2 Tessalonicesi: l’anticristo sarà sconfitto, di Romano Penna

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 07 /05 /2010 - 16:14 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal volume Sulle orme di Paolo, allegato alla rivista “Jesus” 2009, III , pp. 93-97, un articolo di Romano Penna. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (5/5/2010)

La seconda Lettera ai Tessalonicesi é stata scritta pochi mesi dopo la prima. In quel tempo Paolo era ancora a Corinto, mentre a Tessalonica la comunità cristiana aveva subito un’evoluzione che non conosciamo con esattezza.

Una cosa è certa: sia Paolo che i Tessalonicesi pensavano che la venuta del Signore fosse prossima. La prima Lettera dice: «Noi che vivremo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore...» (4,15).

Invece quest’altro breve scritto noto come “seconda Lettera ai Tessalonicesi” cerca di arginare, in un certo senso, tale condizione di attesa; di renderla meno esasperata. Le sue precisazioni e i suoi ammonimenti fanno capire come i destinatari fossero tesi, troppo tesi, verso quella che con termine tecnico si chiama parusia, cioè "presenza" ultima del Signore atteso. Alcuni commentatori parlano addirittura di una loro aspettazione febbrile delle ultime cose, di una "febbre escatologica" .

A quel che si dice in questa seconda Lettera, l'eccitazione sarebbe stata rinfocolata (o persino suscitata) da presunte rivelazioni interne alla comunità e anche da qualche lettera spacciata come opera di Paolo. Leggiamo infatti all'inizio del capitolo 2: «Ora vi preghiamo, fratelli, riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e alla nostra riunione con lui, di non lasciarvi così facilmente confondere e turbare, né da pretese ispirazioni, né da parole, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente». In questo modo, è enunciato il problema maggiore; anzi, praticamente l'unico, che sta al centro della seconda Lettera e la caratterizza.

Ed era urgente affrontare quel problema, perché non si trattava solo di correggere errori teorico-dottrinali, ma anche di far fronte a una situazione assai concreta e pericolosa: «Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione» (3,11). La lettera dice "alcuni"; saranno stati certo una minoranza nella Chiesa tessalonicese, ma sempre sufficienti a contaminare un più vasto raggio di cristiani.

C’era il pericolo di veder contraffatto il Vangelo nella sua incidenza sulla vita vissuta; di vederlo trasformato in una spinta al disimpegno, all’assenteismo di fronte ai doveri quotidiani. Di qui gli interrogativi, tuttora attualissimi: può il cristiano disinteressarsi delle realtà terrene e sacrificarle alle realtà celesti superiori? Il Vangelo giustifica in qualche modo la passività, il parassitismo, la fuga dalle necessità della vita associata? Ma allora avremmo una "disincarnazione", cioè un movimento esattamente contrario a quello che qualifica il cristianesimo fin nelle sue radici ...

E ancora, restando al tema preciso della lettera: la proclamata vicinanza della venuta del Signore era proprio da ritenersi tanto incombente, o invece la speranza aveva troppo avvicinato ciò che nei disegni di Dio è previsto a lunga scadenza?

Il problema che si presenta all'autore della lettera è unico, ma con due facce: una dottrinale e una pratica. Ed egli le prende di petto entrambe. Il primo capitolo della lettera è dedicato ai saluti, all'augurio che tutti siano degni di quel regno «per il quale ora soffrite», e all'assicurazione della propria preghiera. Gli altri due capitoli entrano invece nel merito del problema nei suoi due aspetti, dottrinale e pratico.

Principi dottrinali. Li tratta il capitolo 2, dove notiamo un certo contrasto con la prima Lettera. Là, all'inizio del capitolo 5, l'Apostolo rifiutava di fare previsioni sulla data della venuta del Signore, pur ritenendola vicina. Qui invece si afferma che essa non è affatto imminente. E si cerca pure di indicare i segni assai chiari che la devono precedere, sottintendendo che essi non si vedranno tanto presto. Questi segni sono sostanzialmente due, e di fatto convergeranno poi in unità. Il primo è l'apostasia o defezione dalla fede, com'è già detto nel Vangelo di Luca: «Ma il Figlio dell'Uomo, quando verrà, troverà fede sulla terra?» (18,8).

Il secondo e soverchiante segno da attendere è la manifestazione imponente di una figura che nella lettera viene qualificata come «l'uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s'innalza sopra ogni essere [...] additando se stesso come Dio» (2,3-4); «l'empio... la cui venuta avverrà nella potenza di satana, con ogni specie di portenti e di segni e di prodigi menzogneri, e con ogni sorta di empio inganno» (2,9-10).

L’accavallarsi delle locuzioni tradisce la difficoltà dell'argomento. L’autore tenta di spiegare meglio che può questa figura di iniquo assai misteriosa; e in effetti l'unica cosa chiara in tutto il discorso è la coscienza dell'oscurità, per non dire dell'incertezza sul personaggio in questione. Un'oscurità che viene appunto mascherata dal moltiplicarsi delle descrizioni. Come sappiamo dall'apocalittica giudaica, questo genere letterario abbonda in immagini proprio a riguardo degli ultimi tempi, dei quali in realtà si sa ben poco, e ciò allo scopo di far meglio risaltare la salvezza, la luce, la liberazione portata dal Signore.


Una forza opposta a Dio e al Vangelo
Insomma, è molto difficile identificare il personaggio così strettamente connesso con il male: si può pensare a Satana, a qualche individuo umano o anche a qualche movimento collettivo. L’unica cosa certa è che si tratta di una forza direttamente opposta a Dio e al Vangelo. Una forza che le tardive lettere di Giovanni chiameranno, con un termine divenuto poi classico, "anticristo".

Ecco i passi in cui compare questo nome: «Figlioli, questa è l’ultima ora. Come avete udito che deve venire l’anticristo, di fatto ora molti anticristi sono apparsi»; «L’anticristo è colui che nega il Padre e il Figlio»; «Questo è lo spirito dell'anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo» (prima Lettera di Giovanni 2,18.22; 4,3); «Poiché molti sono i seduttori che sono apparsi nel mondo, i quali non riconoscono Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l’anticristo!» (2Giovanni 7). Egli assomma in sé tutto ciò che la tradizione biblica e apocrifa già aveva immaginato a proposito degli oppositori, dei nemici negli ultimi tempi, dalla figura di «Gog re di Magog» in Ezechiele (38-39) fino a quella dell'«Angelo della tenebra» nei manoscritti di Qumran (l QS 3,21-23).

Ma la cosa più misteriosa di questa lettera è l'affermazione secondo cui l'apparire dell'iniquo è per ora impedito da qualcosa o da qualcuno, che non viene precisato. Si dice soltanto: «Il mistero dell'iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene» (2,6-7).

Ma chi o che cosa "trattiene" lo scatenarsi dell' anticristo? Qui ci sono vari tentativi di risposta: per alcuni antichi interpreti, si trattava dell'Impero romano con la sua opera di ordine e di pace; per altri sarebbe una potenza angelica (Michele?), oppure la predicazione del Vangelo che fa da argine al prorompere del mistero di iniquità; infine c'è chi pensa al piano salvifico di Dio sulla storia, al quale soltanto spetta di stabilire «i tempi e i momenti» (Atti 1,7). I tentativi di spiegazione sono diversi, ma resta l’indecifrabilità dell'espressione che, se era chiara per gli immediati destinatari della lettera (se pur lo era), non lo è affatto per noi.

Però, al di là di questo discorso tutto in negativo, la pagina paolina culmina nell'annuncio luminoso e rincuorante della piena vittoria di Cristo su tutto il minaccioso dispiegamento dell'Avversario: «Il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà all'apparire della sua venuta» (2,8). Parole che richiamano Isaia: «Con il soffio delle sue labbra ucciderà l'empio» (11,4).

Ecco dunque ciò che veramente conta: al cristiano viene offerta la certezza non solo della venuta di Cristo, ma soprattutto della vittoria piena sull’iniquità. E su tutto ciò può fondarsi, con la fiducia, anche l'impegno al ben vivere, come conclude il capitolo 2: «E lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una speranza buona, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene».

Nessuno deve stare con le mani in mano
Insegnamenti pratici. Il capitolo 3 tratta un problema di ordine molto concreto: il lavoro manuale. Nella comunità cristiana di Tessalonica, dunque, c'è gente «che si comporta in maniera indisciplinata e non secondo la tradizione che ha ricevuto da noi» (3,6). Perché? Forse per quella convinzione che la fine di tutto sia vicina. Allora, l'autore della lettera replica in maniera da dissipare energicamente tutti i malintesi, chiarendo che nessuno ha il diritto di starsene con le mani in mano attendendo gli "ultimi giorni".

Questo chiarimento procede per gradi. Dapprima (3,8) Paolo ricorda il proprio esempio di lavoro personale: «Noi non abbiamo vissuto oziosamente tra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno» (parole che si ricollegano alla l Tessalonicesi: «Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunciato il Vangelo di Dio» 2,9).

In secondo luogo egli enuncia una regola nettissima, formulata in maniera lapidaria che non ammette scappatoie: «Chi non vuole lavorare neppure mangi» (3,10). Un'affermazione di straordinaria attualità anche nel XXI secolo, ma che si ricollega all'altissimo concetto in cui il lavoro manuale era tenuto nel mondo ebraico, mentre in quello greco-romano lo si considerava degno di gente inferiore.

Viene poi in terzo luogo un comando preciso e secco: «A questi tali ordiniamo di mangiare il pane lavorando in pace» (3,12). È una presa di posizione risolutiva, al di là di ogni equivoco, e dovrebbe aver finalmente sistemato l'anomalia tessalonicese.

La lettera si conclude con una frase che apparentemente offre la firma di Paolo stesso: «Questo saluto è di mia mano, di Paolo; ciò serve come segno di autenticazione per ogni lettera; io scrivo così». In realtà, molti commentatori anche cattolici non si fidano di questa autoattribuzione così patente, per due motivi: il saluto autografo dell'Apostolo si trova solo in due altre lettere: la prima ai Corinzi e quella ai Galati; inoltre, un esame attento dello stile, del vocabolario e della teologia dello scritto può far pensare che si tratti di un caso di pseudonimia, un fatto corrente nell'antichità anche cristiana. In ogni caso, la "seconda Lettera ai Tessalonicesi" rimane, fin dagli inizi del canone biblico, un irrinunciabile e anzi stimolante punto di rifèrimento per la fede e per la vita dei cristiani.

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