Etica, legge divina e leggi civili nei paesi islamici, di Maurice Borrmans
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Riprendiamo la traduzione di uno studio di M. Borrmans pubblicato nell’originale francese su “Se Comprendre” n. 13/07 – agosto-settembre 2013. La traduzione è stata curata, come spiega la Prefazione, dal CADR e pubblicata on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cf. la sezione Islam.
Il Centro culturale Gli scritti (25/2/2018)
PREFAZIONE ALLA TRADUZIONE ITALIANA DEL TESTO
È parso al CADR molto interessante e di grande attualità l’articolo di P. Borrmans pubblicato in “Se Comprendre”, agosto-settembre 2013 “Etica, legge divina e leggi civili nei Paesi islamici” e ne ha curato la traduzione dal francese.
L’attualità è dovuta al fatto che nei Paesi che hanno avuto le “primavere arabe” si cerca quasi ovunque di istituzionalizzare l’applicazione della shari’a, la legge divina, secondo l’islam e questo crea non pochi problemi, come sappiamo dall’attualità politica di tali Paesi.
Allora, ecco l’interessea conoscere un po’ di più questa shari’a. E P. Borrmans ne tratta i fondamenti, ne tratteggia le interpretazioni delle diverse scuole, accenna ai conflitti attuali di interpretazione e di applicazione, confronta i suoi dettami principali con i Diritti dell’Uomo del 1948. Il tutto in una mirabile sintesi e nello stesso tempo entrando nell’argomento in profondità.
Il testo ricco di note e di rimandi può essere utile anche a chi ha già conoscenza dell’argomento e vuole approfondirlo.
don Giampiero Alberti
15 settembre 2013
Maurice Borrmans, padre bianco, ha insegnato a lungo all'Istituto di Studi Arabi e di Islamistica di Roma. Specialista di Diritto Islamico, è anche autore di un gran numero di opere. Citiamo, tra le altre Statut Personnel et Famille au Maghreb de 1940 à nos jours (Mouton, 1977), e Jésus et les musulmans d'aujourd'hui (Desclée, 1996). Le sue opere più recenti studiano l'itinerario dei pionieri cristiani del dialogo: Massignon, Abd-el-Jalil, Gardet, Arnaldez, Anawati e tanti altri. In questo testo ci offre le sue riflessioni sulle evoluzioni recenti del mondo musulmano.
Etica, legge divina e leggi civili nei paesi islamici, di Maurice Borrmans
Le recenti “primavere arabe” e le elezioni che le hanno seguite in Tunisia e in Egitto, così come le scelte dei governi in Marocco e in Irak e le politiche islamizzanti in Iran e in Turchia hanno reso sempre più attuale, nei paesi islamici, la pretesa dei applicare finalmente la shari'a, la “Legge divina” che sarebbe rivelata dal Corano nelle sue disposizioni giuridiche e la cui applicazione integrale risolverebbe, secondo alcuni[1], tutti i problemi.
Un primo congresso mondiale per questa applicazione aveva già avuto luogo a Kartum in Sudan nel settembre 1984. Ora, più di venti anni dopo, nel 2006, così come riconosceva il prof. Abdelouahab Maalmi alla conclusione della sua conferenza, allora tenuta a Roma, su “Le costituzioni arabe e la shari'a”[2], la rivendicazione era sempre la stessa: “Se l'apertura democratica si rafforzasse, la richiesta di un ruolo maggiore della shari'a diventerebbe ancora più pressante”. Ed è proprio questo che constatiamo più o meno dovunque, come nelle recenti elezioni in Egitto, Tunisia e Marocco, per non parlare che dei paesi arabi. È bene dunque interrogarsi ancora sulle relazioni conflittuali negli Stati di tradizione islamica tra i principi del loro “ordine morale”, le esigenze della shari'a religiosa e le leggi civili del loro sistema legislativo. Per farlo, è bene ricordare dapprima a che punto sono i “fondamenti dell'etica dell'islam”, che si riferiscono essenzialmente al Corano e alla Sunna. Ci possiamo allora interrogare sul contenuto di questa Legge divina che è la shari'a nelle sue diverse implicazioni. Bisogna poi prendere in considerazione gli sviluppi del “Diritto musulmano” (fiqh) in funzione del pluralismo delle sue scuole canoniche. Solo tenendo conto di tutto questo insieme di cose è possibile valutare l'accoglienza diversificata che i paesi musulmani hanno riservato alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948.
Parallelamente, è necessario prendere in considerazione l'opera legislativa degli Stati, le loro leggi civili e i modelli giuridici. È solamente al termine di queste rapide analisi che si può finalmente gettare uno sguardo di insieme sui conflitti attuali di interpretazione e applicazione e quindi pronunciarsi su possibili armonizzazioni tra la Legge religiosa e le leggi civili.
1. L' ETICA NELL'ISLAM E I SUOI FONDAMENTI[3]
L'etica musulmana non può essere compresa che nelle sue prospettive storiche e in funzione dei suoi sviluppi successivi[4]. È certo che l'educazione morale della coscienza musulmana attuata dal messaggio coranico ha assunto, all'inizio del VII secolo, il meglio delle virtù della tradizione araba, quella sunna o tradizione degli antichi che era stata cantata dalle poesie pre-islamiche (le famose mu'allaqat).
“L'onore ne costituiva il valore chiave: il senso della fierezza personale che non bisognava lasciare intaccare, in cui l'orgoglio poteva avere la sua parte, il coraggio entusiasta non indietreggiava davanti a nessun pericolo, la lealtà verso il clan era rafforzata da uno spirito di corpo ('asabiyya ) fino talvolta all'ostracismo, l'ospitalità per lo straniero, la resistenza e l'autocontrollo anche nelle avventure più rischiose: tutto ciò costituiva il codice d'onore dell'Arabo del deserto ed è stato in parte integrato nell'insegnamento morale del Corano. Se la nuova etica coranica ha parzialmente fatto sua questa antica morale araba, l'ha anche trasformata purificandola da tutto ciò che era ignoranza pagana (jahilliyya) in rapporto alla nuova fede in Dio, nei Suoi Angeli, nei Suoi Libri, nei Suoi Profeti e in rapporto all'Ultimo Giorno. Nel corso dei 23 anni della sua rivelazione progressiva (610-632) il Corano ha effettivamente proposto ai discepoli di Muhammad un intero nuovo codice di comportamento che corrispondeva alle esigenze del Messaggio che tagliava di netto (furqan) il bene dal male... Come riassume molto bene lo storico egiziano Ahmad Amin, - nel Corano, per quanto concerne la vita morale, vi sono due livelli: uno che consiste nell'insegnamento delle regole della buona educazione... e un altro che contiene ciò che la morale richiede su un piano più alto: essere fedele alla parola data, essere costante nelle avversità, praticare la giustizia verso coloro che si amano e coloro che si odiano, perdonare quando è possibile, essere sobri senza però esagerare - Il Corano appare così come la “carta” stessa della prassi musulmana e richiede al credente l'esecuzione incondizionata dei suoi comandi divini: vi si richiamano incessantemente la ricompensa e il castigo e Dio è spesso descritto come 'rapido nei suoi conti' (2, 202, ecc.)”. ??? PARTE SOPRA DOVE VIRGOLETTE E TRATTINI?
Il Corano, che è per la fede musulmana “parola divina increata direttamente trasmessa agli uomini sotto forma di libro” e la sunna, l'insieme dei “detti (hadith-s)” di Muhammad, “il sigillo dei profeti e l'ultimo degli inviati” in cui i musulmani hanno “un bell'esempio” (uswa hasana, 33,21) sono dunque le due fonti principali dell'etica islamica.
Qual è esattamente il suo contenuto? Shaykh M.A. Draz ne ha data una definizione esatta in una celebre tesi pubblicata in francese, e, per questo, prigioniera di un certo lessico 'occidentale'. In breve essa abbraccia tutto: morale individuale, morale famigliare, morale sociale, morale dello Stato. “Nei suoi doveri verso Dio, il credente deve obbedire incondizionatamente, meditare sulle parole e sulle opere di Allah, riconoscere i suoi benefici, fidarsi di Lui, non disperare della Sua grazia, mantenere i voti e le promesse a Lui fatte, santificarLo e glorificarLo. Bisogna renderGli un culto quotidiano e visitare il Suo santuario della Mecca. Non si cesserà mai di invocarLo e di 'ritornare' a Lui”[5].
Non si potrebbe dunque farsi un'idea precisa dell'etica musulmana senza conoscerne i dettagli attraverso i numerosi commenti del Corano che i musulmani hanno elaborato nel corso della storia[6] e le glosse esplicative date alle raccolte di hadits maomettani, che sono state classificate in funzione dei capitoli stessi della shari'a[7].
Basti ricordare qui ciò che si trova nella sura al-Isra' (il viaggio notturno) del Corano, l'equivalente dei Dieci Comandamenti del Sinai (17,22-38):
“Non associare altre divinità ad Allah, se non ti troverai disprezzato e abbandonato. E il tuo Signore ha decretato: Non adorate che Lui: e (manifestate) bontà verso il padre e la madre (…) e per misericordia, inclina verso di loro l'ala della tenerezza... e rendi il loro diritto ai parenti, ai poveri, e al viandante, senza per questo essere prodigo (…) Non uccidete i vostri figli per timore della miseria: siamo Noi a provvederli di cibo, come provvediamo a voi stessi. Ucciderli è veramente un peccato gravissimo.
Non ti avvicinare alla fornicazione. È davvero cosa turpe e un tristo sentiero.
E non uccidete, senza valida ragione, coloro che Allah vi ha proibito di uccidere. Se qualcuno viene ucciso ingiustamente, diamo autorità al suo rappresentante (…). Rispettate il patto poiché in verità vi sarà chiesto di darne conto. Riempite la misura, quando misurate e pesate con la bilancia più esatta (…). Non seguire ciò di cui non hai conoscenza alcuna. Di tutto sarà chiesto conto: dell'udito, della vista e del cuore. Non incedere sulla terra con alterigia, poiché non potrai fenderla e giammai potrai essere alto come le montagne (…). Ciò è quanto ti è stato rivelato dal tuo Signore a titolo di saggezza. Non associare ad Allah un'altra divinità”.
Non è forse questo, come una eco, ciò che la legge naturale ispira ad ogni uomo perbene e ciò che la fitra musulmana (disposizione naturale creata da Allah nella coscienza) gli detta nell'intimo? Yadh Ben Achour professore tunisino di Diritto pubblico non ha temuto di leggervi ciò che egli chiama “la seconda fatiha”[8], che ha la forza dei versetti della prima sura del Corano, chiamata appunto la Fatiha (l'aprente).Siamo qui alle origini stesse della “Legge divina” che i musulmani chiamano la shari'a.
2. LA LEGGE DIVINA (SHARI'A) E LE SUE IMPLICAZIONI
L'Islam si rivela ben presto una “ortoprassi”, poiché la sua Shari'a costituisce una “via” (è questo il suo significato originale) che organizza la perfetta sottomissione (islam) alla volontà così espressa da Dio perché l'essere umano benefici della sua soddisfazione (ridwan) sulla terra e della sua ricompensa (falah) nell'altra vita. Come affermava, a suo tempo, il manuale tunisino delle classi terminali della scuola secondaria, consacrato a “Lo sforzo giurisprudenziale (ijtihad) e il suo aggiornamento (tajdid) nella legislazione islamica”, “i campi di cui l'islam intende occuparsi si suddividono in questo modo: 1. il Credo ('aqida') la fede in Dio e in tutto ciò che il Suo Inviato ha insegnato; 2. il Culto ('ibadat), la preghiera rituale, l'elemosina legale, il digiuno, il pellegrinaggio, i giuramenti e i voti; 3. le Transazioni (mu'amalat) per quanto riguarda i beni: vendita, acquisto, ecc.; 4. il Potere (hukm), governo dello Stato, amministrazione della giustizia, ecc.; 5. la Difesa dello Stato: Diritto penale, guerre, ecc.; 6. la Promozione umana della Nazione (umma): buoni costumi, 'il bene da fare, il male da non fare' ecc.. In questo modo, la Legge islamica (shari'a) non trascura nessuno dei numerosi campi dell'attività umana”.
Lo stesso Mahmud Shaltut, gran maestro dell'Università islamica di al-Azhar del Cairo dal 1958 al 1964, aveva pubblicato al tempo di Jamal' Abd al-Nasir, il leader del socialismo arabo, una summa teologica intitolata Al-Islam, 'aqida wa-shari'a (l'islam, Credo e Legge), in cui poche pagine erano dedicate al contenuto della fede e molti capitoli abbracciavano tutti i campi della vita del musulmano. Infatti, al Credo erano dedicate 63 pagine mentre alla Legge erano consacrate le 478 pagine rimanenti, poiché l'autore vi trattava del culto (preghiera, 15 pp.; elemosina 14 pp.; digiuno 6 pp.; pellegrinaggio, 21 pp.), dell'organizzazione della famiglia e dell'eredità (soffermandosi in modo particolare sui problemi della poligamia, 21 pp.; della limitazione delle nascite, 19 pp.; dei diritti della donna, 25 pp.; ), del regime dei beni e degli scambi (30 pp.), del diritto penale (soprattutto della pena del taglione e dei castighi coranici (112 pp.), della responsabilità civile e penale (41 pp.) e dell'ordinamento politico nazionale e internazionale (27 pp.). L'ultima parte del libro trattava finalmente dei fondamenti della Shari'a: il Corano (20 pp.), la Sunna (16 pp.), le interpretazioni e le divergenze delle scuole (37 pp.), il ruolo dell'opinione (ra'y) e della ragione (nazar) nell'applicazione dei principi coranici (17 pp.), ciò che introduceva alle sottili elaborazioni di ciò che viene chiamato il “diritto islamico” (il fiqh).
Molti altri trattati di etica testimoniano la stessa attenzione a questo aspetto globalizzante della Shari'a, poiché niente dovrebbe sfuggire ai suoi regolamenti considerati come divini a motivo delle sue due fonti primordiali che sono il Corano e la Sunna. Il dibattito che è nato dovunque intorno alla sua applicazione integrale è sempre attuale, soprattutto dopo che gli Stati di tradizione musulmana e di struttura moderna hanno dovuto adattarsi alle esigenze legislative internazionali.
L'ideale dei Fratelli Musulmani e dei Salafiti wahhabiti dei Paesi arabi e dei discepoli di al-Mawdudi, il Pakistan e di al-Khumayni in Iran non è forse quello di applicarne integralmente le norme più generali e le prescrizioni più particolari? Un dossier costituito già 25 anni fa su questo dibattito fondamentale[9], oggi potrebbe essere ripreso quasi tale e quale: gli argomenti sarebbero gli stessi mentre i nomi dei loro autori sarebbero diversi.
I partigiani della sua applicazione potrebbero riferirsi al libro di 'Abd al-Qadir 'uda, pubblicato nel 1951, alIslam wa-awda'u-na l-qanuniyya (l'Islam e le nostre istituzioni giuridiche), che dimostra che la Shari'a è la “legge per eccellenza a ragione del suo elemento spirituale, della sua dimensione morale e della sua origine divina”: “La Shari'a islamica è la costituzione fondamentale dei musulmani: tutto ciò che è in accordo con essa è buono, tutto ciò che vi si oppone è nullo, poiché la Shari'a è venuta da Dio attraverso la bocca del suo Profeta”.
E Sayyid Qutb, il teorico dei Fratelli Musulmani, il cui commento al Corano, Fi zilal al-Qur 'an, pubblicato nel 1965 è diventato il libro di riferimento, fa l'elogio della Shari'a, “legge cosmica” voluta dall'unico vero Legislatore per l'armonia del cosmo, nel suo trattato Ma'alim fil-tariq (punti di riferimento sulla via) che riprende il meglio del suo commento.
D'altra parte ciò che diceva Tawfiq'Ali Wahba nella prefazione di uno dei suoi libri nel 1980 potrebbe essere ripetuto ai nostri giorni: è l'applicazione delle pene corporali coraniche (le hudud) che garantirebbe la meravigliosa sicurezza che hanno oggi l'Arabia Saudita e altri paesi che ne imitano la legislazione. Per questo in Egitto il grande maestro di al-Azhar, lo shaykh 'Abd al-Halim Mahmud propose nel 1978 un Codice delle pene coraniche all'Assemblea del Popolo egiziano, che fortunatamente non fu mai omologato in seguito alle resistenze che aveva suscitato.
3. Il DIRITTO MUSULMANO (il fiqh) E IL PLURALISMO DELLE SUE SCUOLE CANONICHE
Sembra dunque che, per la maggior parte dei musulmani, tutto dipenda dal “testo” (nass) del Corano e della sua giusta interpretazione e che essi vogliano nello stesso tempo conformarsi a ciò che Dio attende da loro per la vita presente (al-dunya) e per l'altra vita (al-akhira) da cui viene il successo sempre più grande dei mufti-s e di coloro che sono capaci, grazie alle loro fatwa-s, di assicurare loro una “direzione sia spirituale, che morale e giuridica” che garantisca la pace della coscienza nella sottomissione agli ordini di Dio[10].
È qui che interviene la scienza del diritto chiamata fiqh indispensabile per ogni condotta che si voglia conforme all'ideale islamico. Ora, questa scienza proviene sia dall'interpretazione dei testi fondanti, il Corano e la Sunna, sia dalla riflessione di ogni credente capace di ijtihad, cioè di sforzo personale, conformemente a ciò che dice un certo hadith in cui Muhammad avrebbe interrogato Mu'adh ibn Jabal che inviava nello Yemen: “Con che cosa giudicherai? - Con il Libro di Dio, rispose – E se non trovi? - Con la Sunna del suo Profeta. - E se non trovi? - giudicherò con il mio sforzo (ijtihad) rispettando la giustizia”.
Questa scienza dello ijtihad si è ben presto sviluppata in mille forme in funzione delle scuole esegetiche, delle leggi e dei costumi locali, delle politiche dinastiche, ecc., testimoniando una collaborazione costante tra fede e ragione, testi rivelati (manqulat) e conclusioni dell'intelligenza (ma'qulat) si parla allora di quelle “fonti secondarie” che sono l'opinione personale (al-ra'y) e il ragionamento analogico (al-qiyas) dei giureconsulti e il consenso (al-ijma'), ampio o limitato, dei gruppi di faqih-s, che si sono accorpati in “scuole canoniche”, (madhhab-s) che hanno ognuna la loro “metodologia del diritto”(usul al-fiqh).
Per di più, con il tempo e in certi paesi, la pratica dei tribunali (al-'amal) e gli usi e i costumi (al'urf) hanno finito per costituire delle “scuole terziarie” di Diritto, accentuando in questo modo all'interno delle scuole canoniche stesse delle differenziazioni supplementari.
È così che in capo a tre o quattro secoli, il mondo islamico ha conosciuto un certo pluralismo in materia di fiqh. Accanto alla scuola ja'farita, propria della tradizione sciita (soprattutto in Iran), le società di tradizione sunnita hanno scelto fra quattro scuole: la Hanafita, irachena nelle sue origini con riferimento a Abu Hanifa (m. nel 767), la Malikita, con riferimento a Malik B. Anas (m. nel 795), la Shafi'ita, di tendenza egiziana, con riferimento a al-Shafi'i (m.820) e la Hanbalita, dovunque minoritaria con riferimento a Ibn Hanbal (m.855).
Questo pluralismo (che lasciava sempre ai credenti la libertà di scegliere la scuola che preferivano) utilizzava metodologie proprie ad ogni scuola quando si trattava di risolvere problemi per i quali i “testi” si rivelavano insufficienti. In questo caso gli Hanafiti privilegiano, tra due nuove soluzioni, quella che appare come migliore (ahsan) in sé (istihsan), i Malakiti invece preferiscono quella che più corrisponde al bene comune (maslaha) e i Shafiiti danno sempre la preferenza a quella che è la più vicina (ashab) alle soluzioni anteriori (istishab).
Taj al-din al-Subki ha potuto dire che “il fiqh è la conoscenza delle norme shariatiche pratiche (al-ahkam al-shar'iyya al-'amaliyya) acquisita dai loro riferimenti (adilla) particolari”. Quindi se il fiqh deriva dalla Legge rivelata, non fa comunque a meno di ricorrere all'esercizio della ragione e suppone una visione teologica specifica. Come constata Yadh Ben Achour tunisino esperto in filosofia del diritto, “le diverse tendenze del pensiero giuridico sunnita ammettono l'esistenza di un diritto naturale, in quanto ordine delle cose stabilito da Dio. I precetti e i principi di questo diritto naturale possono essere colti dall'intelligenza umana. Questi possono dunque servire da chiave di interpretazione della rivelazione o come sorgente del diritto sulle questioni non indicate dalla rivelazione”[11].
Così il giureconsulto musulmano si interroga sulle “finalità (maqasid) della shari'a e scopre, con al-Ghazali (m.1111) e al-Shatibi (m.1388), che si tratta di proteggere e promuovere “la religione (al-din), la persona (al-nafs), la sua discendenza (alnasab), l'intelligenza (al-'aql) e i beni (al-mal)”; ciò dà libero corso a mille interpretazioni a seconda dei contesti socio-politici e culturali o giuridici.
È certo che questo pluralismo generato dall'estrema varietà delle metodologie del fiqh delle scuole canoniche dipende strettamente dalla visione teologica che le une e le altre si fanno del mistero divino: Dio è saggezza superiore e i suoi ordini sono ragionevoli oppure è libertà assoluta e i suoi ordini sono arbitrari? I teologi mutaziliti dell'alto medioevo hanno difeso – come anche i loro emuli dei tempi moderni – la prima ipotesi, mentre i teologi asciariti, che rappresentano il sunnismo classico e moderno, sostengono la seconda ipotesi.
In questo ultimo caso – ed è la dottrina comune cara ai salafisti di oggi – l'azione umana è percepita come buona o cattiva (bella o brutta, utile o nociva), non perché è veramente tale e la ragione la scopre come tale, ma piuttosto perché la Legge religiosa, e dunque la volontà di Dio la dichiara tale. Ciò che è buono, bello e utile, è ciò che Dio ordina, ciò che è cattivo, brutto e nocivo, è ciò che Dio proibisce.
Possiamo così comprendere che tutto dipende dal significato del “testo” stesso del Corano e della Sunna. Questo rimane il dibattito fondamentale che dura da quando un tempo mutaziliti e asciariti ne hanno discusso, dibattito che è sempre attuale tra musulmani tradizionalisti e credenti modernisti. Come riconosce lo storico egiziano dell'islam, Ahmad Amin, “è stato sollevato dai mutaziliti ed è imperniato su questa questione. 'Vi sono, nelle azioni umane, delle particolarità che hanno condotto il Legislatore divino a ordinarle o a proibirle?'. E poi, se la virtù della verità non fosse buona in sé, Egli non l'avrebbe ordinata e, se non ci fosse il male in quanto tale nel comportamento menzognero, Egli non l'avrebbe proibito. Oppure è il Legislatore stesso che, ordinando di dire la verità, ha fatto sì che la verità sia buona, e proibendo la menzogna, ha fatto sì che la menzogna sia cattiva? Allora, se Egli l'avesse voluto sarebbe stato altrimenti! Questo è un problema che fu contemporaneo a quello del ragionamento analogico e dell'opinione personale[12]”.
I dibattiti attuali nei paesi islamici per quanto riguarda i riferimenti fondamentali della loro legislazione si riallacciano ancora e sempre a questa problematica: la cosa si è evidenziata particolarmente quando hanno dovuto pronunciarsi sull'accettazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948.
4. L'ACCOGLIENZA RISERVATA ALLA DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL'UOMO
Le società musulmane che dichiarano di avere l'islam come “religione di Stato” hanno dovuto pronunciarsi sulla compatibilità di questi Diritti dell'Uomo con il loro “ordine pubblico” nazionale e da questo fatto sono derivate forme molto diverse dell'accoglienza che è stata loro riservata nelle Costituzioni e nelle Legislazioni degli Stati islamici.
Ma quale è stata l'accoglienza da parte delle Dichiarazioni ufficiali[13]che alcune istanze islamiche hanno formulato a riguardo dei Diritti dell'Uomo? Una Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo nell'Islam (DUDHI) è stata proposta alla sede parigina dell'UNESCO, nel settembre del 1981, dal Consiglio Islamico per l'Europa. Più tardi, una Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo nell'Islam (DDHI) è stata promulgata al Cairo, il 4 agosto 1990, dai 45 ministri degli affari esteri dell'Organizzazione della Conferenza Islamica (OCI), E il 15 settembre 1994, una Carta Araba dei Diritti dell'Uomo (CADH) è stata proclamata ufficialmente, ed è stata poi rimaneggiata nel 2004. Sappiamo anche che molto paesi musulmani hanno visto nascere delle associazioni o leghe di difesa dei diritti dell'uomo, a volte concorrenti e spesso ignorate dai governi in carica oppure da essi recepite.
La Dichiarazione del 1981 ha un lungo preambolo tutto dedito all'affermazione dei meriti dell'islam che ha saputo realizzare, per la prima volta nella storia, “una società giusta ed egualitaria conforme al disegno di Dio”. Costituita da 23 articoli, riprende molto da vicino la Dichiarazione del 1948, ma in occasione della sua presentazione al grande pubblico, a Parigi, sono stati presentati ai giornalisti occidentali un testo francese e un testo inglese in cui non si trovava il minimo riferimento al Corano o alla Sunna, mentre queste due fonti erano abbondantemente citate nella versione araba della Dichiarazione stessa. La Dichiarazione dell'OCI, la più importante, tiene conto della Dichiarazione del 1948, pur avendo un carattere più nettamente “confessionale”. Dopo un preambolo molto tradizionale, i 25 articoli non contengono alcun riferimento al Corano, ma l'articolo 10 afferma che “l'islam è la religione naturale dell'essere umano” e che niente potrebbe giustificare un “cambiamento di religione”. Invece, la Carta Araba del 1994 richiama, nel suo preambolo, i “principi eterni fondati dalla Shari'a islamica e dalle altre religioni celesti”. Composta da 43 articoli che sono divenuti 53 nella nuova redazione del gennaio 2004, si presenta più giuridica delle precedenti Dichiarazioni e si allinea al testo del 1948. Se dunque vi sono indubbiamente delle “convergenze che testimoniano dei valori comuni” (libertà, eguaglianza, fraternità, giustizia, ecc.) vi si trovano anche delle “divergenze” che sembrano indicare che la Shari'a pone sempre dei limiti all'applicazione dei Diritti dell'Uomo.
In effetti, la seconda Dichiarazione contiene 2 articoli significativi a questo proposito: secondo l'art 24, “tutti i diritti e tutte le libertà enunciate in questo documento sono subordinate alle disposizioni della Shari'a” e, secondo l'art 25, “la Shari'a islamica è la sola fonte di riferimento per esplicitare o chiarire ogni articolo di questa Dichiarazione”. Il fatto è che, quando si tratta dei diritti della donna, lo statuto di quest'ultima è sempre definito in funzione dei testi coranici che, in questa materia, sono determinanti.
Analizzando bene i 3 testi, ci si rende conto che vi si trova una sottile distinzione, se non una discriminazione, tra l'uomo e la donna, il musulmano e il non musulmano e infine tra la legge civile (qanun) e la Legge islamica (Shari'a). Inoltre, la nuova redazione della Carta Araba dichiara, nell'art 3 § c, che “gli uomini e le donne godono di una uguale dignità umana e hanno dunque diritti e doveri uguali, pur tenendo conto della discriminazione positiva in favore delle donne nella Shari'a islamica e nelle altre leggi divine”. Come ha constatato, nel 2011, Yadh Ben Achour nella sua introduzione al libro intitolato La deuxième Fatiha, “Il divario tra i tempi moderni e l'islam è diventato eclatante e le vere sfide del progresso non hanno potuto, per ora, essere rilevate del tutto. Questo divario sempre più visibile smentisce coloro che, intorno agli anni 1980, avevano formulato la speranza di una conciliazione tra l'islam e i diritti dell'uomo fondata su una 'concezione veramente islamica dei diritti dell'uomo in base al Corano, alla Tradizione e ai pensatori musulmani'.
La risposta che gli avvenimenti hanno dato a questa speranza si è concretizzata nella reislamizzazione del diritto, soprattutto del diritto penale: il ristabilimento delle pene che si credevano dimenticate, come la lapidazione o la flagellazione, la giurisprudenza islamizzante dei tribunali, le condanne a morte per apostasia, la crescita dei movimenti radicali, che chiedono la messa in opera di tutte le forme di violenza al servizio della legge divina, che era stata trascurata, e infine nell'elaborazione di dichiarazioni islamiche mitigate la cui base comune è l'attaccamento a una ineguaglianza dei generi e l'ostilità alla libertà di coscienza”.
Questo divario era già stato riconosciuto, analizzato e denunciato nel 1998 da Mohammed Charfi (un intellettuale tunisino esperto di diritto, che era stato Ministro dell' Educazione e delle Scienze nel suo paese dal 1989 al 1994), nel suo libro intitolato Islam et liberté, le malentendu historique[14]. Il carattere drammatico della situazione attuale, con gli avvenimenti dell'11 settembre 2001 e quelli che sono seguiti in Iraq, in Afghanistan e in altri paesi, è stato testimoniato tragicamente, prima ancora dei dibattiti attuali suscitati dalla “primavera araba” riguardo ad una riattivazione della Shari'a.
5. LE LEGGI CIVILI E I LORO DIVERSI MODELLI
Sarebbe il caso di fare uno studio sull'applicazione effettiva di questa famosa Shari'a nel corso dei secoli nelle diverse società musulmane, che sono l'espressione concreta della realizzazione storica dell'islam come civiltà. Il fatto è che essa non è mai stata applicata integralmente e che queste stesse società hanno sempre avuto delle legislazioni secolarizzate, più o meno contestate nel nome della Shari'a, che i rappresentanti ufficiali dell'islam consideravano come il progetto di una “città di Dio islamicamente perfetta”.
Ora, gli Stati moderni in terra d'Islam, si sono strutturati in funzione delle esigenze della vita internazionale: ministeri e legislazioni vi hanno copiato ciò che gli altri Stati avevano già elaborato e i loro tentativi di democrazia hanno cercato di separare, più o meno, il potere legislativo da quello esecutivo e da quello giudiziario. Possiamo allora capire come l'adozione dei codici che regolano il commercio e l'industria, il diritto fondiario, e il diritto marittimo e molti altri, abbiano potuto allinearsi alle leggi degli altri paesi senza troppe difficoltà, poiché il regime delle transazioni umane nell'islam (mu'amalat) è sempre stato considerato dipendente dalle circostanze di luogo e di tempo.
Ma il diritto di famiglia e il codice penale, situati tra le mu'amalat e le 'ibadat e dipendenti rigorosamente da “testi precisi” del Corano hanno posto ovunque dei problemi ai legislatori degli Stati moderni nei Paesi islamici[15]. Non è necessario qui specificare le sottili politiche di riforma introdotte in molti paesi in questi due campi, ma bisogna ben constatare che il dibattito resta ovunque lo stesso, sia che si tratti dello “statuto personale della famiglia” sul piano giuridico o delle questioni dell'abbigliamento e delle prescrizioni alimentari sul piano della vita quotidiana: è possibile modernizzare l'islam o bisogna islamizzare la modernità?
Da un lato riformisti e modernisti, dall'altro tradizionalisti e salafisti, non hanno ancora terminato di dibatterne, sia sul piano politico che sul piano ideologico, e anche sul piano filosofico e teologico. Mohamed Charfi ha descritto nel suo libro Islam et liberté tutte le contraddizioni vissute dalle società musulmane contemporanee: “generalmente (scolarizzando ad oltranza) ci si è accontentati di aggiungere delle discipline di scienze e di lingue straniere ai programmi delle scuole tradizionali, che non insegnavano l'islam solo come religione, ma lo presentavano contemporaneamente come una identità e un sistema giuridico e politico (Shari'a e califat)”. Da ciò derivano la “modernità non assunta” e l'impossibile “conciliazione dell'islam e della modernità” poiché “nell'insieme del mondo arabo l'insegnamento della storia rimane influenzato dalla versione introdotta da più di un millennio nelle scuole religiose, in cui tutto ciò che ha preceduto il Profeta era la jahiliyya o 'l'era dell'ignoranza', una specie di preistoria primitiva priva di interesse, e in cui tutte le civiltà non islamiche erano considerate più o meno ostili”. Come stupirsi allora che in tutte le capitali islamiche esista una Facoltà di Shari'a che fa concorrenza a una Facoltà di diritto moderno senza che uno sforzo di sana laicità venga a mettervi armonia?
Ma quale tipo di laicità nei paesi islamici? Anche qui il dibattito è infinito, prova ne è tutta la letteratura che ha trattato questo argomento[16]. Secondo Mohamed Scharfi, il fatto è che “da parecchi decenni, la maggior parte dei militanti per la democrazia e i diritti dell'uomo nei paesi musulmani reclamano la laicità, mentre i teologi e gli integristi vi si oppongono ferocemente. Questa opposizione ha rivestito tutte le forme demagogiche possibili al punto che, agli occhi della opinione pubblica, laicità non significa più separazione tra Stato e religione. Il termine è ormai sovraccarico del significato di ateismo; lo Stato laico sarebbe necessariamente ostile alla religione.
Tuttavia questo aspetto della questione è secondario. La cosa essenziale è che la laicità alla francese male si adatta all'islam. La particolarità dell'islam sunnita riguarda la costruzione e la manutenzione delle moschee e degli istituti scolastici religiosi: essi sono sempre stati finanziati soprattutto dallo Stato. la natura dell'islam è tale che in un paese musulmano lo Stato non può sottrarsi agli obblighi religiosi. La democrazia implica non la separazione tra islam e Stato, ma all'interno dello Stato, la separazione tra la funzione religiosa e le funzioni politiche. Sarebbe un compromesso ragionevole e molto adatto alle circostanze, a condizione che cessino gli abusi constatati oggi[17]”.
Ma dove è possibile situare esattamente la separazione fra queste due funzioni? È nell'ambito dei codici del diritto di famiglia e del diritto civile che gli Stati, in quanto legislatori, sono intervenuti per introdurre un certo numero di riforme, così che oggi le scuole di fiqh sono ormai delle scuole nazionali[18]. Niente testimonia meglio l'ambiguità delle situazioni giuridiche del primo articolo di certi codici civili. Il Codice Civile egiziano del 1948 precisa che “la legge (nass tashri'i) regola tutte le materie cui si riferiscono la lettera o lo spirito di una delle sue disposizioni. In mancanza di una disposizione legale, il giudice (qadi) si pronuncia secondo la tradizione ('urf) e, in mancanza, secondo i principi (mabadi') della Shari'a islamica. All'occorrenza, ricorre ai principi del diritto naturale (qanun tabi'i), e alle regole (qawa' id) dell'equità ('adala).
“Il Codice Civile algerino del 1975 dice la stessa cosa, mettendo nello stesso tempo la tradizione dopo i principi della Shari'a. Il Codice Civile dello Yemen del Nord del 1979 fa la stessa cosa e precisa che le regole dell'equità devono corrispondere ai fondamenti (usul) della Shari'a islamica. Il Codice Civile degli Emirati Arabi Uniti del 1980 sembra dimenticare la Shari'a, poiché parla solamente del testo della legge, poi della tradizione, facendola però seguire dall'opinione (ra'y) del giudice e ricorda che quest'ultima deve ispirarsi alle disposizioni del diritto musulmano (fiqh) che corrispondano meglio alla realtà e agli interessi del Paese”. È evidente quanto sia ampio il campo lasciato alla giurisprudenza, la quale dipenderà dunque sempre dalla formazione dei giudici (Facoltà di Sharia o facoltà moderne) e dagli orientamenti del Ministero della Giustizia, cioè dal Ministero degli Affari Religiosi.
6. I CONFLITTI ATTUALI DI INTERPRETAZIONE E DI APPLICAZIONE
Questo è il quadro di insieme in cui si sviluppano i conflitti di interpretazione che vivono oggi tutti i paesi islamici. Ma Mohamed Scharfi si chiede: quali sono “le ragioni dell'attaccamento alla Shari'a”?
“Si possono dare tre spiegazioni che si completano a vicenda. Un islamico non può concepire che un non-musulmano sia un concittadino a pieno titolo. Egli vede in lui, se non un avversario, almeno uno straniero, in ogni caso 'un altro'. Per un islamico, l'islam, prima di essere una religione, è 'una identità'. E' una questione di educazione, di comprensione e di interpretazione dell'islam...in questo modo, l'islam è presentato e quindi accolto più come una lotta e una solidarietà che come una spiritualità.
In secondo luogo, il fatto che vivano in un'altra epoca spiega l'attaccamento degli islamici alle regole di discriminazione nei confronti dei non-musulmani. Questo spiega anche il loro anti-femminismo.
In terzo luogo, il persistere con le pene corporali viene dalla stessa logica (di una società beduina o rurale)”, poiché “l'islam è stato assimilato a un diritto, a una legge”.
Il prof. Mohammed Arkoun nel suo ultimo libro, La question éthique et juridique dans la pensée islamique, fa una analisi della storia recente degli “Stati-Nazioni postcoloniali” nei paesi islamici che sembra corroborare questa triplice spiegazione: ovunque le élites politiche hanno voluto recuperare o imporre una “personalità arabo-islamica” che faceva riferimento più a una certa ideologia politica che ad un umanesimo la cui scomparsa dalla scena medio-orientale, dopo l'alto Medio Evo, è rimpianta da molti.
Gli osservatori attuali del Grande Medio Oriente, sia sociologi che politologi, riconoscono tutti che quasi dovunque vi è stata una ripresa del tradizionalismo delle società arabo-musulmane dopo il fallimento dei socialismi arabi, più o meno colorati di marxismo filosovietico o di neutralismo terzomondista, e dei sogni unitari di una “nazione araba detentrice di un a missione eterna”[19]. Inoltre, le prospettive attuali di una mondializzazione economica e di una globalizzazione culturale che ridurrebbero ancor più i particolarismi nazionali e le tradizioni religiose, avrebbero come effetto di richiamare i musulmani al loro “islam di sempre”, considerato come “valore rifugio e verità trans-storica”.
Ed è qui che il prestigio dell'Arabia Saudita esercita il suo potere affascinante presso molti. Pur approfittando delle sue rendite petrolifere e delle conquiste della tecnologia moderna, l'Arabia Saudita continua a nutrire e a diffondere l'ideologia di un islam wahhabita, di cui è stato detto trattarsi della dottrina puritana di un “islam dalla pratica rituale e giuridica più semplice”, espressione moderna di un hanbalismo rigoroso interpretato dall'intransigente Ibn Taymiyya (m. 1328). Che si voglia o no, l'Arabia Saudita si presenta dovunque come il modello perfetto di una società islamica in cui si accostano stranamente pratiche musulmane medioevali e audaci comportamenti moderni. Alcuni studiosi non esitano a parlare di una “wahhabisazione dell'islam contemporaneo” attraverso l'influenza che l'Arabia Saudita esercita sull'insieme del mondo islamico grazie ai pellegrini che si recano ogni anno alla Mecca e a Medina. Eppure da un secolo, l'Arabia Saudita non ha dato alcun scrittore o pensatore di fama internazionale né nel campo della letteratura né in quello della teologia: ciò sembrerebbe confermare che il 'wahhabismo' non sviluppa la creatività dell’ ijtihad.
Il mondo musulmano si vede dunque obbligato ad affrontare, oggi come un tempo, due visioni diverse dei rapporti tra fede e ragione, quando si tratta di interpretare i suoi testi fondanti e di raccogliere le sfide della modernità (diritti dell'uomo, tecnologie, democrazia, laicità, ecc.). Come scrive Yadh Ben Achour, “il primo problema è quello di sapere chi, tra il Testo e la Tradizione da un lato e la ragione dall'altro ha la prevalenza. Il secondo, che deriva dal primo, è relativo alla validità delle fonti e delle tecniche non testuali come l'analogia, il giudizio preferenziale per motivo di equità o dell'interesse ben inteso, l'effetto del cambiamento delle circostanze o del fatto generatore sulle regole del diritto, il costume, le leggi antiche come la Torà... Nella prospettiva mutazilita, la giustizia di Dio è il presupposto necessario della libertà e della giustizia dell'uomo. Se l'uomo, mediante la ragione, può essere giusto, significa che la razionalità e la giustizia suprema sono insite in lui. Il diritto sunnita (eccetto quello hanafita) rovescia il rapporto di prevalenza tra la ragione e la rivelazione: la volontà perfetta, insindacabile, assoluta e sovrana di Dio è la causa di ogni cosa.
Essa è anche l'origine del male e del bene, anzi di ciò che gli uomini chiamano così... La legge rivelata è quindi il solo fondamento della giustizia e del diritto”. Ma subito dopo precisa che “i grandi autori sunniti sono ben lontani dal negare il ruolo della ragione considerata come intelligenza della fede”, come affermano Ghazali (m.1111), Shatibi (m.1388) e tanti altri. Afferma inoltre che “esiste una razionalità riconosciuta e praticata al di fuori dei testi rivelati divini e profetici: la ragione si mette alla ricerca degli indizi (istidlal)”.
Nell'islam, per esercitare il loro ijtihad personale in vista del rinnovamento (tajdid) delle leggi civili, i responsabili del potere legislativo hanno a loro disposizione l'esempio di numerosi pensatori della tradizione giuridica. Yadh Ben Achour vi ricorre volentieri per giustificare la loro creatività apparentemente innovatrice e per moralizzare i loro codici nell'attesa di una ispirazione religiosa. E cita 'Izz-al-din Ibn 'Abd al-Salam che, nel XIII secolo scriveva “la maggior parte delle azioni positive come di quelle negative della vita è riconosciuta dalla ragione... La protezione della vita, della famiglia, dei beni, dell'onore sono dei principi etici riconosciuti da tutti i filosofi e da tutte le legislazioni. La stessa cosa vale per la ricerca del meglio in materia di parole e di azioni... Le cose buone dei due mondi (al-darayn) e le loro cause, così come le cose negative non possono essere riconosciute che mediante la legge rivelata... Per quanto riguarda il bene del mondo terrestre (aldunya) e le sue cause, così come il male, sono riconosciuti dallo stato di necessità delle cose, dalle esperienze, dai costumi, dalle legittime opinioni. In caso di mancanza di chiarezza, bisogna ricercarne gli indizi”. Ed evoca anche il moderno Shawkani, giudice a Saan'a nello Yemen (m. 1830) che diceva la stessa cosa: concepire il bene e il male non dipende dalla legge rivelata. Prima della legge rivelata, capiamo bene che la punizione, la ricompensa, la lode e il biasimo derivano dalla azione compiuta”.
Un gran numero di intellettuali musulmani contemporanei pensano e dicono la stessa cosa, come Mohamed Scharfi, Muhammad Arkoun e Yad Ben Achour. In Tunisia, al-Tahir al-Haddad ha sostenuto, nel 1930, nel suo libro Imra'atu-na fi l-shari'a wa-l-mujtama' (La donna nella Shari'a e nella società)[20] che vi è “del permanente e del transitorio nei precetti coranici”. Più recentemente, Hmida al-Nayfar, nella rivista tunisina “15.21”, ha invitato i suoi, nel 1985 a “ritornare alla vita musulmana e al suo aggiornamento tra la Shari'a e il qanun”. In Egitto, Husayn Ahmad Amin ha denunciato, nel settimanale al-Musawwar, nel 1983, “la vanità della pretesa di applicare la Shari'a” quando si interroga la storia del fiqh islamico e i suoi costanti adattamenti alle circostanze. Poco prima, nel 1981, Fahmi Huwaydi aveva sviluppato la stessa tesi nel suo libro alQur'an wa-l-sultan, humum islamiyya mu'asira (Il Corano e il potere, preoccupazioni islamiche contemporanee)[21], prima di pubblicare il suo Muwatinun, la dhimmiyyun (Concittadini e non dimmi-s protetti)[22], nel 1985. Nel Sudan Mahmud Muhammad Taha, condannato a morte dal presidente Nimeiri il 18 gennaio 1985, aveva sviluppato nel suo libro più importante Al-Risala althaniya min al-Islam (Il secondo messaggio dell'Islam) la tesi che il vero islam è quello del periodo meccano che si accontenta di proclamare i soli grandi principi della morale islamica, tesi che è stata ripresa e difesa dal suo discepolo 'Abd Allah Ahmad al-Na'im[23], nelle sue ultime opere Toward an Islamic Reformation; Civil Liberties, Human Rights and International Law (1990) e Islam and the Secular State; Negotiating the future of Shari'a (2008).
CONCLUSIONE
E così la preoccupazione per un'etica veramente islamica ha portato i musulmani ad esaltare i meriti di una Shari'a assolutizzata e a conferirle un carattere trascendente che non appartiene che a Dio. Come testimonia la storia, questa etica ha avuto molte espressioni e sviluppi inattesi. Fedele alle sue due fonti fondamentali, il Corano e la Sunna, essa si è concretizzata in una Shari'a di dimensione divina, in cui il fiqh ha presto introdotto considerazioni dovute alla ragione umana, legittimando in questo modo il pluralismo delle scuole canoniche dell'islam classico.
Ciò spiega perché all'inizio dei tempi moderni questo fatto abbia provocato una accoglienza piuttosto riservata a certe disposizioni della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. Resta comunque vero che gli Stati musulmani sono obbligati oggi ad armonizzare questa Legge religiosa a vocazione universale con le leggi civili proprie dei particolarismi locali. Yad Ben Achour lo ha constatato per quanto riguarda la storia recente della Shari'a: “Nella pratica, il ricorso al bene comune, all'equità, alle usanze, all'astuzia giuridica, alla politica derivata dallo shar' (la Legge religiosa), si impone accanto allo shar'. Questo è stato il caso dell'istituzione dei beni di mano morta (habus), dell'imposta fondiaria (kharaj), di tutta la parte discrezionale del diritto penale e della maggior parte del diritto civile”, mentre il diritto di famiglia e di successione, così come la prassi delle pene corporali, restano spesso intoccabili perché sono troppo dipendenti dal testo coranico.
Come prevedere allora il futuro immediato delle possibili riforme giuridiche in cui la Shari'a e le leggi civili sarebbero di nuovo in sintonia? Nella Conclusione del suo libro, Yad Ben Achour stesso dichiara di “constatare che la versione integralista rappresenta una interpretazione possibile del testo fondante e della sua espressione nella storia. Questo punto di vista sarebbe anche il più vicino alla verità del testo”, e aggiunge poi che “la cosa più importante è tener presente che le divergenze tra i salafisti e gli altri sono più apparenti che reali. È precisamente da qui che viene il malinteso più grave. È bene, di conseguenza, ricordare l'esistenza di accordi fondamentali, con delle divergenze nel solo ambito politico tra l'islam integralista e l'islam in generale, poiché gli altri accettano lo scarto tra la norma e la vita, come espressione del male inerente ad ogni esistenza umana. Integralista è colui che rifiuta la dissociazione tra le due”.
Ben Achour invita allora “le società islamiche contemporanee a creare esse stesse il superamento, conducendo quattro battaglie prioritarie per difendere il diritto degli uomini ad essere uomini.
Prima battaglia: spiegare perché, a livello umano, la filosofia dei diritti dell'uomo è superiore a tutte quelle che fondano il loro concetto di diritto su una volontà esterna considerata superiore agli uomini e alle loro leggi.
Seconda battaglia: spiegare che la base fondamentale dell'asservimento viene dalla confusione tra il religioso e il politico.
Terza battaglia: denunciare senza paura certe pretese della scienza neo-islamologica di antropologi, sociologi e altri socialscientists che ci invitano a descrivere, calcolare e comprendere senza giudicare, in nome della “scienza” e della oggettività.
Quarta battaglia: spiegare che l'emergere della libertà non è un problema di parole e ancora meno di menzogne. La libertà non può realizzarsi che in un sistema istituzionale “democratico” in cui comunque la legge della maggioranza non ne è il principio”.
Questi sono gli impegni che Y. Ben Achour propone ai musulmani di tutte le sensibilità per superare le divergenze e le contraddizioni generate oggi dalle loro interpretazioni diverse del testo coranico, della tradizione profetica e del pluralismo delle scuole canoniche. Secondo lui una rilettura sapiente e critica della storia del fiqh dovrebbe aiutarli a rinnovarne la metodologia e ad assicurarvi un migliore adeguamento tra le esigenze dell'etica coranica e le leggi civili degli Stati musulmani.
Ma il fascino esercitato più che mai dalla Shari'a e la sua applicazione integrale è oggi un fatto innegabile che proviene da un nuovo ricupero della tradizione da parte delle società musulmane, anche quando queste hanno delle “primavere democratiche o rivoluzionarie”, e da una wahhabisazione generalizzata di un islam considerato ormai come un “rifugio identitario”.
Perciò un sano realismo dovrebbe spingere tutti a far propria l'ipotesi formulata nel 2006 dal prof. Abdelouhab Maalmi nella sua conferenza di Roma: “L'ambiguità derivante dalla posizione della Shari'a nel sistema giuridico crea all'interno dello Stato e della società una tale tensione che, se si confermasse l'apertura democratica, la richiesta di un ruolo più importante della Shari'a diventerebbe certamente ancora più pressante, ma sarebbe forse questa la sola via mediante la quale le società musulmane saprebbero riconoscere il carattere utopico di una società musulmana governata totalmente da una Shari'a mitizzata e i limiti oggettivi di una restaurazione completa di essa nella vita sociale moderna”.
È bene quindi seguire con la più grande attenzione la prossima evoluzione delle società musulmane, che saranno obbligate ad accettare molti compromessi tra la Shari'a e le leggi civili, come è sempre stato nella storia dell'islam.
Note al testo
[1] Così i Fratelli Musulmani di cui uno degli slogan principali è “L'islam è la soluzione” (al-islam huwa l-hall).
[2] Pubblicato in Islamochristiana, Roma, PISAI, 32 (2006) pp. 159-171, ripreso e sviluppato con il titolo “Le Costituzioni arabe e i diritti umani universali”, in Diritti dell'Uomo e dialogo interculturale nel Mediterraneo, a cura di Gianluca Sadun Bordoni, Milano, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009, pp. 33-50.
[3] Una visione di insieme è stata proposta al Colloquio dell'AISR di Toledo (2-5 settembre 1990) e pubblicata negli Atti Fondements de l'éthique Chrétienne, sotto la direzione di Jean-Louis Leuba, Namur, Artel, 1995, pp. 292, da Maurice Borrmans, “Fondements de l'éthique dans l'Islam”, pp. 177-197.
[4] Per una bibliografia essenziale sull'argomento, si consulti: Joseph Schacht, The origins of Muhammadan jurisprudence, Oxford, Clarendon Press, 1953, pp. 348; An Introduction to Islamic Law, Oxford, Clarendon Press, 1964, 2nd ed, 1966, 304 pp.; Dwight M. Donaldson, Studies in Muslim Ethics, London, S.P.C.K., 1953, 2nd ed., pp.304; Maurice Borrmans, “Morale islamique et monde moderne”, pp.56-105, in Islam, civilisation et religion, Paris, Fayard, C.C.I.F., giugno 1965.
[5] Cfr M. A. Draz, La moral du Coran (étude comparée de la morale théorique du Coran, suivie d'une classification de versets choisis, formant le code de la morale pratique), Paris, PUF, 1951 (pp. 629-638).
[6] Cfr, fra gli altri studi, quelli di: Jacques Jomier, Le Commentaire Coranique du Manar (tendances modernes de l'exégèse coranique en Egypte), Paris, Maisonneneuve, 1954; Etudes Arabes, Dossier, Roma, PISAI, Le Commentaire coranique: le Tafsir ancien, n.67-68 (1984-2/1985-1) e Le Tafsir moderne, n.69 (1986-1/2).
[7] “Così il Muwatta' di Malik (m. nel 179/795), il Musnad di Ahmad (m. nel 241/855), il Sahih di al-Bukhari (m. nel 256/870), il Sahih di Muslim (m. nel 261/875), i Sunan di Abu Dawud (m. nel 275/870), i Sunan di Ibn Maja (m. nel 273/886), i Sunan di al-Nasa'i (m. nel 303/915), il Jami' di al-Tirmidhi (m. nel 279/892) e i Sunan di al-Darimi (m. nel 255/868), costituiscono altrettanti manuali personalizzati di etica musulmana: tutti insieme rappresentano il vasto corpus della sunna che i musulmani sunniti considerano, a ragione, come la seconda fonte della loro morale e del loro diritto, ed è considerata alla stessa stregua del Corano, poiché lo commenta e lo precisa in numerosi campi” (cfr M.Borrmans, art. cit. “Fondements de l'Ethique dans l'Islam”, pp 186).
[8] La deuxième Fatiha, L'islam et la pensée des droits de l'homme, Paris, PUF, 2011.
[9] Cfr Etudes Arabes, Dossier, Roma, PISAI, Débats autour de l'application de la Shari'a , n. 70-71, 1986
[10] Ogni paese musulmano, accanto ad una istanza amministrativa superiore che organizza e controlla l'esercizio del culto islamico, dispone di una Dar al-ifta' in cui un Gran Mufti è abilitato a dare dei consigli etico-giuridici detti fatwa-s affinché tutta la condotta umana sia conforme alle norme della Shari'a. Fondato nel 1997, con sede a Dublino, un “Consiglio Europeo della Fatwa e delle Ricerche” ha un ruolo simile per i musulmani d' Europa: il presidente, lo Shaykh Qatari al-Qaradawi dispone di una rivista in 3 lingue che ha come titolo il nome del Consiglio stesso. Cfr La fatwa en Europe: droit de minorité et enjeux d'integration, sotto la direzione di Michel Youmès, Lyon, Profac, 2010 e Etudes Arabes, Dossiers , Roma, PISAI, Les Consultations Juridiques islamiques (Al-Fatawa lislamiyya), n.106-107, 2010, pp. 288 (in arabo) e 299 (in francese)
[11] Cfr. Aux Fondements... pp.190-193; Yad Ben Achour si spiega: “La filosofia sottesa a questo ordine naturale si articola intorno alle seguenti idee fondamentali: 1. L'ordine naturale costituisce, in sé, la dimostrazione dell'esistenza, della potenza e dell'intelligenza di Dio..., 2. Nell'universo non c'è dunque alcuna aberrazione..., 3. Poiché è ordinato, l'universo è spiegabile e comprensibile..., 4. Questo ordine deve essere seguito necessariamente da norme destinate alla sua conservazione..., 5. Queste note quindi sono, senza eccezione, spiegabili e comprensibili in sé stesse..., 6. La ragione e la rivelazione si uniscono quindi per confermare l'armonia nella natura e nel diritto..., 7. Il carattere obbligatorio della norma, tra altre considerazioni, viene dal fatto che è un dettato della natura, poiché è una contraddizione assoluta supporre che le disposizioni obbligatorie che regolano la vita possano essere contrarie alla natura che è l'essenza della vita..., 8. Tuttavia, l'essere umano, contrariamente all'animale, è un essere intelligente che si riconosce consacrato a Dio e alla conquista della vita eterna. Ciò lo obbliga a scostarsi in parte dai determinismi naturali ed essere così un 'essere regolato', un 'essere obbligato' (mukallaf)... in qualche modo per seconda natura l'uomo è un essere obbligato.
[12] Cfr Ahmad Amin, Duha l-Islam (Il Mattino dell'Islam), Il Cairo, 2^ Ed., 1938 Tomo, 2 cap 5, pp. 151 e ss. : “L'opera legislativa all'inizio degli Abbasidi”. Ahamad Amin illustra la questione in questo modo: “Il Legislatore divino ha dichiarato che la donna durante il suo ciclo è tenuta ad osservare il digiuno, ma non la preghiera, mentre la preghiera merita di essere osservata molto più del digiuno! Egli ha dichiarato illecito ogni sguardo gettato sulla nudità della donna anziana difforme e brutta da vedere, se essa è non è sposata, mentre ha dichiarato lecito ogni sguardo gettato sulla nudità della giovane dalla bellezza straordinaria se essa è una schiava. Egli si è accontentato di due testimoni per ogni delitto che comporti la pena di morte, eccetto quando si tratta di fornicazione. Ha proibito al marito che l'ha ripudiata il rapporto con la stessa se questa si è divorziata 'tre volte', poi ha reso lecito il rapporto se è stata sposata ad un terzo uomo, mentre la situazione di questa donna, in entrambi i casi, è proprio la stessa! Ha permesso all'uomo di sposare fino a 4 donne nello stesso tempo, mentre ha permesso alla donna di avere un solo marito alla volta, benché l'argomentazione invocata è la stessa da entrambe le parti. Ha permesso che si tagli la mano del ladro perché è stata lo strumento del peccato, in modo da sopprimere il membro che ha attentato al diritto delle persone, mentre non si taglia né la lingua che rende falsa testimonianza contro le donne oneste, né il membro che serve alla fornicazione! Ha reso obbligatoria l'elemosina legale sul possesso di 5 cammelli, mentre non l'ha resa obbligatoria quando si tratta di migliaia di cavalli, ecc. … Se gli ordini di Dio dipendessero dalla ragione lo 'statuto giuridico' (hukm) di queste realtà sarebbe diverso. Come dunque si può lasciare all'opinione personale il compito di fissare questo 'statuto'? Come pretendere ancora che la natura buona o cattiva di una azione dipenda da una constatazione razionale?”.
[13] Cfr Maurice Bormans, “Convergences et divergences entre la Déclaration Universelle des Droits de l'Homme de 1948 et les récentes Déclarations des Droits de l'Homme dans l'Islam”, in Islamochristiana, Roma, PISAI, 24 (1998), pp. 1-17; Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, Les Musulmans face aux droits de l' homme: Religion, Droit et Politique (études et documents) , Bochum, Verlag Dr Dieter Winkler, 1994; Per una convergenza mediterranea sui Diritti dell'Uomo a cura di Paolo Ungari e Milena Modica, vol 1 : 'Le carte' delle organizzazioni araba, islamica, e africana, Roma, LUISS, 1997.
[14] Cfr Islam et liberté, le malentendu historique , Paris, Albin Michel, 269 p 198. Mohamed Charfi afferma che “da una parte, un gran numero di regole del diritto musulmano classico o Sharia, sono contrarie ai diritti dell'uomo come sono intesi oggi dalla comunità internazionale. In tutti questi casi, le regole della Sharia sono degli attentati ai principi della libertà individuale, dell'eguaglianza tra gli uomini e tra gli uomini e le donne e del necessario rispetto dell'integrità dell'essere umano, dall'altra, queste regole del diritto musulmano non sono di natura veramente religiosa. Esse sono state fatte dagli uomini e dovrebbero ora essere riformate dagli uomini. Si pone allora un problema: perché questo accanimento degli integralisti e dei tradizionalisti sulla volontà di perpetuare queste ingiustizie? Non dimentichiamo che il rispetto della Sharia o, secondo il caso, del ritorno alla Sharia, costituisce l'obiettivo principale e la ragion d'essere dell'integralismo” (pag 104).
[15] Cfr la mia tesi di dottorato alla Sorbona, Statut personnel et famille au Maghreb de 1940 à nos jours, Paris – La Haye, Mouton, 1977 pp 708 e i miei diversi articoli “Code de Statut Peronnel et évolution sociale en certains pays musulmans” (in IBLA, Tunisi, 1963, pp 145-162), “Le Code Tunisien du Statut Personnel et ses dernières modifications” (in IBLA, Tunisi, 1964, pp. 63-71), “Evolution du Statut Personnel en Afrique du Nord depuis l' Indépendance” (in Maghreb, Paris, n. 43, Janvier- Février 1971, pp 29-43) “Statut Personnel et Droit Familial en pays musulmans” (in Proche Orient Chrétien, Gerusalemme, XXIII – 1973, pp. 133-147), “Le Grandes Lignes du Nouveau Code Algérien de la Famille (in Quaderni di Studi Arabi, Venezia, 2, 1984, pp. 63-80), “Les Grandes Lignes du Nouveau Code de Statut Personnel au Kuwayt” (in Quaderni di Studi Arabi, Venezia, 3, 1985 pp. 73-88), “Les derniers changements du Code de Statut Personnel Tunisien” in (Azhar, Palermo, 1995, pp. 47-58), “Qu'en est-il de la 'nouvelle Mudawwana' marocaine?” (in Il Libro e la bilancia, Napoli, 2011, pp. 479-497).
[16] Cfr Etudes Arabes, Dossiers, Roma, PISAI, Islam et laicité, n.91-92, 1996-2/1997-1, pp 283; Mohamed-Chérif Ferjani, Islamisme, laicité et droits de l'homme, Parigi, L'Harmattan, 1991; Abdu Filali-Ansary, L'Islam est-il hostile à la laicité?, Casablanca, Ed. Le Fennec, 1997. Bisognerebbe aggiungere: Maurice Borrmans, “Religions, Laicités et libertés au Moyen-Orient”, pp.95-116, in Geopolitique et Religions au Proche-Orient, Salvator, 2011 e “Le Moyen Orient au carefour de difficiles dialogues”, in Euntes Docete, Roma, Urbaniana, 3. 2011, anno LIX, pp. 101-133.
[17] Cfr Islam et liberté... “Questi abusi sono di due tipi. Da una parte, gli integralisti trovano naturale esercitare all'interno delle moschee le loro attività politiche di opposizione ai regimi in carica. Essi si appoggiano su una tradizione che risale agli inizi dell'Islam, quando la moschea era contemporaneamente luogo di preghiera e luogo di insegnamento e dibattito politico... Dall'altra parte, è frequente che le autorità politiche, ivi comprese quelle degli Stati moderni, utilizzino la religione a scopi politici o che addirittura intervengano nelle faccende puramente religiose. È così che, in Algeria, sotto la presidenza di Boumediène, gli imam delle moschee ricevevano ogni giovedì il testo del sermone che dovevano pronunciare l'indomani prima della preghiera del venerdì, senza cambiarvi una sola parola” (pp. 192-194).
[18] Cfr Maurice Borrmans, “Droit Musulman et Législations Nationales”, in Les Courants Internes à l'Islam, Michel Younès, Lione, ProFac, 2009, pp.15-35
[19] Era l'ideologia del partito Ba'th nei paesi arabi, soprattutto in Irak e in Siria: sappiamo cosa è successo. Cfr Etudes Arabes, Dossiers, Roma, PISAI, Le Ba'th, n.63, 1982-2, pp.112, e n. 64, 1983-1, pp 133.
[20] Tunisi, 1930, pp. 140: l'autore insiste sulla distinzione necessaria tra le intenzioni del Corano (maqasid) che rappresentano la sua sostanza e sono eterne, e le circostanze accidentali (al-ahwal al-'arida) che sono tributarie di un'epoca e di un paese, l'Arabia del VII secolo e quindi suscettibili di evoluzione.
[21] Beyruth/Il Cairo, Dar al-shuruq, 2^ edizione, 1981. Fahmi Huwaydi in questo libro, insisteva sulla priorità del Credo sulla Legge, dei Diritti sui Doveri. Sappiamo che egli è stato a lungo direttore della redazione del mensile del Kuwayt, al-'Arabi, la cui diffusione è stata considerevole nel mondo arabo.
[22] Beyruth/Il Cairo, Dar al-shuruq, 1985
[23] Giureconsulto sudanese emigrato negli Stati Uniti dove insegna in diverse Università; riprendeva, in un articolo di al-Manhal, Jadda, marzo/aprile 1983, la tesi del suo maestro, Mahmud Taha che invertiva il processo di abrogazione nel testo coranico privilegiando le sure meccane in quanto costituenti il “secondo messaggio” definitivo dell'Islam e dimostrava il carattere progressivo delle “legislazioni (tashri'-s) nel corso della storia”. Paola Bernardini ha discusso recentemente una tesi a Roma, all'Università dell'Angelicum, Abdullahi Ahmed An-Na'im's Human Rights Theory and Jacques Maritain's Natural Law Theory: A Comparative Study, pubblicata a Roma, Pontificia Studiorum Universitas A. S. Thoma Aq in Urbe, 2012 pp179.