La mia crepa, di Marina Corradi
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Marina Corradi pubblicato il 23/10/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Il "mistero" del male e la croce.
Il Centro culturale Gli scritti (29/10/2017)
«È cruciale per ciascuno di noi: il giorno in cui non ci rendessimo più conto della nostra infermità e della nostra miseria, non ci renderemmo nemmeno più conto della grazia di avere Qualcuno che possa guarire le nostre ferite. Non avremmo più bisogno di Cristo». (Julián Carrón da Dov’è Dio?, conversazione con Andrea Tornielli, Piemme). Prima ho sottolineato questa frase, poi ho fatto un orecchio alla pagina – con la brusca confidenza che ho con i libri che mi diventano cari – poi la ho ricopiata.
Dall’adolescenza, e forse anche da prima, ho sempre avuto l’idea di essere nata con qualcosa di sbagliato. Qualcosa che non funzionava a dovere, come se io fossi stata una casa e quell’errore una profonda crepa in un muro portante, come se io fossi stata un argine, e quell’errore una falla da cui l’acqua poteva penetrare.
Mi pareva che i miei amici non avessero quella crepa in sé, oppure che non se ne dovesse parlare. Che ci si dovesse mostrare sereni, positivi, vincenti, o magari anche arrabbiati, ma solo con la società e lo Stato e l’ordine costituito, cioè verso qualcosa di esteriore. Io invece non ero arrabbiata con il mondo, non andavo in giro per Milano alzando il pugno. Era in me, quel taglio che mi ricordava la tela lacerata dei quadri di Fontana. Ma, insomma, era evidente che non se ne doveva parlare. Era il male di vivere descritto da una poesia di Montale: «Era il rivo strozzato che gorgoglia, era la foglia riarsa, era il cavallo stramazzato», studiammo a scuola – ma nessuno in classe avanzò il dubbio che si stesse parlando di noi.
Da ragazza al mattino mi guardavo allo specchio, mi sorridevo, pensavo alla mia crepa e mi dicevo: via, di che ti preoccupi, sei giovane, sei bella. Crescendo però la crepa pareva approfondirsi, nera sul mio muro bianco interiore. Si allargò, si fece malinconia: poi patologica, severa depressione. Andai da dei medici, mi curarono, mi sentii meglio; poi di nuovo, a intermittenza, la crepa si evidenziava, dolente, e sussurrava: non sei guarita, non lo sarai mai. Continuavo a non parlarne con gli amici, col pudore con cui non si parla degli affetti più intimi, o del sesso.
Lessi Mounier. «Dio passa attraverso le ferite», scriveva. Ci riflettei: che fosse, la mia crepa, un pertugio in una parete impermeabile, una lacerazione necessaria? Poi me ne dimenticai, attenta a dosare con cura sempre nuovi farmaci che mi acquietassero quell’ora sordo, ora aspro dolore. Dolore come per una irrimediabile mancanza, come per una radicale struggente nostalgia. E il mondo attorno a me, dentro a quell’inguaribile dolore: «Era il rivo strozzato che gorgoglia…».
Malattia, sensibilità patologica, o che cosa? Da tempo mi sono rassegnata a non cercare più un nome alla mia crepa. È lì, e, direi, con gli anni, più spaccata e più nera. Però stasera, leggendo, quella frase mi ha toccato nel punto più dolente, e mi ha commosso. Perché quella ferita? Se non ci fosse, io fisicamente sana, io non povera, io fortunata, non avrei bisogno di niente. È una salvezza, quel muro spezzato, quella falla. Da cui un fiotto di grazia, incontrollato, può entrare e fecondare la terra inaridita e dura.