“Gerusalemme, la Spianata e la fatica di chiedere perdono”. Lo scontro di questi giorni nel cuore della Città Santa raccontato da padre David Neuhaus, uomo di frontiera, oggi guida del Vicariato per i cattolici di espressione ebraica, di Giorgio Bernardelli
Riprendiamo da La Stampa del 27/7/2017 un’intervista di Giorgio Bernardelli a padre David Neuhaus. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Cristianesimo, ecumenismo, religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (20/8/2017)
«Avremmo bisogno di voci coraggiose e profetiche che ci insegnino quanto ciascuno ha peccato contro il proprio vicino... Ma i nostri leader rimuginano solo su quanto il mio vicino ha peccato contro di me». Ribolle da giorni Gerusalemme. E se in queste ore i palestinesi festeggiano la fine del boicottaggio della Spianata delle Moschee, dopo la rimozione di tutte le nuove misure di sicurezza messe in atto da Israele dopo l’attacco del 14 luglio, le tensioni e i risentimenti alimentati da queste due settimane di scontri sono lontani dall’essere rimossi davvero. Per questo vale la pena di provare a guardare un po’ più profondità dentro alla nuova fiammata che il conflitto ha vissuto intorno a uno dei luoghi più sacri della Città Santa, lasciandosi aiutare da chi - per la sua stessa storia - conosce bene chi sta da una parte come dall’altra della barricata.
Il gesuita padre David Neuhaus, 55 anni, è diventato prete nel 2000, l’anno dell’inizio della seconda intifada. Lui, figlio di una famiglia di ebrei tedeschi emigrata in Sudafrica nel 1937, venne ordinato sacerdote dal patriarca Michel Sabbah, il primo palestinese a guidare la Chiesa latina di Gerusalemme. Biblista con alle spalle anche un dottorato all’Università ebraica, uomo di profonde amicizie tanto tra gli ebrei ortodossi quanto nella comunità araba, padre Neuhaus dal 2009 guida il Vicariato per i cattolici di espressione ebraica, una piccola e vivace comunità che vede insieme persone come lui giunte al cristianesimo da un contesto ebraico. Ma oggi punto di riferimento anche per tanti lavoratori cristiani immigrati in Israele dall’Asia e dall’Africa e per i loro figli, che parlano ormai l’ebraico come lingua madre.
«Siamo una comunità di preghiera, che intercede per Gerusalemme e tutti i suoi abitanti - racconta padre Neuhaus -. Non siamo politici, diplomatici o leader, ma una comunità di gente semplice che sa che nella vita ordinaria si può testimoniare amore per quanti ci circondano. Amore per quelli che ci amano e anche quelli che non ci amano. Però siamo anche i testimoni di una realtà storica, il fatto che la Chiesa e il popolo ebraico oggi vivono una profonda riconciliazione dopo secoli di sfiducia, pregiudizi reciproci e grandi sofferenze, per lo più imposte dai cristiani agli ebrei. Questa trasformazione è una rivoluzione grande, che sfiora il miracolo. E possiamo dunque pregare che - il più presto possibile - anche israeliani e palestinesi passino attraverso una trasformazione di questo tipo, riconoscendo l’umanità dell’altro, troppo a lungo considerato un nemico».
Il Papa - nell’Angelus di domenica - ha rivolto un appello «alla moderazione e al dialogo» per Gerusalemme. Quali i passi concreti per arrivarci?
«Vogliamo poter celebrare i necessari passi diplomatici verso la moderazione e il dialogo. E apprezziamo particolarmente l’opera di quanti stanno lavorando per aiutare la comprensione reciproca in questo momento e posso citare espressamente il re di Giordania. Tuttavia, al di là del livello politico e diplomatico, abbiamo anche bisogno di trovare strade per promuovere un ascolto vero dell’altro. Troppi israeliani oggi rifiutano di ascoltare il grido dei palestinesi, che da tanto tempo vivono sotto occupazione e sperimentano discriminazioni. E troppi palestinesi rifiutano di percepire un’umanità negli israeliani, li considerano con rabbia solo come degli occupanti. Troppi israeliani permettono alla paura di annebbiare la propria ragione e troppi palestinesi permettono alla rabbia di offuscare il loro sguardo».
Spianata delle Moschee, Monte del Tempio, Nobile santuario... Che cosa rappresenta per lei, padre David, questo luogo conteso oggi tornato al centro dello scontro?
«Per me l’Haram al Sharif è soprattutto il luogo santo dei miei fratelli e sorelle musulmani, un luogo al centro della vita islamica in Palestina da 1400 anni. Ho potuto sperimentare il loro legame fortissimo per questo Nobile santuario accompagnando là i miei amici musulmani in occasione del Laylat al-Qadr (una delle ultime notti del Ramadan, che commemora la rivelazione del Corano) o in altre importanti festività islamiche. Accanto a questo certamente riconosco che gli ebrei guardano alla Spianata come a un sacro resto del Tempio che un tempo sorgeva qui. E non posso nemmeno dimenticare che Gesù stesso, come pio israelita, frequentava quel Tempio: vi fu condotto quando aveva appena quaranta giorni, fu ritrovato là all’età di dodici anni e trascorse del tempo in questo posto insegnando fino alla fine della sua vita terrena... Ma il presente - un presente plasmato da oltre 1400 anni di storia - è una priorità».
E quando vedeva in queste ore i musulmani pregare nelle strade intorno a questo luogo santo, lei per che cosa pregava?
«Prego per i miei fratelli e sorelle musulmane: prego che, al Nobile santuario, possano trovare la strada per superare il dolore e la rabbia, il loro senso di umiliazione e di sfiducia. Che la loro preghiera li possa aprire a tutti quanti vivono a Gerusalemme. E - insieme - prego per i miei fratelli e sorelle ebrei: chiedo che, quando dal Muro Occidentale guardano in alto verso il luogo che un tempo era il loro Tempio, possano vedere i fratelli e sorelle musulmane che lì pregano. Che possano avvertire un senso di umanità condivisa e di rispetto per la loro ricerca di Dio. Consapevoli di quanto insegnava uno dei nostri più grandi rabbini, Yohannan ben Zakkai. A uno dei suoi discepoli angosciati di fronte al Tempio in rovina che gli diceva “Poveri noi ora che il luogo dove espiavamo i nostri peccati è distrutto”, lui rispondeva: “Non sai che abbiamo un mezzo per questa espiazione, i gesti d’amore?”. Lo diceva già il profeta Osea: “Misericordia io voglio, non sacrificio”».
Nelle prossime ore gli ebrei celebreranno Tisha b’Av, il digiuno che ricorda la distruzione del Tempio. Che cosa distrugge oggi i Luoghi Santi a Gerusalemme?
«Penso che molti miei amici ebrei risponderebbero sinat heynam, l’odio gratuito. Come si può credere che Dio guardi con affetto chi odia qualcun altro?».
Durante il suo viaggio del 2014, proprio sulla Spianata, papa Francesco disse che «non possiamo ritenerci autosufficienti, padroni della nostra vita; non possiamo limitarci a rimanere chiusi, sicuri nelle nostre convinzioni. Davanti al mistero di Dio siamo tutti poveri». Come vivere questo messaggio nella Gerusalemme di oggi?
«Sì, dobbiamo proprio riconoscere prima di tutto la nostra povertà. I libri storici nella Bibbia ci insegnano come confessare i peccati e quando lo facciamo riscopriamo la nostra povertà e il nostro grande bisogno di essere perdonati. Nella Gerusalemme di oggi, dove dominano l’occupazione, la discriminazione, la violenza, l’odio e la rabbia, dobbiamo imparare a confessare i peccati. Avremmo bisogno di voci coraggiose e profetiche che ci insegnino quanto ciascuno ha peccato contro il proprio vicino... ma i nostri leader rimuginano solo su quanto il mio vicino ha peccato contro di me. Solo sollevando gli occhi al Padre nei cieli che vede ciascuno di noi come un figlio o una figlia amata possiamo scoprire quanto gravemente pecchiamo compiendo gesti di violenza nei confronti di ciascuno dei Suoi figli».
Molti però nel mondo oggi dicono: «La pace tra ebrei e musulmani a Gerusalemme è impossibile, funziona solo la forza». Che cosa risponde?
«Rispondo che per secoli ebrei e musulmani sono vissuti insieme, c’è stata anche una civiltà islamo-ebraica molto ricca. Invece per molti secoli c’è stato tanto disprezzo e odio tra ebrei e cristiani; eppure oggi siamo testimoni felici della rivoluzione avvenuta in questo senso. La stessa rivoluzione può compiersi anche per ebrei e musulmani se solo si ricordano di quanto hanno in comune».
E a chi nel mondo vuole fare qualcosa per promuovere la pace a Gerusalemme che cosa chiederebbe?
«Incoraggiateci ad aprirci gli uni gli altri. Ricordateci sempre che Gerusalemme è una città benedetta dalla diversità dei suoi abitanti. E che ogni comunità porta una misura in più di bellezza a ciò che Gerusalemme è chiamata a essere: la città dello Shalom, Salaam, la pace, come dice il suo nome ebraico, e al Quds, la città della santità vivente, come dice il suo nome arabo».