«Si è perso una sorta di cristianesimo popolare che si esprimeva con una forma di ritualità sociale. Dato che questa ritualità sociale si dissolve, il cristianesimo popolare si trova devitalizzato. Bisogna quindi ritrovare delle mediazioni culturali per raggiungere coloro che hanno meno facilità ad entrare in contatto con il Vangelo». Un’intervista a cura di B. Buvet e I. de Gaulmyn ad André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi
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Riprendiamo la traduzione a cura del sito www.finesettimana.org di un’intervista a cura di Bruno Buvet e Isabelle de Gaulmyn al cardinal André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi apparsa su “La Croix” del 4 ottobre 2017 con il titolo Non le bandiere ma la coerenza tra parole e scelte: intervista ad André Vingt-Trois. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Catechesi, scuola e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (29/10/2017)
Secondo Lei, che cosa ha maggiormente influito nel cambiamento della Chiesa rispetto a trent’anni fa, all’epoca dei suoi primi passi come vescovo ausiliare?
Lo sconvolgimento principale risiede nel fatto che, nella società francese, le tracce del cristianesimo si sono sensibilmente ridotte. Per questo, la particolarità del cristianesimo, rispetto alle altre grandi correnti di pensiero, appare in maniera più evidente. È ciò che il cardinal Ratzinger chiamava il passaggio da un “cristianesimo sociologico” a un “cristianesimo di scelta”. Una volta c’era una certa trasmissione culturale di convinzioni cristiane, di cui non si percepiva più, non sempre, la radice, ma che facevano parte della base comune della cultura occidentale. Ormai non si è più semplicemente cristiani perché si nasce in una cultura cristiana, ma perché si sceglie di esserlo. Questa evoluzione ha una conseguenza molto forte, non sulla sopravvivenza della Chiesa che non è in questione, ma per il modo in cui le categorie di persone culturalmente meno “attrezzate” possono accedere al cristianesimo. Coloro che hanno i mezzi per fare confronti, possono esercitare il loro libero discernimento. Ma non gli altri. Per cui si è perso una sorta di cristianesimo popolare che si esprimeva con una forma di ritualità sociale. Dato che questa ritualità sociale si dissolve, il cristianesimo popolare si trova devitalizzato. Bisogna quindi ritrovare delle mediazioni culturali per raggiungere coloro che hanno meno facilità ad entrare in contatto con il Vangelo.
È questo il consiglio che Lei darebbe alla Chiesa in Francia?
Sì, questa evoluzione del cattolicesimo, unita ai mezzi di cui dispone la Chiesa, comporta un rischio: quello di dedicare l’essenziale delle forze della Chiesa a fortificare coloro che hanno fatto la loro scelta, tanto più che esprimono molti bisogni. Ma questo non lascia alcun margine per iniziative in direzione di coloro che non hanno scelto il cristianesimo, non perché lo rifiutino ma perché non hanno gli elementi per la scelta. Mi sembra questa l’evoluzione più evidente, che del resto procede di pari passo con una frattura culturale e sociale nella società.
A Parigi, Lei ha perseguito lo slancio della nuova evangelizzazione, con le altre capitali europee. Quale può essere il volto del cristianesimo nelle grandi metropoli?
Il cristianesimo non deve ridursi al patrimonio delle chiese. Bisogna mostrare in maniera visibile la vitalità delle comunità cristiane. Da qui, l’idea di creare un evento che manifesti che le grandi metropoli hanno anch’esse qualcosa da dire sul cristianesimo. Al di là delle loro differenze, esse hanno in comune una vita sociale nella quale il cristianesimo rischia di essere nascosto e non percepibile. Al mio arrivo a Parigi nel 2005, un anno dopo la ricorrenza di Ognissanti 2004, è questa intuizione che ho sviluppato. Se si dice che la Chiesa può trovare un posto nella società del XXI secolo, ciò è possibile solo se i cristiani trovano il loro modo di intervenire nella vita di questa società, se vivono davvero la loro fede cristiana.
La forte diminuzione del numero dei preti non nuoce a questa visibilità?
Se i preti facessero la visibilità della Chiesa, questo si saprebbe! Evidentemente, non c’è comunità cristiana senza pastore. Ma se posso partire da un riferimento personale, quando ho cominciato il mio ministero in una parrocchia parigina, eravamo una decina di preti. Oggi sono rimasti solo in due o tre. La parrocchia non per questo è meno missionaria di quarant’anni fa! La messa in pratica dei consigli pastorali che ho sostenuto permette proprio di far prendere le decisioni in maniera diversa, non solo su iniziativa del prete. Non si può contare unicamente su un numero ristretto di preti, altrimenti li si porta all’usura completa. La fecondità e la visibilità della Chiesa non possono essere ridotte alla loro sola attività, altrimenti andiamo a sbattere contro un muro! Ciò che conta, è la capacità del prete di coordinare, stimolare, trascinare, dare nutrimento spirituale per permettere ai cristiani di assumere delle iniziative e di portarle avanti.
Come arcivescovo di Parigi e presidente dei vescovi francesi, Lei ha sovente espresso le posizioni della Chiesa. In una società scristianizzata, la Chiesa come può farsi sentire?
La cosa principale, non è parlare! Certo, in una situazione di pluralismo come la nostra, è importante che i nostri punti di riferimento, le nostre convinzioni siano enunciate pubblicamente. Può essere compito di un vescovo, dell’arcivescovo di Parigi o della Conferenza episcopale. Ciò che viene detto deve essere espresso chiaramente, non nell’illusione che tutti faranno ciò che è stato detto, ma con la convinzione che i cristiani, anche loro, hanno bisogno di sentirlo dire. Infatti la comunità cristiana è un insieme molto diversificato: ci sono margini e differenze tra coloro che sono convinti, profondamente impegnati nella messa in pratica della Parola di Dio, e i simpatizzanti.
Ma l’espressione chiara e forte delle nostre convinzioni non risolve i problemi! Solo alza una bandiera, dà un segnale, che indica “attenzione, terreno minato o fragile”. La cosa importante non è il segnale, la bandiera, ma il modo in cui i cristiani si comportano, la coerenza tra le loro parole e le loro scelte. Ciò che cambia la società non sono le dichiarazioni dell’arcivescovo di Parigi, ma il modo in cui i cristiani vivono il Vangelo nelle loro scelte e lo testimoniano.
Per quanto riguarda la procreazione medicalmente assistita, si ha l’impressione che la battaglia è perduta in partenza per i cristiani…
Per prima cosa, riconosciamo che la mediatizzazione della questione non è fatta onestamente. Tutta la complessità del parere del Consiglio nazionale di etica (CCNE) sull’argomento è passata sotto silenzio nel resoconto che ne hanno fatto la maggioranza dei giornalisti, che si sono limitati a dire che il CCNE aveva dato il suo accordo. È disonesto, si tratta una questione altamente problematica dal lato umano, non può essere riferita come se non presentasse alcun problema.
Per me, la cosa più importante, è sapere come viene considerato il bambino. È un oggetto che deve soddisfare un desiderio o un bisogno? Oppure una persona con i suoi diritti? Obiettivamente, si creano procedure cosificanti il bambino.
Non si tratta di dare un giudizio sul fatto che delle persone prese individualmente siano capaci di allevare ed educare un bambino. Non è questo il problema. La legge non ha a che fare con casi particolari, deve dire qualche cosa per l’insieme della società. In questo caso, si afferma che un bambino può vivere senza avere un punto di riferimento paterno neppure simbolico, senza conoscere le sue radici e né sapere da dove viene.
Inoltre, se si prende in considerazione l’argomento dell’uguaglianza per giustificare l’accesso delle coppie di donne alla PMA, si arriva logicamente alla possibilità della gestazione per conto d’altri (GPA). Quando le coppie di donne avranno il diritto di avere dei figli, gli uomini rivendicheranno anche per sé tale diritto, senza che sia posta la questione dei mezzi da usarsi per soddisfare questo desiderio.
Bisogna sensibilizzare i responsabili politici sulla riflessione che era stata fatta in occasione della prima revisione delle leggi di bioetica nel 2009. Se la revisione del 2018 vuole cambiare qualcosa, bisogna che abbia i mezzi necessari. E in particolare che le posizioni divergenti non siano stravolte o incasellate come moderniste o conservatrici.
Papa Francesco ha intrapreso una profonda riforma della Chiesa, in particolare con Amoris laetitia per la morale familiare. Ma alcuni temono una forma di relativismo, che porti ad accettare tutte le situazioni nelle quali vivono i cristiani, senza tener conto della morale cristiana.
Il papa ci dice semplicemente l’importanza di tener conto delle situazioni esistenti. Non bisogna dimenticare che è gesuita, e che quindi affronta la realtà nel dinamismo della conversione spirituale degli esercizi di Sant’Ignazio. Comincia con l’ascoltare ciò che dice la gente, ciò che fa la gente. Poi passa a un discernimento spirituale, per pesare tutto questo davanti al Signore. Se si interpretano le decisioni di papa Francesco solo nel registro organizzativo, non si possono capire. Per comprendere il papa, bisogna porsi sul terreno del discernimento spirituale. La posta in gioco, per lui, è che il maggior numero possibile di persone progredisca nella sequela di Cristo, e che ognuno debba fare una scelta. Nessuno potrà sostituirsi ad altri nella conversione personale: si possono avere dei dispositivi canonici, delle regole, ma la libertà degli uomini si gioca nella loro conversione.
A livello di Chiesa universale, come interpreta le resistenze di certi cattolici a papa Francesco?
Da un lato, di fronte alla sua volontà di riforme strutturali, le resistenze sono istituzionali, fenomeno abbastanza classico quando si vogliono cambiare le pratiche di un’organizzazione. Inoltre, per noi occidentali, si spiegano anche con la nostra cultura “tecnica”, in cui l’azione è sempre condizionata dalla teoria. Alcuni pensano: “Dato che Gesù ci ha dato la teoria, noi sappiamo che cosa bisogna fare. Dato che la teologia, vista come teoria, ha detto così, la pastorale, vista come applicazione pratica, deve fare così”. È un modo di pensare riduttivo per la teologia e anche per la pastorale. Abbiamo bisogno di riappropriarci dei criteri di discernimento pastorale che non siano solo teologici.
Una domanda più personale, per finire. Come ha vissuto il suo importante ruolo per così tanti anni?
Ho la convinzione di non essere io a decidere, soprattutto di non essere io a dirigere le anime e i cuori. Non cambio le persone e la realtà da solo. Bisogna accettare di essere lo strumento di qualcun altro. Non sono in grado di misurare, in ciò che offro, ciò che viene da me e ciò che viene da Dio. Inoltre, in una società ansiogena, il mio ruolo di vescovo è di offrire serenità e pace. I fedeli non hanno bisogno di qualcuno che li metta in agitazione, ma di un padre che resiste agli avvenimenti, che rende evidente che c’è una stabilità che ci trascende.
La malattia di cui ha sofferto all’inizio di quest’anno l’ha cambiata?
Mi ha affaticato e mi ha reso meno capace di affrontare certe esigenze. Mi sono trovato nella situazione di vivere la dipendenza, come capita a molte persone, a causa dell’età, della malattia, e di provare nella mia vita il limite umano. Cerco di stare attento a non complicare troppo il lavoro degli altri, a non essere un peso eccessivo per chi mi sta intorno.