Abdelhak Khiame: “In Marocco sgominate 47 cellule. Dal Sahel la minaccia per l’Europa”. Il direttore dell’Fbi di Rabat: “Reclutati donne e minori. Ci sono sigle ambigue, vanno tenute sotto osservazione”. Un’intervista di Karima Moual

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 24 /09 /2017 - 18:00 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da La Stampa del 19/9/2017 un’intervista di Karima Moual. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Islam.

Il Centro culturale Gli scritti (24/9/2017)

Nella cittadina di Salè, a pochi chilometri dalla capitale marocchina, Rabat, incontriamo Abdelhaq Khiame, Il direttore del “ Bureau central des investigations judiciaires (BCIJ), l’FBI marocchino. Questo organo - nato nel 2015 e composto da poliziotti di élite, molti formati tra gli Stati Uniti e la Svizzera - con il suo Direttore, è un punto fermo nell’antiterrorismo. Khiame, 55 anni di formazione anche umanistica, e una lunga carriera alle spalle tra i dossier più scottanti che hanno interessato il paese, è un volto familiare, e un “eroe” per i marocchini perchè riesce ad anticipare la minaccia jihadista. 

Direttore, quante cellule jihadiste sono state sgominate in Marocco dall’apertura del vostro ufficio ad oggi?  

Come BCIJ, dal marzo 2015 ad oggi, sono state 47 cellule terroristiche di cui 42 legate allo Stato islamico, mentre le altre 5 erano legate alle vecchie organizzazioni del jihadismo salafita come “ Al Faye wa al Istihlal”. A questo dato, si aggiungono le 698 persone arrestate in questi due anni. Bisogna però dire che il nostro ruolo come antiterrorismo è frutto di un lavoro che procede dal 2002. Siamo partiti in anticipo riguardo alla lotta al terrorismo quando era ancora salafita con legami in Afghanistan. Se vi dovessi dare i dati da quell’anno sono certamente maggiori. Le cellule terroristiche diventano infatti 172, mentre sono state 350 le operazioni terroristiche fermate per tempo, prima che agissero. 

Riguardano zone particolari del paese?  

No, come hanno dimostrato i vari arresti avvenuti in diverse parti del Regno. Da sud a Nord come da ovest a Est. Certo è che ci sono stati cambiamenti da periodo a periodo. Agli inizi, con l’ascesa dello Stato islamico, le cellule affiliate al Califfo erano per lo più provenienti dal sud del Marocco, precisamente da Agadir, Laayoune, Tantan, che avevano anche legami con i separatisti dei Polisario. Il Nord invece era caratterizzato dalla presenza dei reclutatori. La minaccia jihadista si è poi spostata a macchia d’olio. Il terrorismo jihadista in Marocco, dal 2002 ad oggi, ha cambiato sigle, da Al Qaeda all’AQMI sino a Daesh, che detiene oggi più seguaci rispetto alle vecchie sigle. 

C’è un legame forte sulla crescente minaccia interna con quanto avvenne in Siria e Iraq?  

Certamente si. Sono 1664 i marocchini partiti per il fronte iracheno e siriano, e anche lì hanno abbracciato le diverse sigle sul terreno di guerra, dallo Stato Islamico ad Al Nusra, nonostante la maggioranza, con 929 persone, abbia giurato fedeltà al Califfo. 

È una presenza tutta al maschile o ci sono anche donne?  

Purtroppo ci sono donne sia partite per queste zone, e sono 286, che all’interno delle cellule jihadiste che abbiamo sgominato in Marocco. Una cellula in particolare era formata solo da donne ed erano 14, tutte giovanissime. Non manca poi la presenza dei minori con un numero di 375 partiti al seguito del Califfo; 27 invece, quelli arrestati sul territorio perché legati al jihadismo. A questi si aggiunge il ruolo degli stranieri: 20 gli arresti. Sono con passaporti francesi come afgani, o provenienti da diversi paesi africani e anche dalla Turchia. Infine, la presenza di coloro che hanno una doppia cittadinanza, che sono in totale 17. Come vedete, è chiaro come la minaccia sia globale e stratificata

Dall’Italia in questi due anni sono stati espulsi più di 150 marocchini come sospettati di terrorismo. Perché non sono nella vostra lista?  

Perché al loro arrivo, e dopo le nostre indagini, l’accusa sarà risultata non del tutto fondata e sostenuta da prove concrete per tale crimine. Insomma, noi tutti abbiamo l’interesse a combattere il terrorismo ovunque si annidi ma bisogna stare molto attenti ed evitare di cadere in un’altra trappola che confonde veri terroristi con persone che hanno stili di vita magari un po’ lontani dal proprio ma rimangono comunque innocenti. L’individuazione della minaccia terroristica deve essere scrupolosa e l’espulsione indiscriminata, e non sostenuta da prove concrete, non è un bene. In sintesi, se questi 150 presunti terroristi provenienti dall’Italia non sono passati qui nel mio ufficio significa che non rappresentavano una reale minaccia

I jihadisti che siete riusciti a fermare sono collegati al Sahel, all’Africa Occidentale o all’Algeria?  

Bisogna intanto sottolineare che una volta ucciso Bin Laden, non è scomparsa con lui anche Al Qaeda che invece è rimasta a sud dell’Algeria con l’AQMI. Molte delle operazioni terroristiche da noi fermate erano targate AQMI. E’ evidente che il Sahel rappresenta un grande pericolo dal momento in cui è lasciato a se stesso. E’ una regione senza diritto, senza nessuno che la governi se non bande di criminali di vario genere. Ma il Sahel è un pericolo, non solo per i paesi confinanti come il nostro ma anche per l’Europa. Sui jihadisti dunque non c’è solo un legame territoriale anche se il Sahel rimane quello più problematico. In Marocco i jihadisti si dividono tra queste sigle. Poi ci sono i gruppi ambigui come “Al Adl Wal Ihsan” che teniamo d’occhio per alcune loro attività. Sono illegali, e molti dei jihadisti sono passati prima anche per questo movimento. E’ preoccupante però il loro attivismo ed espansione in Europa, dalla Francia al Belgio ma anche in Italia. 

Perché tante operazioni congiunte tra voi e gli spagnoli?  

Il primo motivo riguarda la vicinanza geografica tra i due paesi. Poi la questione del terrorismo, non riguarda solo il Marocco ma il mondo. Il nostro paese è stato tra i primi a impegnarsi, dopo l’11 settembre, nella lotta contro il terrorismo. E per questo suo allineamento ne ha pagato un prezzo molto alto, con l’attentato del 2003. Quella data fu però importante perché segnò una consapevolezza concreta che la questione doveva essere affrontata in maniera diversa e che necessitava di una strategia globale non solo sicuritaria, perché la questione riguardava la radicalizzazione delle persone. Perciò era necessario procedere in maniera globale e multidimensionale. Dunque il rafforzamento della macchina sicuritaria, con la creazione di nuovi reparti di sicurezza, la predisposizioni di leggi a riguardo, e la promozione di una narrativa e educazione all’islam malikita, pacifico e moderato. La Spagna con l’attentato del 2004 ha iniziato a collaborare con noi perché era evidente anche per loro che il nuovo terrorismo era diverso e in più in Spagna c’è un imponente comunità marocchina anche a Ceuta e Melilla. Molte volte ci sono stati casi di cellule che lavoravano nel territorio spagnolo ma avevano anche legami in Marocco, e per questo lavoriamo insieme e il risultato è stato eccellente perché abbiamo potuto sgominare diverse cellule con una collaborazione congiunta. 

Con la presenza notevole di jihadisti marocchini negli ultimi attentati in Europa c’è chi si chiede se non vi sia una rete marocchina che minaccia l’Europa?  

Non c’è una rete marocchina che minaccia l’Europa ma c’è un fenomeno criminale e jihadista che minaccia il mondo, compresi noi marocchini. Per quanto riguarda gli attentatori che hanno insanguinato l’Europa, non si può parlare di autori marocchini al 100% per diversi motivi a partire dal fatto che le persone coinvolte sono per lo più figli dell’Europa, che di marocchino hanno solo il cognome del padre o il nome, mentre sono nati, cresciuti ed educati in società occidentali. Questi ragazzi sono i figli dell’Europa. I padri di questi giovani terroristi non sono segnati da questa ideologia jihadista, non hanno mai fatto attentati e proprio perché la loro educazione l’hanno ricevuta dal paese d’origine, mentre i figli no. Questo è un dato di riflessione importante per gli europei. I reclutatori, approfittano del vuoto dello Stato per fare il lavaggio del cervello a giovani marginalizzati

“Eppure sembravano giovani pienamente integrati”. E’ la frase che si sente più spesso dalle testimonianze di chi li ha conosciuti. Si sbagliano?  

Se fossero stati realmente integrati non avrebbero abbracciato quell’ideologia omicida e terrorista. E’ evidente che c’è un problema di integrazione in tutte quelle storie di terrorismo. La minoranza musulmana che vive in Europa non è stata e non è ancora integrata nel tessuto sociale, nonostante sia stabile sul territorio da diverse generazioni. Non è stato ancora fatto quello sforzo necessario per non farli sentire degli emarginati. C’è poi da aggiungere che la lotta al terrorismo, non va fatta solo sul piano sicuritario ma anche in ambito religioso

Cioè?  

L’islam va conosciuto, controllato e guidato. In Europa, le minoranze musulmane sono lasciate a se stesse e questo è un pericolo reale per l’infiltrazione di ideologie violente e jihadiste lontane da quello che è il vero spirito dell’islam. Questo disinteresse per l’ambito religioso di queste minoranze, lo si pagherà a caro prezzo come abbiamo avuto modo di vedere attraverso l’ascesa di ideologie jihadiste che hanno trovato libertà e spazio per proliferare e fare il lavaggio del cervello ai giovani. L’imam di Barcellona, che ha potuto indottrinare nella moschea dei giovani è l’esempio lampante di come la questione del culto sia poco compresa o ancora lasciata a se stessa. La sua storia ci racconta che ha aperto in libertà una moschea dove predicava e radicalizzava senza alcun controllo. Gli altri attentatori in Belgio hanno un percorso simile. Lo sa che adesso questi errori e il vuoto nell’apparato di sicurezza sul culto diventano un problema anche per noi? 

In che senso?  

Insomma, noi facciamo un lavoro e uno sforzo straordinario e da anni per combattere la minaccia della radicalizzazione, con diversi strumenti e non solo quelli securitari ma anche di inquadramento religioso, però poi, ci troviamo di fronte alla radicalizzazione dei marocchini residenti all’estero, perché lì, c’è un vuoto e una falla nel sistema. Di conseguenza questi marocchini residenti all’estero, di ritorno per le vacanze, possono costituire un problema e adesso siamo obbligati a cambiare strategia e fare un doppio lavoro. Diventano anch’essi segmenti da tenere d’occhio

Cosa bisogna fare dunque?  

In Marocco, si è compreso e agito affinché questo non possa accadere cercando di portare avanti iniziative concrete sulla trasmissione di un islam pacifico moderato e credibile per le voci che lo interpretano. Dal 2003 sono bandite moschee o Guide religiose autoreferenziali. E’ vietato che in una moschea possa pronunciare un sermone un chicchessia senza che questa Khutba (sermone) passi e sia convalidata dall’Alto consiglio degli Ulema. Il culto è inquadrato e regolamentato e gli Stessi Imam, e le Mourshidat ( le guide femminili) vengono dapprima formate secondo l’islam malikita sunnita e moderato. E’ stato anche istituito un canale televisivo ad hoc che possa servire come guida ai cittadini e non essere deviati da pericolose letture. I paesi europei, insieme al lavoro sicuritario devono iniziare a riconoscere e regolamentare il culto, e non lasciare la minoranza musulmana nei garage adibiti a moschee con guide di dubbia formazione, altrimenti ne verranno travolti. 

Con quali strumenti affrontate i jihadisti di ritorno dai territori di conflitto insieme a quelli indottrinati senza nessuna partenza ?  

In Marocco sono tornati dalle aree di conflitto 82 persone. Queste persone insieme ai jihadisti interni vengono seguiti nell’ambiente carcerario con un programma di de-radicalizzazione, attraverso istituzioni come la Rabita Mohammadia, insieme al coinvolgimento di psicologi, Ulema, sociologi e antropologi. E’ un percorso lungo dove si lavora partendo dalla radice del problema. Cosa ha portato queste persone ad abbracciare l’ideologia jihadista e credere che sia il vero islam? In questo il lavoro delle guide religiose è fondamentale perché chi è radicalizzato convinto, come i predicatori, si basa su studi precisi, e dunque bisogna affrontarli sullo stesso terreno. La vecchia generazione di predicatori, salafiti jihadisti di alto profilo, sono passati da questo programma di de-radicalizzazione. Dopo lunghi anni, hanno fatto un passo indietro e sono usciti dal carcere rappresentando poi fuori, la loro testimonianza e i loro errori alla comunità di fedeli

Quanto ci vorrà per debellare questo terrorismo jihadista?  

Non c’è un tempo prestabilito perché si tratta di un’ideologia. Abbiamo visto come dopo Al Qaeda non sia finito il terrorismo e sappiamo come anche dopo la sconfitta dell’Isis non scomparirà del tutto il terrorismo se non si lavora sull’origine ideologica di questa conversione alla radicalizzazione. In Europa bisogna lavorare sull’integrazione e non sull’emarginalizzazione delle minoranze, e bisogna lavorare sulle guide religiose scegliendo e ispirandosi a quelle che promuovono l’islam moderato e aperto. Il Marocco è un partner che sta già avviando iniziative in questo ambito con diversi paesi europei.