Restaurata la Salus populi Romani. L’antica icona venerata a Santa Maria Maggiore è legata all’identità stessa della città, di Barbara Jatta
- Tag usati: barbara_jatta, icone_mariane, roma
- Segnala questo articolo:
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 24/1/18 un articolo di Barbara Jatta. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. su questo stesso sito Icone mariane antiche a Roma, di Livia Mugavero e, più in generale, la sezione Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (28/1/2018)
RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA
Nella tradizione figurativa romana vi è un gruppo di icone acheropite (in greco, letteralmente “non dipinte da mano d’uomo”) che la leggenda riconosce come di origine miracolosa. Invocate durante guerre, pestilenze o carestie, esposte alla pubblica venerazione o solennemente portate in processione, queste immagini erano spesso attribuite alla mano dell’evangelista Luca, ed esercitavano un’incidenza certo notevole nella vita sociale e religiosa. Furono soprattutto le icone di soggetto mariano ad avere un posto di primo piano nella devozione popolare. L’immagine affettuosa della Madre che stringe sé il Figlio ancora bambino è un motivo iconografico che viene elaborato originariamente in ambito bizantino ma che trova presto larga accoglienza in tutto il mondo cristiano.
A Roma, le prime icone mariane di ispirazione orientale si attestano a partire dal V secolo (Madonna di Santa Maria Nuova), per raggiungere l’acme della loro diffusione tra VI e VIII secolo (Madonne di Santa Maria in Trastevere e di Santa Maria ad martyres); un caso a sé è invece costituito dal tipo del monasterium tempuli, già nella basilica di San Sisto sulla via Appia, il cui prototipo iconografico, ancora riecheggiato nelle più tarde versioni all’Ara Coeli, in Santa Maria in Campo Marzio, ai Santi Bonifacio e Alessio e in Santa Maria in via Lata, si configura come invenzione siro-palestinese del VII-VIII secolo.
Forse la più celebre fra queste icone mariane è la tavola di Santa Maria Maggiore, particolarmente cara alla pietà popolare e tanto legata all’identità cittadina da meritare l’appellativo di Salus populi Romani, “salvezza del popolo romano” ora di nuovo restaurata. La datazione dell’antica immagine, assai controversa, è tutt’ora oggetto di dibattito. Le analisi e i risultati del nuovo restauro saranno sicuramente motivo di confronti per gli studiosi specialisti.
Tradizionalmente ritenuta originaria di Gerusalemme, dove sarebbe stata dipinta dallo stesso san Luca, per comparire poi a Roma sotto Sisto III (432-440) ed essere da lui donata alla basilica che era stata costruita dal suo predecessore Liberio sull’Esquilino (352-366), l’immagine mostra in realtà caratteri di stile cronologicamente molto più avanzati. L’iconografia della Madre col Figlio fonde infatti il tipo greco della Odighitria (dal greco hodeghètria, “colei che mostra la via”, cioè Cristo) con quello della glykophilùsa, (“che ama con dolcezza”, la Madre della tenerezza) rimandando dunque al canone della primitiva arte bizantina anteriore alla crisi iconoclasta e orientando quindi verso una datazione alta del manufatto (VIII-IX secolo). Tuttavia la stesura differenziata degli impasti cromatici, che alterna alla descrizione calligrafica di vesti e accessori la costruzione strutturata delle mani e dei volti, avvicina il dipinto a prodotti consimili del medioevo romano, venendo di conseguenza a situarsi tra il secolo XI e il XIII. Posta inizialmente nella navata principale della basilica liberiana, dal 1613 l’immagine si trova nell’attuale collocazione, sull’altare della cappella Borghese in Santa Maria Maggiore, all’interno di una teca bronzea munita di cristallo, con iscrizione dedicatoria di Paolo V (Camillo Borghese, 1605-1621).
La tavola mostra l’immagine familiare della Madre di Dio (Theotòkos), vestita di un manto (maphòrion) azzurro fregiato d’oro, mentre porta avanti le braccia per sorreggere il Bambino, tenendole incrociate all’altezza della vita: nella sinistra stringe una mappula, fazzoletto ricamato di uso cerimoniale, in origine collegato alla simbologia imperiale; con la destra, munita di anello, sembra accennare a un gesto, interpretato da alcuni come un’allusione di significato trinitario. Il mantello che ne disegna la figura le avvolge completamente le spalle e il capo, ma lascia intravedere la tunica, di cui fuoriescono le maniche e si riconoscono porzioni all’altezza del petto e dei fianchi.
La suprema eleganza dell’immagine, accentuata dalla fluidità dei contorni e dall’apparente disinvoltura della posa, è aumentata dall’intensità dello sguardo, parzialmente velato dalla penombra e diretto ostentatamente di lato. Il Bambino stesso, vestito di un hymàtion e con la destra portata avanti in gesto di benedizione, rivolge il proprio sguardo alla Madre, mentre l’espressione adulta e il codice preziosamente rilegato che impugna con la sinistra conferiscono centralità e importanza al suo ruolo.
L’icona, alta 117 centimetri e larga 79, è dipinta su una tela ingessata e applicata su tavola. Il supporto è costituito da due assi verticali congiunti, probabilmente decurtati nella terminazione inferiore e forse anche nella superiore. La cornice, aggiunta in un secondo momento, costituisce invece elemento a sé stante.
L’ultimo intervento conservativo sulla tavola risale al 1931 e alla volontà del cardinale Bonaventura Cerretti, arciprete della basilica, e di Bartolomeo Nogara, direttore delle Gallerie Vaticane. Sappiamo che il restauro venne «eseguito con ogni regola d’arte» da Giovani Rigobelli e fu volto a ridare al dipinto «colore e vita». L’intervento riguardò allora principalmente l’asportazione della pesante lamina in argento «che copriva quasi tutto il dipinto, a eccezione dei volti e di mezzo busto», fatta aggiungere dal Pontefice nel 1838 per poter applicare nuove corone in corrispondenza dei due visi. In occasione di tale rimozione, fu peraltro deciso di lasciare a vista «le due corone d’oro di Gregorio XVI, la collana con 3 ametiste, 4 topazi e 2 acquemarine alla quale poi venne anche attaccata la croce pettorale, mentre la stella a 12 punte», con la sostituzione dei diamantini mancanti, «venne applicata sulla spalla della Vergine nella tavola stessa». Tutti questi materiali sono stati rimossi nel 1988 ed esposti nel Museo del tesoro di Santa Maria Maggiore.
Il restauro appena terminato è scaturito nell’ambito dei periodici controlli esercitati sull’icona dal personale scientifico del Laboratorio restauro pitture e manufatti lignei dei Musei Vaticani che sovrintendono ai tesori e alle bellezze artistiche preservate nelle basiliche maggiori. Durante queste revisioni, nel luglio del 2017, si era potuto constatare l’aggravarsi di pregresse condizioni di deterioramento, interessanti tanto il supporto che la pellicola pittorica.
Informato dello stato dell’antica e veneratissima icona, il cardinale Stanisław Ryłko, arciprete della basilica liberiana, ha dato il via all’esecuzione di un pronto intervento di fissaggio e consolidamento delle aree più a rischio. Si è quindi proceduto a uno studio approfondito della tavola, volto alla comprensione della tecnica, dei materiali costitutivi e dello stato di conservazione.
Presso il Laboratorio di diagnostica per la conservazione e il restauro dei Musei Vaticani sono state eseguite le analisi spettrografiche, fluorescenza ultravioletta indotta, infrarosso in falsi colori, riflettografia infrarossa e radiografia. Sulla base dei dati ottenuti sono stati poi decisi approfondimenti scientifici per la determinazione dei pigmenti impiegati (analisi xrf e Raman). Ulteriori indagini scientifiche sono state poi compiute sul supporto ligneo, per il riconoscimento della specie legnosa e per la sua datazione mediante radiocarbonio.
Lo studio morfologico indica che le tavole centrali sono di tiglio mentre quelle della cornice sono di frassino. I risultati del radiocarbonio, inoltre, indicano una datazione del legno, con una probabilità di oltre l’80 per cento, compresa tra la fine del IX secolo e gli inizi dell’XI per la tavola principale, e tra la fine del X e la prima metà dell’XI per la cornice perimetrale.
D’intesa con l’amministrazione della basilica, e con grande prudenza considerato l’altissimo valore simbolico, devozionale e artistico dell’immagine, si è quindi dato corso al restauro. Questo si è svolto nel Laboratorio di restauro pitture dei Musei Vaticani, sotto la sovrintendenza del direttore dei musei stessi, grazie all’aiuto di Guido Cornini, direttore del Dipartimento delle arti, e realizzato da Alessandra Zarelli, supportata da Massimo Alesi per la parte lignea, con il coordinamento di Francesca Persegati.
Il restauro ha comportato la pulitura generale dell’opera; al di sotto degli strati di colla e vernici ossidate, infatti, le condizioni generali dell’icona apparivano relativamente soddisfacenti. A prescindere dai danni diffusi provocati dall’applicazione dei pezzi di oreficeria, la pellicola pittorica della tavola si presentava in discrete condizioni conservative, ancorché punteggiata da stuccature e interessata da ritocchi e, appunto, vernici alterate.
Si è proceduto quindi con relativa facilità ma con risultati sorprendenti di recupero dell’immagine originale. Sotto gli strati di vernice ossidata e vecchi restauri la pulitura è riuscita a recuperare la delicata cromia dei volti originali, l’intero manto della Madre di Dio, quello meravigliosamente dorato del piccolo Gesù, il libro e altre zone prima quasi illeggibili. Anche nella zona delle aureole la rimozione del pigmento rossastro che era stato sovrapposto ha permesso il recupero delle incisioni e dell’oro originale, e nella raffigurazione del Bambino la restituzione della tripartizione antica: un risultato significativo, che ha ridato una nuova luce e una nuova visione alla sacra immagine. Si è provveduto, infine, anche al risanamento del supporto ligneo e alla cornice, alterati negli anni da vecchi restauri e da attacchi xilofagi.
Tanti sono stati i momenti di confronto che si sono avuti fra la commissione dell’amministrazione della basilica liberiana e quella dei Musei Vaticani per la conduzione del complesso intervento: momenti che hanno visto il coinvolgimento delle due istituzioni nell’assunzione comune di decisioni importanti e talvolta delicate; e che hanno permesso di terminare il restauro nei tempi previsti, con la piena soddisfazione per il risultato scientifico ed estetico.
È stata inoltre realizzata una nuova teca conservativa, identica nelle forme a quella attualmente in uso, munita però di maniglie e ridotta nello spessore, così da risultare meno pesante e più maneggevole per gli spostamenti che l’icona dovrà avere per le celebrazioni annuali e per i controlli periodici del suo stato conservativo. Questa soluzione, appositamente studiata dall’Ufficio del Conservatore dei Musei Vaticani, presenterà inoltre il vantaggio di garantire le condizioni termo-igrometriche della tavola, stabilizzandone il microclima all’interno del contenitore.
Sotto la supervisione scientifica dei Musei Vaticani, negli stessi mesi, è stato eseguito il restauro della sontuosa parete barocca dell’altare della cappella Borghese dove l’icona è conservata. Concepita come trionfo di angeli per l’esaltazione della Salus populi Romani, venne eretta da Pompeo Targoni su modello di Girolamo Rainaldi tra il 1609 e il 1612. Il restauro, eseguito dalla ditta Sante Guido di Roma permette di godere ancora meglio dell’insieme del luogo e del ritrovato splendore dell’immagine.
Da oggi la celebre icona ha un volto nuovo, liberato da secoli di ritocchi e da vernici alterate, dunque riportato alla sua antica cromia. Una raffigurazione che conserva il suo aspetto ieratico, deciso ma dolce, quello della Madre di Dio che protegge tutto il popolo romano.