1/ Don Pirro Scavizzi (1884-1964), “prete romano”. Cappellano militare nelle due guerre mondiali, testimone della tragedia della Shoah, alunno del Capranica, fu a lungo vice-parroco a San Vitale e poi parroco a Sant’Eustachio, di Andrea Lonardo 2/ Ritratti romani, di Andrea Lonardo
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1/ Don Pirro Scavizzi (1884-1964), “prete romano”. Cappellano militare nelle due guerre mondiali, testimone della tragedia della Shoah, alunno del Capranica, fu a lungo vice-parroco a San Vitale e poi parroco a Sant’Eustachio, di Andrea Lonardo
Riprendiamo dal sito Romasette di Avvenire un articolo di Andrea Lonardo pubblicato il 9/1/2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Il Novecento: il fascismo, il nazismo e l'opposizione ad essi. Per atri testi della rubrica Ritratti romani, cfr. il tag ritratti_romani.
Il Centro culturale Gli scritti (28/1/2018)
Nel film Tutto quello che vuoi un giovane che sta sprecando la sua vita, bivaccando, commettendo piccole violenze e rinunciando a studio e lavoro, si ritrova per caso a fianco di un anziano il quale, pur avendo vuoti di memoria, pian piano gli rivela indirettamente fatti della sua vita: la morte in giovanissima età dei suoi genitori, i suoi amori e il suo matrimonio, le sue scelte ancora 15enne nel corso della II guerra mondiale, quando aiutò gli alleati e vide morire tre soldati americani di cui era diventato amico. Il giovane smette di lamentarsi del proprio destino e, affezionatosi al vecchio, recupera il gusto di vivere, desiderando ormai per la propria esistenza qualcosa di bello.
Dinanzi a don Pirro Scavizzi si può vivere la stessa esperienza di ritrovarsi affezionati alla vita. Anch’egli, come il vecchio del film, dovette mutare tutto della propria esistenza per ben due volte a causa della guerra. Nel corso della I guerra mondiale seguì al fronte i soldati italiani come cappellano militare. Un altro sacerdote, il barnabita Giovanni Semeria, scrisse di quell’esperienza compiuta da tutti i giovani preti italiani: «Il clero comprese subito la solennità dell’ora, e, trascurando ogni umano miraggio di fronte al supremo interesse delle anime, accettò ed amò i sacrifici più amari, i pericoli più gravi, i distacchi più dolorosi e si diede interamente (specialmente i cappellani del fronte) e senza riserva alle anime. Le comodità, le comode tradizioni, gli affetti domestici, gli interessi materiali, la vita propria, tutto passò in seconda linea, e trionfò soltanto la sublime carità di Cristo. I sacerdoti non furono più soltanto sacrificatori all’altare, ma furono anche sacrificati: ecco la ragione per tanta efficacia di bene. E i mezzi quali furono? I mezzi furono anzitutto la perfetta disciplina, poi l’essersi accomunati coi giovani, aver vissuto con loro, aver pianto e gioito realmente con loro, averli amati ed essersi fatti amare».
Quell’esperienza, come spiegano tanti, fece l’unità d’Italia ben al di là del combattere: quei cappellani unirono i giovani di ogni regione italiana, costretti a marcire nelle trincee da politici poco accorti. Memore di quella esperienza, allo scoppiare della II guerra mondiale, don Pirro ripartì per non lasciare soli i soldati italiani sul fronte russo, poiché una nuova generazione era stata destinata al massacro. Senza nulla sospettare all’inizio, si rese pian piano conto che quella guerra era ancora più feroce della precedente. Scrisse: «i membri delle formazioni “SS” debbono fare dichiarazione di non praticare nessun culto per essere fedeli esclusivamente alla religione dello Stato. A costoro sono riservate le esecuzioni individuali o in massa contro gli ebrei, contro i polacchi o contro chiunque essi giudichino pericoloso all’integrità del Reich. I loro atti (anche le “eliminazioni”) sono incontrollati e incontrollabili e incensurabili da chiunque». Della tragedia della Shoah gli mancò di comprendere solo l’utilizzo del gas per le eliminazioni, ma non il fatto stesso dell’eccidio: «Le condizioni degli ebrei nella Germania, nella Polonia e nell’Ucraina è sempre più tragica. La parola d’ordine è: “Sterminarli senza pietà”. Gli eccidi in massa si moltiplicano ovunque. I diritti all’esistenza sono ormai ridotti ai minimi termini per loro. In Ucraina lo sterminio degli ebrei è ormai quasi terminato».
Si accorse che la tragedia era ancora più grave perché Hitler aveva deciso lo sterminio, anche se in forma più graduale, dei cattolici slavi, anch’essi da eliminare come razze inferiori, a partire dal clero e dai quadri della società: «Suore-A Wilna nella notte tra il 25 e il 26 marzo 1942 sono state arrestate tutte le Visitandine, le Carmelitane, le Orsoline del P. Ladochovski, le Figlie della Carità, le quaranta di Nazareth. La presenza dei sacerdoti è stata già quasi completamente distrutta in alcuni luoghi e negli altri lo sarà tra breve. Altri Sacerdoti-In Posnania, dove erano una quarantina di preti ne è rimasto soltanto uno. Nel campo di Dachau vi sono circa un migliaio di preti di cui oltre settecento polacchi. Nella Slesia Pomerania quasi tutti i sacerdoti sono stati arrestati».
Tornato in Italia raccontò a Pio XII dell’eccidio degli ebrei e della persecuzione anti-cristiana e di quell’incontro riferì: «Lo vidi piangere come un fanciullo». Il Papa lo inviò più volte allora sul fronte russo, per fargli attraversare la Polonia con la scusa di accompagnare le truppe, per cercare di capire come poter porgere il suo aiuto in quella catastrofe; la consapevolezza che qualsiasi intervento pontificio avrebbe aggravato la persecuzione dei cristiani che soli potevano aiutare in loco è un elemento che viene spesso trascurato nella valutazione di quegli anni bui, ma è invece evidente nella testimonianza di Scavizzi.
Anche dinanzi alla persecuzione nazista don Pirro condivise la visione dell’intero clero romano, prodigandosi per aiutare gli ebrei nel 1944. Profondamente toccato dall’esperienza della guerra, fondò poi un gruppo di amicizia ebraico-cristiana e si impegnò perché fosse cancellata dalla liturgia l’espressione “perfidi giudei”. Ma Scavizzi non fu vicino solo a Pio XII. Lo stimarono tutti i pontefici lungo l’arco della sua vita. Nel 1960, addirittura, Papa Giovanni XXIII, che lo amava per la sua bontà e la sua dedizione, gli fece predicare gli esercizi spirituali alla sua presenza, per tutta la Curia romana: don Pirro aveva allora 76 anni.
Don Pirro fu così cappellano militare, ma prima ancora fu, in tutto, prete romano. Decise di diventare sacerdote già da adolescente, avendo ascoltato la testimonianza di un missionario in Cina. Dopo aver studiato da liceale al Tasso, si preparò al sacerdozio nel Collegio Capranica, antichissima istituzione romana, e lì fece con alcuni seminaristi il voto di “rinuncia agli onori” per la sua futura vita sacerdotale. Fu a lungo vice-parroco nella parrocchia di San Vitale e poi parroco nella parrocchia di Sant’Eustachio. Creò in parrocchia una sorta di consiglio pastorale ante litteram, valorizzando il ruolo dei laici e celebrando un piccolo sinodo parrocchiale. Con i fedeli decise di iniziare delle relazioni con le comunità cristiane dell’Uganda per sostenerle, rifiutò di ricevere i cosiddetti “diritti di stola” e passò ore e ore in confessionale: una fila si creava ogni mattina per poter essere da lui ascoltati e ricevere il perdono del Signore. Inoltre, come musicista, compose musiche e canti per la parrocchia, insegnandoli poi ed eseguendoli personalmente.
Roma è stata fatta da persone come don Pirro, che hanno edificato nelle anime uno sguardo diverso e buono sulla nostra città. Eppure la voce Scavizzi non esiste nemmeno nel Dizionario biografico degli italiani, poiché gran parte del mondo accademico non si accorge di come sia stato tessuta nelle generazioni da persone come lui quella tela di relazioni che ha reso e rende Roma, come le altre città d’Italia, vivibili. Da vero romano, consapevole della missione affidata alla diocesi del Papa, don Pirro, appassionatissimo della sua città, guardò sempre anche al di là dei confini cittadini. Fin dalla fondazione dell’Unitalsi accompagnò i malati nei pellegrinaggi a Lourdes, divenendone, dal 1923 alla morte, direttore spirituale.
Comprese inoltre l’esigenza di tornare a conquistare i cuori al vangelo e si legò alle missioni popolari dei missionari Imperiali-Borromeo. Addirittura Montini chiese la sua presenza, quando divenne arcivescovo di Milano, per guidare una missione nelle periferie della metropoli lombarda, mentre altre missioni riguardarono alcuni quartieri periferici di Roma, dove mancava allora una incisiva presenza della chiesa. Monsignor Scavizzi dovette subire anche umiliazioni nella Chiesa – destava gelosia il grande numero di vocazioni che sorgevano dalla sua predicazione, fra cui quella di don Umberto Terenzi – così come ostilità da parte della massoneria di Palazzo Giustiniani che sorgeva nel territorio della sua parrocchia: venne addirittura allontanato dalla cura pastorale della parrocchia di Sant’Eustachio.
È sepolto ora nella Cappella del Crocifisso da lui voluta, proprio nella parrocchia da lui tanto amata. Nel suo Diario scrisse: «Un tappeto che una volta serviva per varie cose, essendo logoro, fu ridotto a delle strisce per usi minori, poi infine essendo un pezzetto, servì solo per spolverare». Per lui è iniziato il processo di beatificazione.
2/ Ritratti romani. Storie di vita nella Roma del ‘900, tra memoria e gratitudine. Al via una serie di racconti su figure di preti, religiosi, laici che hanno contribuito a costruire il tessuto della città. Pienamente parte di un popolo che ci vive e la ama, di Andrea Lonardo
Riprendiamo dal sito Romasette di Avvenire un articolo di Andrea Lonardo pubblicato il 12/12/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (28/1/2018)
Don Pirro Scavizzi, don Umberto Terenzi, don Andrea Santoro, ma anche don Tonino e don Gianni. I coniugi Beltrame Quattrocchi, ma anche Nino e Tina o Luigi e Isabella. Le monache dei Santi Quattro Coronati che aprirono la clausura nel 1944 per accogliere ebrei e perseguitati, ma anche suor Fulvia e suor Francesca.
Questa rubrica di “ritratti romani” si prefigge lo scopo di raccontare storie di romani del novecento. Storie di romani che ebbero un pensiero sia al denaro, che all’amore, che al cielo. Mi è tornato in mente, infatti, il titolo della trasposizione musicale dell’Antologia di Spoon River. Nella famosa opera di Edgar Lee Master, composta sotto forma di rubrica fra il 1914 e il 1915 per il giornale Mirror di St. Louis, si faceva memoria di personaggi immaginari di un luogo immaginario: ognuno era meritevole di una lapide, di un poema, a dire che il dramma di ogni vita è meritevole di memoria. Fabrizio De Andrè si fece eco di quel poema componendo l’album Non al denaro, non all’amore, né al cielo. Infatti, il poeta americano e il cantante nostrano si domandavano: “Dove se n’è andato Elmer che di febbre si lasciò morire? Dov’è Herman bruciato in miniera? Dove sono Bert e Tom?”. Per giungere infine al suonatore Jones che non si curò mai né del denaro, né dell’amore, né del cielo e che al suo fornitore di alcoolici domandava: “Tu che lo vendi, cosa ti compri di migliore?”.
Anche questa serie di ritratti romani intende mostrare che tutte le storie umane, questa volta vere, sono meritevoli di memoria. Ma in più, rispetto a Spoon River, intende farlo a partire da quel senso di popolo, da quella coralità, da quella comunione, che sono caratteristiche della chiesa. Gli uomini immaginari di Spoon River sono soli, troppo soli. Invece i preti, i laici, le consacrate, di cui parlerà questa rubrica sono stati costruttori della nostra città, del tessuto quotidiano che ci sostiene. Hanno avuto più di un pensiero al denaro, consapevoli che la nostra città di Roma ha bisogno di lavoro e che l’etica del lavoro la costruisce, mentre la mancanza di occupazione e di professionalità la svilisce. Hanno avuto più di un pensiero all’amore, perché delle relazioni e del dono è stata intessuta la loro vita. Hanno avuto più di un pensiero al cielo, perché hanno creduto e generato la fede in altri.
Per questo la nota dominante di questa rubrica sarà la gratitudine. Noi siamo figli di queste storie. Ogni romano sa che il suo parroco ha dato volto al quartiere in cui è vissuto più ancora – lo dico con grande rispetto – del sindaco del municipio. Quel parroco ha battezzato tutti i bambini che gli sono stati portati, ha sepolto tutti i morti di quel quartiere, anche quelli lontani dalla chiesa, quel parroco ha educato con uno sguardo di lungo periodo generazioni e generazioni di figli, senza essere preoccupato solo che venissero o non venissero poi a messa, aiutandoli a crescere nella carità, nel perdono, nell’intelligenza. Con lo stesso sguardo lungimirante ci hanno accompagnato prima ancora i nostri laicissimi genitori cristiani.
Pur raccontando ritratti di singoli romani, questa rubrica sarà corale, perché racconterà di un intero popolo, che vive e ama in questa città, ed è tale anche perché si riconosce in figure concrete: sa bene, però, che queste, senza la compagnia di tutti, non potrebbero niente.
Papa Francesco ha detto «Nel grande disegno di Dio ogni dettaglio è importante, anche la tua, la mia piccola e umile testimonianza, anche quella nascosta di chi vive con semplicità la sua fede nella quotidianità dei rapporti di famiglia, di lavoro, di amicizia. Ci sono i santi di tutti i giorni, i santi “nascosti”, una sorta di “classe media della santità”, come diceva uno scrittore francese, quella “classe media della santità” di cui tutti possiamo fare parte».
In fondo noi siamo “nani sulle spalle di giganti”, come diceva il teologo medioevale Bernardo di Chartres. Sono i nostri genitori, sono i nostri parroci, sono i nostri catechisti, sono coloro che hanno costruito Roma per noi, coloro sulle cui spalle noi saliamo per vedere un po’ più in su di loro. Senza la loro statura, la nostra sarebbe veramente ben misera.
Un ultimo appunto, prima di darci appuntamento al primo ritratto. In questa storia di bene è presente anche il peccato. Proprio chi è stato vicino alle persone di cui si parlerà ne conosce anche i limiti, così come un figlio conosce meglio i limiti dei suoi genitori, eppure conserva loro riconoscenza e affetto.
In una bellissima novella del Decamerone di Boccaccio si racconta di un uomo di Francia che dice al suo amico di volersi fare cristiano e che, per questo, vuole prima recarsi in pellegrinaggio a Roma per vedere se veramente il Cristo ha generato uomini nuovi. L’amico già battezzato inventa 1000 scuse perché l’altro non vada, pensando che se l’amico avesse visto le turpitudini perpetrate a Roma avrebbe certamente smarrito il desiderio del battesimo. Invece costui ritorna e, dopo aver descritto i tanti peccati visti a Roma, esclama: «Se la chiesa continua ad esistere dopo tanti secoli, nonostante tutto il male che vi ho visto, allora essa è veramente opera di Dio». E si fa battezzare.
Nei sentieri imperfetti della storia, anche noi non ci scandalizzeremo mai del male, bensì cercheremo di cogliere ancor più nelle righe storte degli uomini l’opera di Dio che scrive diritto la sua salvezza, anche e proprio a Roma.