1/ Se in Islanda scompaiono i bambini down, di Claudio Arrigoni 2/ La strage silenziosa dei down. In Islanda non ne nascono più. La società dell’inclusione non include tutti (Redazione de Il Foglio)
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1/ Se in Islanda scompaiono i bambini down, di Claudio Arrigoni
Riprendiamo dal Corriere della Sera del 22/8/2017 un articolo di Claudio Arrigoni. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Disabilità, Vita e Diritti umani.
Il Centro culturale Gli scritti (22/10/2017)
L'Islanda si avvia a diventare il primo Paese europeo senza nascite di persone con sindrome di Down.
Negli ultimi anni, in media, nascono una o due persone con sindrome di Down all'anno, su una popolazione vicina ai 335 mila abitanti nell'isola del Nord Europa. Ma la tendenza è di fare in modo che anche questo non accada più: la maggioranza delle donne che ricevono risposta positiva al test prenatale circa la presenza di anomalie cromosomiche nel feto, infatti, mettono fine alla gravidanza. Le stime indicano una percentuale ormai vicina al 100 per cento. La semplicità dei nuovi screening, sempre meno invasivi, vede aumentare anche il numero di chi li richiede. Le diagnosi prenatali sono state introdotte all'inizio del secolo e oggi sono scelte da circa l'85 per cento delle donne in gravidanza, secondo quanto riferisce il Landspitali University Hospital di Reykjavik.
«Vi sono ancora neonati con sindrome di Down», ha dichiarato alla Cbs, che ha dedicato un documentario all'argomento, Hulda Hjartardottir, capo dell'unità di diagnosi prenatale dell'ospedale della capitale, dove nascono circa il 70 per cento degli islandesi. «Alcuni però non erano stati segnalati nello screening». Non sempre infatti i test sono precisi.
La legge in Islanda consente l'aborto anche dopo sedici settimane in caso di anomalie nel feto e la sindrome di Down è inclusa fra queste. Helga Sol Olafsdottir è fra coloro che danno supporto psicologico e consigli alle donne che ricevono risposta positiva al test prenatale. «Parlo loro prima che prendano la decisione se concludere o continuare la gravidanza». Spiega: «Questa è la tua vita e tu hai il diritto di scegliere come sarà la tua vita». L'intento è quello di evitare che subentrino eventualmente sensi di colpa: «Pensiamo all'aborto come a qualcosa che ponga fine a quelle che potrebbe essere grandi difficoltà, prevenendo sofferenza per il bambino e la famiglia».
Proprio sull'informazione punta il dito Antonella Falugiani, presidente italiano di Coordown, che raggruppa diverse associazioni: «È importante sia corretta. La coppia deve poter avere tutti i dati per compiere una scelta consapevole». Sua figlia Irene, 18 anni, quarta liceo scientifico e danza moderna come hobby, ha sindrome di Down e qualche mese fa era a New York per parlare alle Nazioni Unite: «Disse che le reali difficoltà sono all'interno della società». Spiega Matilde Leonardi, neurologa al Besta di Milano: «In Italia un neonato ogni 1.200 ha questa sindrome. Nel 1929 la loro aspettativa di vita era di dieci anni, ora è sui 60 anni».
Le notizie dall'Islanda non stupiscono. Era solo questione di tempo e prima o poi sarebbe accaduto dicono dalle associazioni che si occupano dei diritti delle persone con sindrome di Down. Loro non si chiedevano più «se», ma «quando» e «dove». In Europa sembrava essere una corsa a due fra Danimarca e Islanda. Nel Paese scandinavo, le stime indicano una percentuale di aborti legati alla possibilità di questa anomalia cromosomica del 98 per cento. Nel 2015 sono nati 31 fra bambini e bambine con la sindrome.
Martina Fuga, blogger e scrittrice, è un'attivista che si batte per i diritti di chi ha sindrome di Down e non solo: «Da mamma queste notizie sono un colpo al cuore. Non può essere la scelta sociale di un Paese. È giusto poter decidere, ma conoscendo. Come sarebbe bello se si lavorasse su una cultura dell'inclusione e sulla ricerca per avere un mondo migliore».
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2/ La strage silenziosa dei down. In Islanda non ne nascono più. La società dell’inclusione non include tutti (Redazione de Il Foglio)
Riprendiamo da Il Foglio del 23/8/2017 un articolo redazionale. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Disabilità, Vita e Diritti umani.
Il Centro culturale Gli scritti (22/10/2017)
Una campagna sulla sindrome di Down a Vienna
(foto Rafael Robles via Flickr)
L’Islanda si avvia a diventare il primo paese europeo senza nascite di persone con sindrome di Down, scriveva ieri il Corriere della Sera in un lungo articolo che riprendeva un allarme già lanciato dal Foglio qualche mese fa: grazie ai nuovi screening prenatali, sempre più accurati e meno invasivi, le donne in gravidanza possono sapere con precisione se il figlio che portano in grembo è affetto da trisomia 21. “Aiutate” da un apposito supporto psicologico presente negli ospedali islandesi, quasi tutte ormai scelgono di abortire. Inevitabile, se è vero, come riporta il Corriere, che il tipo di aiuto dato è quello di far pensare “all’aborto come a qualcosa che ponga fine a quelle che potrebbero essere grandi difficoltà, prevenendo sofferenza per il bambino e la famiglia”.
Difesi sui giornali quando vengono bullizzati a scuola, usati in qualche pubblicità strappalacrime, ai down non resta invece che la buona volontà delle associazioni che tutelano i lori diritti quando si tratta di aborti eugenetici, la cui continua pratica sta facendo vincere all’Islanda la poco onorevole gara con la Danimarca a diventare il primo paese “Down free”. Casi analoghi sono sempre più frequenti anche in altri paesi europei (in Germania, denunciava lo Spiegel a marzo, nove gravidanze su dieci vengono terminate in presenza di quella anomalia cromosomica), e c’è chi parla di imminente “estinzione” dei down. Tragica ironia, per una società che quotidianamente fa lezioni di inclusione e dice di commuoversi per la sorte dei piccoli e degli indifesi, ma non trova il tempo di spendersi anche per il diritto alla vita di questi bambini.