodo di tempo lunghissimo, dalla costruzione della chiesa stessa al 2004.
Quanto è vera ciò che esclamò in una delle ultime interviste: «Quanta gente ho battezzato, quanta comunicato, cresimato e poi sposato, quanta cui ho chiuso gli occhi e accompagnato nell’altro mondo!».
Don Gianni, insomma, prima di essere stato un uomo di cultura che annunciava la fede a chi doveva per professione fare della cultura il proprio pane di vita, è stato un punto di riferimento e un padre per tutti. Era lì, per ogni nascita e per ogni funerale, per ogni famiglia e per ogni persona. La sua accoglienza immediata aveva fece breccia in persone di quartieri diversissimi, al punto che forse solo 1/3 delle persone che partecipavano alla messa domenicale di Santa Chiara apparteneva fisicamente al quartiere stesso. Tanti percorrevano decine di chilometri ogni domenica pur di essere lì, con lui e gli uni insieme agli altri.
La sua apertura mentale gli permetteva di coinvolgere sempre nuove persone nel servizio della catechesi o nell’animazione della comunità. Fra i catechisti del cresime, ad esempio, c’erano giovani, ma anche professionisti affermatissimi, che hanno lavorato gomito a gomito negli anni. Chi si affacciava al cammino delle cresime entrava a far parte di una famiglia, veniva ormai conosciuto per nome, era parte di un popolo e diveniva fiero di esserne parte.
Ovviamente in tale costruzione della comunità decisivi sono stati i tanti vice-parroci che si sono avvicendati nel tempo al suo fianco. Don Gianni li rispettava, riconosceva la loro autonomia e lasciava loro campo libero, chiedendo però di condividere insieme la fraternità con lui e fra di loro: uno dei punti fondamentali di questa comunione era il pranzo domenicale in parrocchia, dove tutti i preti che servivano la comunità si trovavano – e tuttora si trovano, in continuità con il passato – a pranzare insieme, diocesani e religiosi, scambiandosi esperienze, idee e affetto.
L’accoglienza era un tratto distintivo di don Gianni, un’accoglienza senza distinzioni. Anche l’architettura e la disposizione dei luoghi doveva esserne segno. Ripeteva, infatti, che le sale della parrocchia dovevano essere non solo pulite, ma più ancora belle, perché una persona doveva sentirsi invogliato ad entravi: la bellezza dei luoghi doveva dire che quel luogo era stato pensato per tutti. Così non solo la casa dei preti, ma anche gli uffici e i luoghi delle riunioni, dovevano essere luminosi, con piante, stampe e quadri che rasserenassero e accogliessero.
Giunto all’età della pensione, don Gianni si ritirò nella chiesa del Borromini a piazza Navona. Non volle ritornare più a Santa Chiara, perché sapeva che la sua commozione sarebbe stata troppo grande: il suo “saper stare al mondo” non impediva, infatti, che egli fosse estremamente sensibile. Anche dinanzi alla malattia era tale. Non voleva nemmeno misurarsi la febbre, per paura di scoprire di star male e doversi preoccupare. Nella nuova sede tanti si recavano a trovarlo ed egli si dedicò al restauro della chiesa di Sant’Agnese in Agone che era stata trascurata nel tempo.
Riuscì a trovare, grazie alle sue tante conoscenza, i fondi per terminare i lavori – alla sua morte mancava ancora solo il restauro della cripta – e mostrava a tutti con orgoglio la chiesa tornata allo splendore del colore originario delle pietre e dei marmi, felice di aver ridato vita a quel luogo barocco che era ormai la sua casa.
Il suo balcone fiorito era divenuto una compagnia per chiunque passeggiasse per piazza Navona: da quel luogo egli riprendeva ogni giorno la via per le sue passeggiate mattutine, ma anche per i suoi giri in bicicletta con gli amici che tanto amava, anche se le pedalate si facevano via via più brevi fino a cessare del tutto.
La morte lo ha colto sull’uscio di casa, improvvisa come annuncia la Scrittura e, in fondo, come egli aveva sempre desiderato, in modo da non arrecargli sofferenza. Sorella morte lo ha preso così come egli era per condurlo al cospetto di Dio.