La storia di Lale Sokolov, il «tatuatore di Auschwitz», di Silvia Morosi e Paolo Rastelli

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 04 /02 /2018 - 15:55 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Il Corriere della Sera un articolo pubblicato il 9/1/2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti cfr. su questo stesso sito i testi della mostra Voci dalla Shoah.

Il Centro culturale Gli scritti (4/2/2018)

Per più di 50 anni, Lale Sokolov ha vissuto con un segreto: essere stato testimone del più odioso crimine contro l’umanità dell’era moderna, l’Olocausto. Solo negli anni Ottanta si è scoperto che l’uomo, nato come Ludwig «Lale» Eisenberg da genitori ebrei in Slovacchia nel 1916, era stato il «tatuatore di Auschwitz». Fu lui a raccontare come incise un numero sulle braccia di chi sarebbe morto in una camera a gas. «Essere sopravvissuto per quasi tre anni in un campo lo ha portato a vivere tra paranoie e paure. Ho dovuto guadagnarmi la sua fiducia, ci sono voluti tre anni di lavoro», spiega Heather Morris, autrice della sua biografia (scelta perché non ebrea), in un articolo sulla Bbc.

Nell’aprile del 1942, a 26 anni, Lale fu portato ad Auschwitz. Quando i tedeschi arrivarono nella sua città, si offrì come «giovane forte e robusto» per salvare la sua famiglia. A differenza dei fratelli, era disoccupato e celibe e non conosceva ancora l’orrore dei campi. Con il numero 32407 «costruii le baracche, ma presto mi ammalai di tifo. Ero accudito da Pepan, l’uomo che mi aveva fatto il tatuaggio. Mi insegnò il mestiere e come tenere la testa bassa e la bocca chiusa». Quando Pepan scomparve e venne liberato, grazie alle sue abilità con le lingue straniere, Lale divenne il tatuatore ufficiale, «premiato» con razioni di cibo extra, una stanza singola e tempo libero. Nonostante i privilegi, «non si considerò mai un collaborazionista», ricorda Morris. «La minaccia di non svegliarsi il mattino dopo era sempre presente. Era l’artefice del più brutale processo di registrazione con cui le persone perdevano nome e identità». Prima con uno speciale timbro di metallo, che aveva i numeri fatti con aghi abbastanza grossi della lunghezza di un centimetro circa (sistema usato soprattutto con i prigionieri di guerra sovietici), poi con il doppio ago, quando i gerarchi si resero conto che il marchio sbiadiva. Un numero di matricola impresso sulla pelle, sugli avambracci sinistri dei prigionieri, segno indelebile che marchiava i deportati come schiavi o animali da macello.

Sapendo che era uno dei più fortunati, cercò di aiutare gli altri prigionieri. Nel campo si innamorò di Gita, sposata nell’ottobre del 1945, e cambiò il cognome in Sokolov per adattarsi meglio alla Cecoslovacchia controllata dai sovietici. Allestì un negozio di tessuti, inviò denaro per sostenere la costruzione dello stato di Israele ma, scoperto dal governo, fu imprigionato. Fuggì a Vienna, Parigi e infine a Sydney. Durante il viaggio, una coppia di Melbourne li convinse a iniziare una nuova vita in Canada dove nel 1961 nacque il figlio Gary che, fino all’età adulta, non conobbe mai il dramma vissuto dai genitori. «Questa storia aiuta le giovani generazioni, che non hanno vissuto l’orrore, a stringere legami con la storia. Umanizzando anche la persona incaricata di infliggere l’orrendo degrado fisico», conclude Cedric Geffen, presidente del memoriale dell’Olocausto australiano (qui l’articolo pubblicato da Heather Morris sul Guardian in occasione della morte di Sokolov).