“Sulle spalle dei giganti” – Settimo incontro. Il Verismo e la Belle Époque: il progresso è verità? Giovanni Verga, di Franco Nembrini
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Riprendiamo sul nostro sito la trascrizione del VII incontro tenuto da Franco Nembrini per il ciclo Sulle spalle dei giganti il 2 febbraio 2018 a Roma. I neretti sono nostri ed hanno l’unico fine di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Letteratura. Per altri testi e audio di Franco Nembrini, e in particolare per l’intero ciclo Sulle spalle dei giganti, clicca sul tag franco_nembrini.
Il Centro culturale Gli scritti (11/2/2018)
Don Fabio Pieroni
Abbiamo la fortuna di avere con noi Franco che è un amico e vero uomo di fede, che ci aiuta a estrarre da questi profeti laici, che sono i grandi autori, non solo il grido dell’umanità, della modernità, ma ci indica anche delle soluzioni sul modo di ascoltare, di sintonizzarci sulla realtà attraverso questi personaggi. Questa sera si parla di Verga.
Franco Nembrini
Buonasera a tutti. Siccome mi hanno sgridato in molti dopo la serata scorsa, stasera cerco di essere più sintetico, più breve. Come sempre sarò eccessivamente schematico e rozzo in alcuni passaggi, ma vi chiedo di stare molto attenti perché per affrontare il tema del verismo, cioè il tema della verità, alcune cose importanti bisogna accennarle. Sarebbe anche interessate che chi di voi vuole, alla fine di una serata così, mi facesse avere domande e perplessità, perché diventerebbe molto di più un percorso fatto insieme.
Riprendo alcune cose che abbiamo già detto e che dovrebbero essere il filo rosso di queste serate. Portare a casa anche solo alcune definizioni un po’ più chiare rispetto al nostro passato sarebbe già sufficiente, per questo se mi ripeto lo faccio anche consapevolmente. Perché ho voluto mettere a tema in una serata Verga e il verismo? Perché, come accennavo prima, c’è a tema tutta la questione della verità e dell’uso della parola verità che l’uomo moderno nella sua illusione ha votato a un’idea di ragione, a un’idea di realtà. La differenza tra la modernità e gli antichi è proprio quella di un modo di stare davanti alle cose, alla vita, un modo che ho chiamato “autenticamente religioso” per cui la realtà è un mistero grande dentro cui l’uomo non finisce mai di entrare. E la pretesa invece tutta moderna di costringere la realtà dentro il pensiero, dentro categorie ideologiche: questo sempre ha finito per produrre una violenza devastante. A partire dal primo esperimento che di questo percorso è stato fatto, l’abbiamo detto la volta scorsa, la Rivoluzione francese.
La verità come esito finale di un ragionamento, di una razionalità, è come se esplodesse e si manifestasse in modo clamoroso nella seconda metà dell’800. In reazione a quella corrente che abbiamo chiamato “Romanticismo”, cioè l’ultimo tentativo di dire una visione religiosa del mondo e della vita che mette insieme paradossalmente l’ateo Leopardi (almeno nella definizione scolastica) e il cattolicissimo Manzoni, esplode in forma clamorosa una corrente culturale che va sotto il nome di positivismo. La seconda metà dell’800 è caratterizzata dal positivismo, che ha un’onda lunga che ci coinvolge tutti. Dobbiamo renderci conto che le cose che dico le abbiamo proprio respirate anche senza volerlo e che è una battaglia di ogni giorno quella di recuperare una certa posizione invece più corretta, più comprensiva delle cose, della vita e della realtà tutta.
Quando dico positivismo dico l’affermarsi, il mettere radici nella cultura europea italiana di un mentalità chiamiamola scientifica. Una fiducia cieca nella scienza, che conosce effettivamente in quegli anni dei progressi giganteschi, che dà vita a questa ubriacatura dell’uomo moderno che dice “Io sono Dio, io posso rifare l’uomo, finalmente io prendo in mano le redini della situazione, senza più dover dipendere dalle favole antiche”.
Si manifesta proprio come pretesa scientifica di dimostrare tutto. Vale solo ciò che la scienza è in grado di dimostrare. Tenete presente che in quegli anni si fanno scoperte che sembrano autorizzare questa presunzione: pensate anche soltanto a come cambia la percezione di quello che è sempre stato ritenuto l’aspetto della vita umana più insondabile, più misterioso, la vita dello spirito, quello che il catechismo chiamava anima. La scoperta della psicanalisi da parte di Freud, con tutto quello che ne è conseguito, fa sperare a Freud stesso, che questo mistero possa essere finalmente svelato, secondo le categorie scientifiche. La scienza dice che se tu osservi un fenomeno e ne scopri le cause, ne produci poi gli effetti a tuo piacimento. Bene, quello dell’anima non è più un mistero, non è più una scienza ascetica, non ha più a che fare con la vita dello spirito, ma è riconducibile scientificamente a leggi. Tutto diventa governato e governabile perché è conoscibile nelle sue cause e perciò determinabile nei suoi intenti, anche la psiche, anche l’anima. Diventa una scienza dimostrata e dimostrabile l’affetto, i sentimenti, l’amore, il dolore, il sentimento della morte.
Pensate al Marxismo storico, scientifico, che ha la stessa pretesa per quel che riguarda la storia. L’umanità, la convivenza tra gli uomini non è più il faticoso cammino per costruire insieme qualcosa di bello e di grande: anche gli aspetti sociali sono soggetti a leggi determinabili anche nelle loro conseguenze. Diventa una scienza esatta: siamo in grado di costruire il paradiso perché adesso conosciamo quali sono le leggi che regolano il movimento della storia, l’evolversi della collettività. La scienza sociale, la sociologia, diventa anch’essa una scienza.
Pensate al filone importantissimo del Darwinismo, per cui le origini stesse dell’umanità non sono più un mistero. Si scopre che c’è una evoluzione necessaria, soggetta a leggi, che evolvono e cambiano nel tempo. Ma il nucleo di quei 50 anni è proprio questo: altro che Creazione e tutte queste baggianate, anche della nostra origine sappiamo che c’è una legge, che ha determinato e determina l’evoluzione dell’uomo. Tutto insomma si può spiegare, scientificamente calcolare.
Anche a livello di costume, culturale, ci sono tutta una serie di fenomeni di cui a scuola parlo in modo scherzoso e forse un po’ pesante ma sono fatti e fenomeni che vanno tutti in questa direzione. Per esempio la prima Esposizione Universale di Parigi, questa idea della Tour Eiffel, che la volta scorsa ho chiamato traliccio dell’Enel, che fa nascere d’istinto il parallelo con la torre di Babele, forse influenzato dalla novella di Buzzati che vi invito ad andare a leggere. Poi c’è la scoperta dell’elettricità, poi c’è la ferrovia, poi ci sono una serie di cose che cambiano o promettono di cambiare il mondo così radicalmente da risolvere tutti i problemi dell’uomo. C’è qualcuno che già allora pensava di poter vincere la morte, con esperimenti e cose strane. Il mito più famoso è forse quello della ferrovia, ma guardate che non sto parlando male del progresso eh! Se dico le cose è perché voglio sottolineare una certa visione, ma è ovvio che tutto il bene che è venuto da questo progresso nessuno lo può nascondere, essendo io arrivato a Roma da Milano in tre ore di treno! Però questo mito ci rimane attaccato addosso. Senza domande, non fosse che per i grandi autori che profeticamente hanno almeno posto il problema. A noi è rimasto addosso il mito del progresso e della scienza, e liberarcene è faticoso. Il mito per cui comunque l’umanità inevitabilmente, inesorabilmente, progredisce. Perché il progresso è ridotto a questo accumulo di conoscenze scientifiche e di applicazioni tecnologiche e ce l’abbiamo appiccicato addosso. Quando diciamo progresso pensiamo esattamente a questo, senza mai esattamente chiederci se il progresso tecnologico sia veramente il progresso dell’uomo, e non è mica detto.
Perché anche solo uno sguardo veloce al secolo scorso, dove anche scoprire l’energia nucleare è stato un progresso, ma usarla per bombardare Hiroshima e Nagasaki forse no! Dal punto di vista della verità sull’uomo non siamo andati avanti. Si può anche tornare indietro. Il progresso a volte, in alcuni aspetti, può essere perfino quel motore che accelera un ritorno all’indietro dell’umanità. Per cui io vi invito a diffidare della parola “progresso” o per lo meno a collocarla nel modo giusto.
Forse un po’ meno adesso: mi pare che le nuove generazioni siano più disincantante, ma la mia generazione è stata forse quella che ha subìto di più il fatto che la verità della scienza fosse insindacabile. Se alla TV dicevano “Due scienziati americani hanno detto che…”, basta, non puoi discutere, perché l’hanno detto due scienziati americani. C’è stata tutta una cultura scolastica, televisiva, giornalistica, che ha consacrato questa idea: gli scienziati hanno sempre ragione. Poi si scopre che quasi tutte le scienze, anzi forse quella che chiamiamo scienza per eccellenza, cioè la medicina, sono assolutamente relative, incerte. Vanno ascoltati i medici eh, ma se ci pensate l’idea che abbiamo è tribale, magica, superstiziosa. “Sono andato dal medico, quindi mi deve guarire, è il suo mestiere!” Per cui quello che il medico dice, la conoscenza che ha o che deve avere del corpo, della malattia e della salute è assolutamente certo, tant’è che se sbaglia lo denuncio. Per cui se uno muore non è perché gli uomini, ordinariamente muoiono - non mi risulta che ci siano sopravvissuti -, ma perché è colpa di qualcuno, del medico, dell’ospedale, con dei costi sociali, tra l’altro, spaventosi.
Il mito del progresso e il mito dell’esattezza delle scienze è la caratteristica che in quei 50 anni esplode a livello sociale e culturale. L’interessante è notare questo: che nel mentre si fa questa apologia del progresso e della scienza, da un certo punto di vista, siccome si vuole negare la tradizione cristiana, accusandola di essere stata la mortificazione del progresso e della ragione, la si vuole colpevolizzare, paradossalmente. Mentre con un occhio la modernità guarda in avanti esaltandosi per il progresso e la scienza, con l’altro guarda indietro e, accusando la civiltà cristiana, di aver affossato la ragione, la scienza, l’uomo, ha la presunzione di andare a trovare nella classicità l’altra grande civiltà, l’altro grande momento dell’umanità, prima di Cristo. È una situazione strana per cui da un punto di vista culturale si nega il cristianesimo e si guarda alla classicità come al modello di riferimento. Dall’altra, tecnica e scienza fanno sentire uno slancio in avanti che brucia ogni concezione dell’uomo come essere limitato, mortale, sofferente.
C’è un brano di Carducci con cui vorrei cominciare. Carducci che, come abbiamo detto la volta scorsa, fa parte di quella linea in cui il razionalismo, l’illuminismo diventano anche la cultura al potere. Vi leggo un brano che sintetizza e spiega tutto il pregiudizio culturale che abbiamo patito fino a anni recentissimi. Parla di Boccaccio e dei grandi umanisti del 400 che hanno ripescato la cultura classica.
…per un Boccaccio che saliva trepidante di gioia nella biblioteca di Montecassino tra l’erba cresciuta grande su ’l pavimento, mentre il vento soffiava libero per le finestre scassinate e le porte lasciate senza serrami scotendo la polvere da lunghi anni ammontata su’ volumi immortali, e sdegnavasi a vederli mancanti de’ quadernetti onde la stupida ignoranza dei monaci avea fatto brevi da vendere alle donne;
Carducci si scandalizza trovando le antiche biblioteche, gli studi con l’erba alta e perché non trova quegli antichi codici che, dice Carducci, i frati ignoranti davano alle mamme di famiglia come una specie di amuleto per preservarsi dalle malattie e dai sortilegi. Perciò pura superstizione, dicendo una fesseria clamorosa accusando i frati di stupida ignoranza nel modo di usare i manoscritti, quando loro li avevano conservati e copiati per secoli! E descrive questi umanisti del ‘400 e ‘500, in giro per l’Europa sulle orme dell’antico. Che va benissimo, ma è il modo con cui si concepisce questo ritorno all’antico contro la cultura cristiana che non va bene.
…per uno, dico, ecco sorgere le diecine di questi devoti dell’antichità, affrontando pericoli di lunghi viaggi, passando monti e mari, peregrinando poveri e soli per contrade inospitali, tra popoli o avversi o sopettosi, de’ quali non sapevan la lingua, tra tedeschi, tra turchi. Andavano, dicean essi, a liberare i gloriosi padri «dagli ergastoli dei germani e dei galli». E i baroni dai torrazzi del castello e i servi dalla gleba per avventura ridevano al veder passare quegl’italiani magri, sparuti, con lo sguardo fisso, con l’aria trasognata, e salire affannosi le scale ruinate di qualche abbazia gotica, e scenderne raggianti con un codice sotto il braccio: ridevano, e non sapevano che da quel codice era per uscire la parola e la libertà, che dovea radere al suolo quelle torri e spezzare quelle catene; non sapevano che quei poveri stranieri erano i vati d’un dio ancora ignoto ma prossimo successore al dio medioevale, immane dio medioevale con la cui sanzione non solo i servi esistevano, ma erano dati cibo ai mastini del barone…
E qui ci sarebbe tutto un ragionamento da fare su quanto la cultura moderna ha creduto a una certa iconografia protestante di origine olandese e inglese, per esempio quella dove si rappresenta il signore che dà i figli dei servi in pasto ai cani. La si trova sui testi scolastici con la spiegazione “Il padrone che dà ai figli dei servi in pasto ai cani”. Poi vai ad indagare e scopri che è una vignetta del 1770, inglese o olandese, cioè recentissima, in polemica con la chiesa cattolica.
Solo che questo pregiudizio ci è rimasto davvero attaccato addosso.
…e le loro donne arse per istreghe dai monaci. Fino a questi ultimi tempi usò in Italia ridere del fanatismo erudito del Quattrocento; e più ne ridevano e declamavano i più ignoranti, ai quali è permesso godere i frutti della coltura laica moderna e schernirne i primi operai, perché non ebbero propriamente l’aria di giardinieri eleganti.
E poi conclude:
E a quella guisa che alcuni secoli innanzi l’un re mandava all’altro per dono preziosissimo qualche frammento di un legno della croce, così ora la repubblica di Lucca attestava la sua gratitudine al duca Filippo Maria di Milano col presente di due codici…
Proprio un’irrisione all’idea di reliquia, alle Crociate, al rapporto con la Terra Santa, un’irrisione a tutto quello che era stato il Medioevo per vantare questo ritorno agli antichi e dunque a questa nuova vera civiltà. In questo contesto con un occhio si guarda avanti per via del progresso e con l’altro culturalmente si guarda indietro. E indietro tanto. Se pensate per esempio allo sviluppo che ha avuto tra la fine del ‘700 e l’800 il mito del buon selvaggio, anche quello è un modo con cui si è detto che la civiltà, cioè la civiltà cristiana, ha distrutto l’uomo. Bisogna ritornare alla natura che, buona per definizione, è in grado di far ritrovare all’uomo la propria origine e la propria purezza. L’Emilio di Rousseau è l’unico libro di pedagogia che mi è toccato leggere tutto intero! Dove si propone l’idea che tu prendi un bambino, lo affidi alla natura, con il tutore che lo accompagna, ed essa ne farà un uomo perfetto.
Ecco, qualcuno allora comincia a dire che anche l’arte deve essere scientifica, oggettiva, non più frutto dell’opinione, della sensibilità, della fantasia, della creatività del singolo, ma l’arte deve piegarsi a canoni di scientificità, di oggettività, di esattezza. La cosa parte in Francia, con un movimento che si chiama Naturalismo e, erede o comunque seguace di questo naturalismo francese, in Italia abbiamo il Verismo con Verga che l’ha interpretato in modo magistrale.
Una parola per capire questo anello tra il positivismo e il verismo, questo naturalismo francese. Senza tante storie, perché i testi sono chiarissimi, vi leggo cosa scrive Zola, il teorico del naturalismo francese. A proposito dell’arte che deve diventare scientifica anch’essa. Si riferisce ad un tizio che ha scritto di queste cose in campo medico, perché guardate che è proprio la medicina il metodo che questi seguono per dire “come si conosce il corpo ormai possiamo conoscere tutto”.
…la nascita di una scienza, spettacolo assai istruttivo in se stesso e che dimostra come il dominio della scienza si estenda e conquisti tutte le manifestazioni dell’intelligenza umana. Dal momento che la medicina, che era un’arte, diventa una scienza perché la letteratura non potrebbe diventare anch’essa una scienza grazie al metodo sperimentale?
Occorre considerare che tutto è collegato, che se il terreno proprio del medico è il corpo dell’uomo nei fenomeni dei suoi organi, in condizioni normali e patologiche, il terreno proprio di noi artisti e di noi romanzieri è il corpo dell’uomo nei suoi fenomeni mentali e passionali. Se non ci fermiamo all’uomo metafisico dell’età classica, bisogna ben tener conto delle idee che la nostra epoca ha della natura e della vita. Lo ripeto, noi portiamo avanti il lavoro del fisiologo e del medico che hanno proseguito quella del fisico e del chimico, perciò facciamo il nostro ingresso nella scienza […] Ciò che non conosciamo, che ancora ci sfugge, è l’ideale.
Attenti, perché capire queste cose ci aiuta davvero a capire il cinismo, il disagio, la confusione, di cui i nostri figli soffrono in maniera così grave.
Lo scopo del nostro sforzo di uomini è restringere il campo dell’ideale ogni giorno conquistando la verità. Siamo tutti idealisti, ma io chiamo idealisti quelli che si rifugiano nell’ignoto per il piacere di esserci, hanno interesse solamente per ipotesi fantasiose, rifiutano di sottoporsi alla verifica dell’esperimento con la pretesa di possedere essi stessi la verità. La loro opera, lo ripeto, è inutile e nociva.
Guardate che definire gli artisti, i filosofi, gli uomini religiosi, “nocivi” è la ragione per cui nasceranno i manicomi criminali e i Gulag. Il parlamento italiano dedicò i primi sei mesi di discussione parlamentare, guidate da Camillo Benso conte di Cavour, a dimostrare l’inutilità e la nocività degli ordini religiosi contemplativi. Scopo naturalmente era la confisca da parte dello Stato, cosa che fu fatta, di tutti i beni ecclesiastici. Da qui, poi, le conseguenze sono pesanti.
La loro opera è inutile e nociva. Solo l’osservatore e lo sperimentatore lavora per la potenza e la felicità dell’uomo rendendolo a poco a poco padrone della natura. Non vi è grandezza, né dignità, né bellezza, né moralità nel non conoscere o nell’inventare falsità, nel pretendere che si sia tanto più grandi quanto più si cresce nell’errore e nella confusione. Le sole opere morali sono le opere veritiere, cioè scientifiche. È chiaro che qui sto parlando del come delle cose e non del perché. Uno scienziato sperimentale non si occupa del perché, egli lascia ai filosofi quello del perché che dispera di poter determinare. I romanzieri
sperimentali non debbono preoccuparsi della mancanza di questo genere di conoscenza…
Ma vi rendete conto? Vuol dire che diventano inutili, dannose, le domande sul perché siamo al mondo, su cos’è la morte, il bene, il male. Le domande che fanno l’uomo uomo vengono cassate come inutili e dannose.
…è già un compito abbastanza gravoso cercare di conoscere il meccanismo della natura. Se un giorno si conoscerà invece il perché di tutto questo sarà certamente in virtù del metodo e noi vogliamo cominciare dall’inizio, dallo studio dei fenomeni. Lasciamo ai metafisici l’incognita del perché, in cui si dibattono inutilmente da secoli, e fermiamoci al come. Per noi romanzieri sperimentali deve esistere un solo ideale: quello che possiamo dimostrare. […] Quando anche il genio dovesse avere come un colpo di genio e di creatività, una intuizione anche profondissima, tutte le volte che una verità è stabilita dagli scienziati gli scrittori dovranno abbandonare immediatamente le loro ipotesi per conformarsi a questa verità, diversamente rimarrebbero nell’errore per partito preso senza utilità per nessuno.
Sto parlando di Zola: il Naturalismo è un fenomeno amplissimo, hanno scritto delle cose meravigliose, ha preso spunto dalla contemplazione della vita dei poveri, soprattutto dei sobborghi cittadini delle nuove città industriali francesi. Perché la cosa interessante è questa: mentre in Francia il naturalismo racconta dei sobborghi operai e della devastazione che hanno comportato, come in tutto il mondo del resto, dove queste megalopoli moderne che hanno al centro magari anche una cittadina bella, ma con milioni di disperati nelle favelas tutt’intorno, è un fenomeno che è cominciato allora. E questi la guardano anche con molta apprensione tentando di descrivere la tragedia che si sta consumando.
In Italia il verismo invece nasce da Verga e si riferisce di più alla vita dei contadini. La grossa differenza è che là ha quasi una sfumatura socialisteggiante, gli operai, i diritti, ecc…In Verga e nel nostro verismo è più una contemplazione della vita dei poveri senza nemmeno accampare possibilità di redenzione, di cambiamento o di miglioramento.
Verga, siciliano, nasce nel 1840, muore nel 1922, è uno scritture che inizialmente descrive la società “bene” milanese con cui ha a che fare, per poi svoltare quando ha 34 anni perché scrive una novella che lo lascia stupito per il successo strepitoso che ha, la novella a cui tutta la critica fa risalire la nascita del nostro Verismo, novella che si chiama “Nedda”.
Dicevo prima, una contemplazione della vita così disincantata, così terribile che in Nedda ha il suo inizio e la sua fine: tutto il resto nell’opera di Verga mi pare che vada in quella direzione. Di una tristezza infinita. Per questo mi arrabbio tutte le volte che dicono che Leopardi è pessimista, ma leggiamo Verga e poi la prossima volta Pirandello! Leopardi ti fa alzare gli occhi ed ammirare la luna attraverso i suoi versi e anche se sei un po’ affossato nelle tue miserie ti fa alzare la testa e vivere, e respirare.
Vi leggo il finale della novella “Nedda”. Questa ragazza, in Sicilia nell’800, colpevole di essere rimasta incinta, saluta il fidanzato che va alla raccolta delle olive febbricitante perché la malaria nella piana devasta la popolazione.
Tre giorni dopo udì un gran cicaleccio per la strada. Si affacciò al muricciolo, e vide in mezzo ad un crocchio di contadini e di comari Janu disteso su una scala a piuoli, pallido come un cencio lavato, e colla testa fasciata da un fazzoletto tutto sporco di sangue. Lungo la via dolorosa che dovette farsi prima di giungere al casolare di lui, egli, tenendola per mano, le narrò come, trovandosi così debole per le febbri, era caduto da un’alta cima, e s’era concio a quel modo. – Il cuore te lo diceva! mormorò egli con un triste sorriso. Ella l’ascoltava coi suoi grand’occhi spalancati, pallida come lui, e tenendolo per mano. L’indomani egli morì. Allora Nedda, sentendo muoversi dentro di sé qualcosa che quel morto le lasciava come un triste ricordo, volle correre in chiesa a pregare per lui la Vergine Santa. Sul sacrato incontrò il prete che sapeva la sua vergogna, si nascose il viso nella sua mantellina e tornò indietro derelitta.
Questo è il rapporto con la religione, perché poi questa pretesa di fotografare la realtà com’è non sta in piedi. Tutta l’opera di Verga da questo punto di vista è un immenso pregiudizio. Non c’è un prete che sia un prete, non ce n’è uno buono in tutta la sua produzione. Per cui questa povera ragazza che vuole andare in chiesa a pregare, invece di essere confortata e aiutata, torna indietro piena di vergogna, derelitta.
Adesso, quando cercava del lavoro, le ridevano in faccia, non per schernire la ragazza colpevole, ma perché la povera madre non poteva più lavorare come prima. Dopo i primi rifiuti e le prime risate ella non osò cercare più oltre, e si chiuse nella sua casupola, come un uccelletto ferito che va a rannicchiarsi nel suo nido. Quei pochi soldi raccolti in fondo alla calza se ne andarono l’un dopo l’altro, e dietro ai soldi la bella veste nuova, e il bel fazzoletto di seta. Lo zio Giovanni la soccorreva per quel poco che poteva, con quella carità indulgente e riparatrice senza la quale la morale del curato è ingiusta e sterile, e le impedì così di morire di fame. Ella diede alla luce una bambina rachitica e stenta: quando le dissero che non era un maschio pianse come avea pianto la sera in cui avea chiuso l’uscio del casolare e s’era trovata senza la mamma, ma non volle che la buttassero alla Ruota. – Povera bambina! che incominci a soffrire almeno il più tardi che sarà possibile! disse. Le comari la chiamavano sfacciata, perché non era stata ipocrita, e perché non era snaturata. Alla povera bimba mancava il latte, giacché alla madre scarseggiava il pane. Ella deperì rapidamente, e invano Nedda tentò spremere fra i labbruzzi affamati il sangue del suo seno. Una sera d’inverno, sul tramonto, mentre la neve fioccava sul tetto, e il vento scuoteva l’uscio mal chiuso, la povera bambina, tutta fredda, livida, colle manine contratte, fissò gli occhi vitrei su quelli ardenti della madre, diede un guizzo, e non si mosse più. Nedda la scosse, se la strinse al seno con impeto selvaggio, tentò di scaldarla coll’alito e coi baci, e quando s’accorse ch’era proprio morta, la depose sul letto dove avea dormito sua madre, e le s’inginocchiò davanti, cogli occhi asciutti e spalancati fuor di misura. – Oh! benedette voi che siete morte! esclamò. – Oh benedetta voi, Vergine Santa! che mi avete tolto la mia creatura per non farla soffrire come me!
Se questo è allegro! Una descrizione impietosa, ma disperata, della condizione dell’uomo, molto realista da un certo punto di vista perché la morte e il dolore ci sono. Ma non è il realismo cristiano. Anche Dante o San Francesco prendono atto della sofferenza e del dolore che la vita dell’uomo è, ma da dentro una speranza invincibile. Anche Manzoni, anche lui cattolico, non a caso i due cattolici che hanno ridato la lingua al popolo italiano, racconta la vicenda di “genti meccaniche” di gente semplice, che vive nella povertà, ma in un altro modo.
Questo presunto realismo è un tentativo che Verga fa. Perché lui ci crede che si possa, scrivendo delle pagine stupende, descrivere la realtà così com’è. Sono anche gli anni in cui nasce la fotografia. Immaginate che lo scrittore possa dire: allora, come la fotografia è oggettiva, perché è una macchina che oggettivamente registra la realtà, così è l’autore. Forse è venuto il tempo in cui riusciamo a rendere conto dell’oggettività del reale. E ci prova, lo teorizza. Non tanto come i francesi ma lo teorizza dando queste definizioni brevissime.
Sono i tre testi della poetica di Verga: la Prefazione all’”amante di Gramigna”, la novella “Fantasticheria” e la prefazione ai “Malavoglia”.
Sono i testi in cui spiega che vorrebbe fare così: il lettore possa incontrare la realtà per quella che è, senza mediazioni dell’autore che con la sua sensibilità te la modifica in qualche modo, te la consegna rivisitata. Il verismo ha la presunzione di dire la verità, di dire la realtà per quella che è.
Per esempio nell'”Amante di Gramigna” dice:
La scienza del cuore umano sarà il frutto della nuova arte. Il romanzo avrà l’impronta dell’avvenimento reale e l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed essere sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun contatto con il suo autore.
Cioè l’autore deve letteralmente scomparire e la realtà venir fuori per quella che è.
Che essa non serbi nelle sue forme viventi alcuna impronta della mente in cui germogliò, alcuna ombra dell’occhio che la intravvide, alcuna traccia delle labbra che ne mormorarono le prime parole. Come il fiat creatore che essa stia per ragion propria, per il solo fatto che è come deve essere ed è necessario che sia così, palpitante di vita ed imputabile al pari di una statua di bronzo di cui l’autore abbia avuto il coraggio divino di eclissarsi.
Si capisce? Sono definizioni così chiare. E quando mette a tema non il modo ma la morale del suo racconto e del suo modo di stare davanti alla realtà, la chiama ad un certo punto della novella “Fantastichieria”, la morale dell’ostrica. Lui dice, con un pessimismo terrificante: non c’è verso, l’uomo è crocifisso alla condizione in cui nasce e in cui vive. Quando prova a staccarsi per migliorare, anche solo un po’, anche solo le proprie condizioni economiche, non c’è possibilità, fallisce: deve stare attaccato come un’ostrica allo scoglio dove la sorte lo ha gettato.
– Insomma l’ideale dell’ostrica! – direte voi. – Proprio l’ideale dell’ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi -. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano – forse pel quarto d’ora – cose serissime e rispettabilissime anch’esse. Sembrami che le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione. – Sembrami che potrei vedervi passare, al gran trotto dei vostri cavalli, col tintinnìo allegro dei loro finimenti e salutarvi tranquillamente. Forse perché ho troppo cercato di scorgere entro al turbine che vi circonda e vi segue, mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell’istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme. Un dramma che qualche volta forse vi racconterò…
E poi conclude, promettendo all’amante di raccontare quello che ha visto ad Aci Trezza.
Per le ostriche l’argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.
La morale dell’ostrica è quella per cui la condizione in cui Dio ti ha messo non è condizione di possibile libertà.
Non ti realizzi mai nella vita perché la vita è questa fregatura, sempre. Tant’è che l’ultimo pezzetto che vi leggo, della prefazione dei “Malavoglia” ha una descrizione della vita interessante. Perché Verga immagina un ciclo di cinque romanzi che rappresentino i cinque gradi della scala sociale: i Malavoglia cioè i poverissimi pescatori sono i primi.
Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta fino allora relativamente felice, la vaga bramosìa dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.
Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione.
Lui dice: descrivere la vita dei contadini e dei pescatori, così elementare, viene facile da descrivere esattamente.
Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa de Leyra; e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare all’Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosìe, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto.
Lui immagina un ciclo di cinque racconti, cinque classi sociali dalla più bassa alla più alta e si accorge subito che descrivere i contadini è facile, e non dico che ha ragione eh…ha torto marcio! Pensate a questa osservazione della realtà, senza fede, senza realismo vero, quel realismo che abbiamo visto essere capace di star davanti alle cose, ma trapassando la realtà perché la realtà è un segno di qualcosa d’altro… Se la realtà non è segno di niente, la morte di quella bambina, la sofferenza di Nedda, cosa sono? Niente.
Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti.
Cioè tu sei una rotella del meccanismo, l’umanità progredisce per il sacrificio di ogni singolo. Il singolo è votato all’infelicità e al non-senso ma il suo non-senso, la sua vita sacrificata è sacrificata per il bene dell’umanità, che intanto va avanti.
Ogni movente di cotesto lavorìo universale, dalla ricerca del benessere materiale, alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada questa immensa corrente dell’attività umana, non si domanda al certo come ci va.
Guardate che qua, secondo me, c’è la profezia di tutti i gulag e di tutte le dittature, perché, se il bene dell’umanità è più grande del bene del singolo, il singolo può essere sacrificato al bene della massa. E se il potere ha la presunzione di aver identificato qual è il bene della massa, del popolo, allora la vita del singolo, sacrificata a questo valore non fa problema. Si possono ammazzare tutte le persone che si vuole, l’importante è il benessere o il progresso dell’umanità.
I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l’Onorevole Scipioni, l’Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione […] Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere.
Noi non facciamo altro che registrare questa immane corrente dei vinti, perché tutti sono vinti e del progresso dell’umanità, dove i giovani che vengono avanti ti travolgono e ti calpestano, in attesa di essere a loro volta calpestati: questa è l’umanità, mossa da una strana volontà di migliorare, di progredire, ma vinta sempre. Ci sarebbe da chiedersi se c’è un altro modo di stare davanti alla vita e alla sua fatica e al suo dolore, questo è il problema. È la verità questa o non è la verità?
Perché poi Verga scrive bene. La cosa che mi ha sempre fatto impazzire di Verga è che ti sembra di essere nei posti che descrive. Vi leggo il finale della mia novella preferita, “La roba”.
C’è questo Mazzarò che ha come ideale della vita la roba, neanche i soldi, non gli piacciono, appena ne ha compra un pezzo di terra. Ha sfrattato anche un barone, gli ha portato via tutto, un genio. Un cervello, dice, che è un diamante dal punto di vista degli affari.
– Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò! – diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina di mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, o voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini, e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sicché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se la chiappava – per un pezzo di pane. – E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! – I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo e l’asinello, che non avevano da mangiare. – Lo vedete, quel che mangio io? – rispondeva lui, – pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba. – E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: – Che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? – E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva. E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro, diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed essere meglio del re, ché il re non può né venderla, né dire ch’è sua. Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, con il mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: – Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: – Roba mia, vientene con me!
Dico che ci sono affezionato, perché è bellissima, ma soprattutto perché questo “roba mia vientene via con me”, i miei amici lo sanno, la sento mia. Io ho fatto alcune cosette, compresa una scuola, quante volte ho pensato di dover stare attento. Perché ho visto tanti padri fondatori di opere bellissime portare nella tomba le loro opere. Se le sono portate dietro davvero per non averle lasciate, per non averle affidate ad altri, per non avere avuto il coraggio di lasciare quel che va lasciato. E invece si diventa vecchi e alla roba ci si attacca morbosamente, quasi che potesse garantirci di vivere di più. E allora quando muori, muore con te tutto quello che hai creato. Io ho sempre pregato tanto il Signore che non mi facesse fare quella fine lì, di ammazzare anatre e pulcini a colpi di bastone urlando. Si può fare così anche con i figli, si possono non mollare neanche quelli, sentendoli roba nostra.
Ma è per dire della bellezza di certe pagine con tutto quello che ho detto di male… lo rileggerei tutto d’un fiato.
Una conclusione ovvia è un giudizio su questo tentativo di dire la verità: ma è la verità? Io ho sempre detto ai ragazzi: chi di voi sa di fotografia sa che non c’è una fotografia oggettiva perché la scelta di cosa fotografare ha già ucciso l’oggettività. Perché è una scelta. Il grandangolo, la luce, l’orario del giorno, il momento, è tutto soggettivo. Tant’è che ci sono i grandi fotografi che diventano grandi fotografi. E perché sono grandi? Perché ci hanno messo del loro, altro che scomparsa dell’autore e dell’opera che sembra essersi fatta da sé: è un’oggettività impossibile e menzognera. Una scelta precisa, cosa quando e come fotografare, e soprattutto è una scelta precisa: un certo modo di intendere la moralità del singolo e della comunità. La battuta che ho fatto prima sul fatto che non c’è un prete che ispiri un filo di simpatia, è una scelta, non è un dato di realtà. Esattamente come quarant’anni circa dopo la pubblicazione dei Promessi Sposi di Manzoni, con a tema la provvidenza che governa la storia, i Malavoglia, guarda caso, chiamano “Provvidenza” la nave che va a fondo e distrugge la famiglia. Come a dire: “Guardate che la provvidenza è una palla gigantesca, se ci credete vi frega anche”. Non mi direte che è un’oggettività. E così tantissime cose.
Tanto è vero che c’è un altro modo di stare di fronte alla vita e alla realtà, che è quello religioso, autenticamente religioso, che indaga la realtà sperando di avvicinarsi quanto possibile al vero . Ma il vero non è il risultato di un percorso intellettuale.
Questa cosa è “la Questione”, la questione di tutto questo corso e di questa serata in particolare dove abbiamo visto il tentativo anche dell’arte di essere vera. Ma la cosa bella del cristianesimo è che la verità non è un punto di arrivo intellettuale. La verità è un rapporto, quante volte l’abbiamo detto. La verità è una presenza e tu la vita la affronti e la capisci non necessariamente in termini intellettuali ma per quel che vivi. La realtà è viva, dentro un rapporto, dentro una relazione. Quante volte vi ho ricordato Pilato che dice a Gesù: “ma che cos’è sta verità?” E Gesù tace. Sant’Agostino fa quel giochino dell’anagramma. Alla domanda di Pilato “Quid est veritas”, Sant’Agostino fa notare che anagrammando queste tre parole esce la frase “Est vir qui adest”: è un uomo presente. Nel suo silenzio Gesù dice a Pilato “Ma cosa vuoi che sia la verità? Sono io”. E questa è la vera liberazione che il cristianesimo ha portato sulla terra capite? Perché se la verità la capiscono solo i filosofi e i professori tutti gli altri sono fregati. E invece Gesù dice: “Ti ringrazio Signore che queste cose, cioè la verità, le hai rivelate ai semplici, anzi, l’hai nascosta ai sapienti”. E dovendo scegliere i dodici fondatori della baracca, sceglie pescatori e falegnami, senza un solo professore. C’è un aspetto per cui il cristianesimo è esattamente la presunzione che la verità sia per tutti, anzi, più facilmente per i semplici, per i sofferenti, per i deboli. Vi sto dicendo le beatitudini, quella che è la natura del cristianesimo, che è la liberazione perché consente l’accesso alla verità ai più semplici, ai più piccoli, ai più deboli. Perché la verità è il rapporto con Cristo. Questo dovremmo ricordarcelo sempre perché butta per aria l’idea intellettualistica che abbiamo che se uno ha tre lauree ne sa di più. Chi l’ha detto?
Vi faccio vedere ora un pezzettino del film di Bernadette. Per capire il positivismo vedetevelo tutto! Perché tutta la polemica contro Bernadette la fanno delle persone che dicono: “Ma allora è malata, visionaria”. Vi ricordo che in quegli anni nacque anche la teoria di un certo Lombroso, che andava in giro nelle carceri a misurare il cranio dei delinquenti perché si sosteneva che non era un problema morale. Se uno è un delinquente è perché ha qualche osso spostato, è questione fisiologica. Il male non c’è e se c’è è un problema fisiologico. Bernadette fu trattata così e quel film è documentatissimo dal punto di vista storico. Fu trattata così e in questo pezzo si assiste alla discussione dei maggiorenti del paese che si lamentano e non vogliono che giri la voce di questa esaltata che vedrebbe la Madonna. Sapete perché? Perché se al governo centrale vengono a sapere che nel paesino di Lourdes si credono ancora a queste cose, non arriva più la ferrovia, non arriva il progresso. È una cosa impressionante che mostra l’antitesi storica che c’è. Per loro il progresso è la ferrovia e proprio la credenza e la superstizione religiosa lo impedisce, è un freno e va fatta fuori perché ferma il progresso. Tutti i pregiudizi anti-ecclesiali nascono lì e diventano poi un certo modo di fare storia, letteratura e scuola. In questo dialogo si capisce bene.
(vedi min 56.00 di https://www.youtube.com/watch?v=AJuouT4mrIk )
Un’intera cultura si è costruita su questo assurdo. Per concludere la cosa che dico è questa: i vinti, in una cultura così non possono che essere vinti ma, per la cultura religiosa, per la nostra fede, i poveri invece sono quelli che vincono, sono i vincitori.
Alla prossima.