Le meditazioni sulla morte della madre nel diario del semiologo francese. Il romanzo mai scritto di Roland Barthes, di Federico Mazzocchi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 07 /05 /2010 - 15:57 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 6/5/2010 un articolo scritto da Federico Mazzocchi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (7/5/2010)


Roland Barthes


Per noi Roland Barthes è stato il critico, il linguista, il semiologo, lo studioso di miti e feticci, la quintessenza della moderna scienza letteraria. Per lui Henriette Ginger non era che "mam.", la madre. Eppure non sono i titoli a reggere di fronte all'evento inappellabile della morte, anzi i titoli sono i primi a essere messi a repentaglio, eclissati nella deriva silenziosa dell'anonimato.

Il 13 agosto 1977, con la madre agonizzante, Barthes annota: "D'improvviso, il fatto di non essere moderno mi è diventato indifferente". Di fronte all'evento di una morte incombente, lo scienziato della letteratura sveste il proprio camice e si presenta solo, nudo. Ed è così che lo ritroviamo nelle pagine di Dove lei non è (Torino, Einaudi, 2010, pagine 260, euro 18), vero e proprio diario di lutto scritto all'indomani della morte della madre tra il 26 ottobre 1977 e il 15 settembre 1979, e ora per la prima volta pubblicato in Italia.

Un insieme di piccole schede scritte a penna o a matita, l'ipotesi di un libro mai veramente finito. La perentorietà di un fatto che sorprende e ferisce: lo scandalo del "mai più", nel quale Barthes immediatamente ravvisa la contraddizione di questa "espressione da immortali", perché dire "mai più" vuol dire mettersi dalla parte di chi non morirà mai. O lo scandalo speculare del "lei non soffre più", dove un lei senza luogo si colloca in un presente senza tempo, entrambi gli azzardi necessari per constatare la permanenza e la durata di "mam." nel lutto.

Per Barthes la morte della madre è l'evento immobile, che si fa strada in un solco silenzioso, che apre, dall'interno del tempo, un varco sull'eterno. È la coscienza del proprio destino, della propria morte riflessa in quella della madre, e non più desunta da un "sapere preso in prestito". È quindi certamente la paura, ma più che la paura della negatività dell'esistenza è la paura di non essere all'altezza di quell'evento, di non saperlo preservare: la paura di banalizzarlo, di divenire insensibili, di farne della letteratura ma al contempo il riconoscimento che la letteratura nasce da questa eterna verità.

A nulla valgono i tentativi di auto-psicanalizzarsi, di misurare il decorso del lutto, di ridurlo a figurazioni dell'inconscio o prevederne le generalità. Non vi è ombra di nevrosi invece, o di una generalizzazione che equivarrebbe a un furto, a un'espropriazione, e lo stesso termine lutto, "troppo psicanalitico", nasconde il candore della parola tristezza. Così come, con delicata tenerezza, dispare la Madre freudiana per far posto alla mamma, o ancora più affettuosamente "mam."; e con essa "l'anonimato del cuore prende il sopravvento su quello della struttura, l'idilliaco trionfa sul simbolico, il privato fa il suo outing, il neutro scompare dal mondo" (Alain Finkielkraut, Noi, i moderni).

E vediamo aprirsi nell'intimo il cuore di Barthes, nel pianto ricorrente, nell'ammissione della solitudine, nella mancanza di un vivere minimale denso di significato, nel tentativo di "parlare" con la madre imitandola nelle sue abitudini, nella paura di non poter avere più paura per l'essere caro.

Mentre diminuiscono le cose da dire e il tempo attenua l'emotività, rimane quell'unica tristezza "inesprimibile e tuttavia dicibile", ed è in essa che Barthes desidera abitare, perché abitando in essa sa di abitare in "mam.", "nucleo irradiante, irriducibile". Si spiega perciò la volontà di dare un monumento alla madre: anche se non vi riuscirà nel romanzo mai realizzato Vita Nova, Barthes assolverà in parte a questo compito nel saggio sulla fotografia - forse il suo libro più noto - La camera chiara (1980), la cui seconda parte si apre proprio con il ritrovamento di una foto di "mam." all'età di cinque anni, che rinnova ed eterna il lutto di aver perduto "non l'indispensabile, ma l'insostituibile".

Ma a divenire monumento alla madre è tutto ciò che Barthes ha scritto, poiché la madre è presente - presente, non allusa o figurata - dovunque vi sia "un'idea del Bene sovrano".

Ed ecco così che quel lutto, presentatosi in questo diario in così tante forme, viene finalmente compreso come "disponibilità dolorosa", come allerta per la venuta di un senso di vita, lontano dall'essere un effetto speciale della scrittura letteraria, ma anzi reclamando eternità quanto più lo scrittore si allontana dalla penna.

(©L'Osservatore Romano - 6 maggio 2010)