1/ «Io, mamma lavoratrice, non ce l'ho fatta», di S. P. Lettera di una mamma lavoratrice a Beppe Severgnini 2/ «La colpa è di noi uomini», di Beppe Severgnini. La risposta di Beppe Severgnini alla mamma lavoratrice 3/ Colpa di noi maschi se troppe madri lasciano il lavoro, di Beppe Severgnini
1/ «Io, mamma lavoratrice, non ce l'ho fatta», di S. P. Lettera di una mamma lavoratrice a Beppe Severgnini
Riprendiamo dal Corriere della Sera-Sette del 22/9/2016 una lettera di una mamma lavoratrice a Beppe Severgnini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Educazione e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (10/10/2017)
Pubblichiamo la lettera inviata a Beppe Severgnini da una mamma lavoratrice, che ha chiesto di restare anonima.
Caro Beppe, dopo giorni di lacrime e dubbi scrivo a te, rendendoti destinatario di un flusso di coscienza ma anche di una dichiarazione di fallimento. Prima di entrare nel merito dello sfogo, ti racconto però un breve aneddoto che ti farà sorridere… Ho sempre sognato di fare la giornalista, fin da bambina, e ti ho sempre letto; quando al liceo ci assegnarono un tema sui nostri miti, mentre i miei compagni parlarono di Che Guevara o di Bob Marley, io parlai di te… Scrissi di volermi occupare di cronaca di costume perché l’unica cosa in cui ero brava era osservare la gente e il mio maestro eri tu…
Son passati 20 anni da quel tema e la realtà è che non sono diventata giornalista. Mi sono iscritta a giurisprudenza perché, figlia di magistrato, ho seguito il consiglio paterno, quel genere di consigli che ti pesano come macigni ma che ti sembrano ineluttabili, perché non riesci a contraddire la persona che per te è l’essenza della ragionevolezza. Son finita a fare l’avvocato, neanche troppo brava, e provo anche a fare la madre, ruolo cercato e voluto con lacrime e sangue (ho perso in grembo ben due figli, ma ho due bimbe meravigliose). Ma proprio in questo sta il mio fallimento.
Ci ho provato, disperatamente, a conciliare le due cose. Ho chiesto orari ridotti che mi consentissero di portare le piccole al nido o alla scuola materna, mi sono avvalsa di tate, di aiuti di ogni genere, e per qualche tempo mi sono anche illusa di poter fare tutto. Ma la realtà è che è impossibile. Pur con tutti gli aiuti del mondo, ti ritrovi con il conto in banca prosciugato dagli stipendi alle tate e alle sostitute delle tate, dai folli costi dei nidi e delle attività extrascolastiche (che, pur senza esagerare, ti paiono irrinunciabili, come ad esempio un corso di nuoto, uno di inglese) e al contempo devi convivere con enormi sensi di colpa che ti tormentano. Non riesci a recuperarle da scuola tutti i giorni, non riesci a giocare con loro nel pomeriggio perché devi preparare una cena possibilmente sana e devi organizzare la giornata successiva, non sei abbastanza serena da assicurare loro un sorriso costante ed una parola indulgente, affannata come sei da tanti pensieri.
Ma i sensi di colpa non sono solo questi. Ti sembra di essere una lavoratrice meno solerte degli altri perché esci prima dallo studio rispetto ai colleghi uomini; ti sembra di non essere una brava moglie perché tuo marito ti chiede cosa hai fatto dalle 18 in poi e a te sembra troppo poco farfugliare «Le ho portate al parco giochi, le ho lavate perché erano sporchissime e ho preparato la cena con la piccola sempre attaccata alle gambe»; ti senti in colpa per non riuscire ad avere un rapporto umano o addirittura amorevole con una suocera criticona; ti senti in colpa a scaldarti il cuore con un bel piatto di pasta serale perché sei fuori forma e non hai neppure il tempo di farti una messa in piega; insomma, ti senti sempre e costantemente sotto pressione.
E poi ti guardi intorno e vedi donne ammazzate, donne vilipese, donne aggredite fisicamente e verbalmente, sul web o in televisione. Ma non trovi conforto neppure negli incontri quotidiani con uomini per bene, evoluti e sensibili, i quali (chissà perché) dimostrano sempre una impercettibile sfumatura di diversità nel trattare con una donna o con un uomo. Sono stanca, caro Beppe.
Ti dico la verità, se è questo quello che volevano le donne quando lottavano per i loro diritti, beh, penso abbiano fallito. Sia loro nel prefiggersi uno scopo irrealizzabile, sia noi che siamo state incapaci di realizzarlo. Non è possibile dover lavorare come matte per guadagnarsi la minima credibilità professionale e allo stesso tempo fare i salti mortali per tenere la gestione di una famiglia. Certo, i mariti aiutano, ma il loro apporto è sempre marginale ed il carico fisico ed emotivo è nostro. Non abbiamo nessun aiuto dai Comuni, dallo Stato, nessuna comprensione (se non di facciata) dai colleghi uomini, nessun supporto neppure tra di noi. Anche tra mamme lavoratrici, millantiamo comprensione e condivisione, ma poi siamo sempre pronte a giudicarci vicendevolmente. Ho il nodo alla gola da giorni e non vedo soluzione, se non una nuova chiave di lettura di questa ormai esasperata condizione.
Spero tu possa trovare il tempo di rispondermi e di regalarmi il tuo (per me) prezioso punto di vista. Ti prego di non pubblicare il mio nome, perché, avendoti scritto col cuore, ho inserito troppi riferimenti personali e professionali.
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2/ «La colpa è di noi uomini», di Beppe Severgnini. La risposta di Beppe Severgnini alla mamma lavoratrice
Riprendiamo dal Corriere della Sera-Sette del 22/9/2016 una lettera di una mamma lavoratrice a Beppe Severgnini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (9/10/2017)
Cara S., grazie. La tua lettera è bella, profonda e - posso dirlo? - scritta bene. Saresti una brava giornalista ma sei, di certo, una brava mamma e una donna intelligente. Domani, sul Corriere, ti rispondo nel merito. Ora mi limito a dire: voi donne salverete il mondo, come ci ricorda Aldo Cazzullo (SETTE di oggi). Ma noi uomini stiamo facendo di tutto per impedirvelo.
3/ Colpa di noi maschi se troppe madri lasciano il lavoro, di Beppe Severgnini
Riprendiamo dal Corriere della Sera-Sette del 23/9/2016 la risposta di Beppe Severgnini ad una lettera di una mamma lavoratrice. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (9/10/2017)
Silvia P. è un nome di fantasia. La storia che racconta non è fantasiosa né fantastica. È il resoconto amaro della lotta di moltissime mamme. Non tutte, forse, saprebbero descriverla come Silvia. Ma tutte hanno pensato cose simili, sofferto le stesse frustrazioni, provato le stesse tentazioni: basta, mollo tutto. Maternità e carriera, al di fuori delle illusioni nei convegni, non sono compatibili.
Non è un problema solo italiano. Nel 2012 l'americana Anne-Marie Slaughter, un'analista di politica estera, pubblicò, su The Atlantic, «Why Women Still Can't Have it All» (Perché le donne ancora non possono avere tutto), e impose la questione sulla scena internazionale. Nei primi quattro giorni, riferisce Wikipedia, «il pezzo attirò 725.000 lettori e 119.000 like su Facebook, facendone l'articolo più letto nella storia della rivista». La lettera di Silvia, apparsa giovedì su La27ora, in mezza giornata è arrivata a 50.000 like: fate voi i conti.
Perché queste reazioni, a distanza di anni e di un oceano? Perché il problema esiste; parlarne serve a esorcizzarlo, non a risolverlo. La società italiana è ancora dominata dai noi maschi, e le regole le facciamo noi. Regole vuol dire orari, ferie, permessi, promozioni, carriere. Vuol dire sguardi: quelli di chi ti fa capire che andar via presto o arrivare tardi, sai com'è, non va bene.
Una gravidanza non è un impiccio né una malattia. È la vigilia della festa della vita, che tutti dovremmo celebrare come merita. Lo facciamo? No. Le carenze pubbliche le conosciamo. Partiamo dalle cose semplici. I bambini non li porta a scuola lo Spirito Santo, che ha altro da fare. Negli USA ci pensa lo school bus; in Italia tocca ai genitori o ai nonni (quando ci sono). Le aziende - magari le stesse che organizzano convegni sul «valore delle donne» - spesso negano il part-time. Ho trovato una brava collaboratrice, anni fa, perché la radio dove lavorava le ha detto, dopo la nascita della figlia: tempo pieno o dimissioni. Il marito viaggiava per lavoro. Ha dovuto dimettersi. Altro che #fertilityday.
Una società sana capisce che la maternità è un'opportunità. Riccarda Zezza, a TedxMatera, ha titolato così il suo intervento: «Maternity as a Master». Ha ragione. Diventar madri è un master d'alto livello. Si ritorna al lavoro più tenaci, più capaci di affrontare le difficoltà, più mature.
Ma il datore di lavoro deve capirlo. Non è questione di legislazione, che esiste (le poche donne che ne abusano, lo sappiano: danneggiano tutte le altre). È questione di regole del gioco collettivo. Con queste carriere, con queste aspettative, con questi luoghi di lavoro e con questi colleghi, una giovane donna italiana deve scegliere: figli o carriera. C'è una terza via: il sacrificio disumano. Ma non si può e non si deve chiedere.
Grazie dunque, Silvia, d'aver scritto questa lettera. Ieri ci siamo parlati al telefono: sei quella che sembri, una donna speciale. Dichiarandoti sconfitta, hai vinto. Hai aiutato, in poche righe luminose, tante donne come te. Chissà che qualche maschio di potere, leggendole, veda la luce. Non quella della lampada abbronzante: un'altra.
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