1/ L'elogio del liberale che punta alla ricchezza per donare agli altri, di Fabrice Hadjadj (a conclusione della Rubrica su Avvenire Ultime notizie dall’uomo) 2/ Nel canto degli aborigeni c'è anche la mappa verso Dio, di Fabrice Hadjadj 3/ La magia nascosta nello strumento, di Fabrice Hadjadj 4/ Dalla musica una lezione per la tecnologia futura, di Fabrice Hadjadj 5/ Blockchain, la catena Web che promette (falsa) libertà, di Fabrice Hadjadj 6/ L'elogio dei (veri) “padroni” al tempo dei manager, di Fabrice Hadjadj
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1/ L'elogio del liberale che punta alla ricchezza per donare agli altri, di Fabrice Hadjadj (a conclusione della Rubrica su Avvenire Ultime notizie dall’uomo)
Riprendiamo da Avvenire del 30/7/2017 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (15/8/2017)
In quest'ultima rubrica devo fare pubblica ammenda. Nelle precedenti rubriche ho spesso avuto la tendenza di trattare malamente l'aggettivo “liberale”. Ne ho fatto un epiteto infamante. Il segno di un appassimento, di una perdita di umanità.
I dirigenti d'impresa mi perdonino. Sinceramente. E mi scusino anche. Perché l'uso delle parole si è molto corrotto da quando comunichiamo così perfettamente grazie al sabir globale mediatico-commerciale. E così, seguendo Laudato si', ho denunciato il «paradigma tecno-economico», anche se io difendo proprio la tecnica e l'economia, e cioè il savoir-faire e la produzione familiare o di prossimità.
Parimenti ho attaccato il “digitale”, e tuttavia, il mio scopo è proprio la digitalità, la digitalizzazione piena e concreta, e cioè l'attività rinnovata delle nostre dieci dita, per suonare il pianoforte, coltivare le zucchine, piantare un chiodo o cambiare il pannolino a un bambino, e non solo spingere sui pulsanti senza pressione dei nostri che si vorrebbero schermi tattili.
Infine ho considerato i liberali come avversari… Ma la liberalità non è forse la virtù per eccellenza per regolare il nostro rapporto con la ricchezza? E non bisogna amare la libertà – oso dirlo – più della felicità? Comincio da quest'ultimo punto, tenuto abbastanza in scarsa considerazione dai cristiani di oggi. Dato che l'individualismo esalta il libero-arbitrio fino a farne il creatore dei valori, che il consumismo ci offre l'imbarazzo della scelta davanti ai suoi scaffali, che il rigetto della Chiesa e il disprezzo della famiglia si operano al nome dell'autonomia del soggetto, abbiamo preso la spiacevole abitudine di diffidare della libertà e ci siamo adattati al ribasso a sermoni del tipo: «Saranno forse liberi, ma sono infelici. Sottomettendoci a Dio, alle sue Leggi, alla sua santa Volontà, noi, almeno, abbiamo la gioia, guadagniamo la beatitudine, ecc.». Così facendo, tuttavia, non siamo più cristiani, ma musulmani, il rapporto con Dio essendo pensato innanzitutto come “sottomissione”, islam, in arabo; e votiamo noi stessi a ciò che volevamo criticare, poiché il consumismo non smette di assoggettare la libertà al benessere.
Di fatto, una beatitudine senza libertà corrisponde a un benessere da legumi o da bestiame da ingrasso. Rousseau ha proprio ragione quando, all'inizio del suo Contratto Sociale, scrive contro Hobbes: «I Greci rinchiusi nell'antro del Ciclope ci vivevano tranquilli, aspettando che venisse il loro turno di essere divorati. […] Rinunciare alla propria libertà [in cambio della sicurezza o della felicità] significa rinunciare alla propria qualità di uomo, ai diritti dell'umanità, anzi ai propri doveri». Ed è proprio quello che ci fa comodo e che ci fa cedere sempre più terreno al management informatico del mondo: vogliamo sbarazzarci dei nostri doveri, della nostra responsabilità, di una vera decisione che impegnerebbe la nostra esistenza nella buona e nella cattiva sorte... Ma Cristo non dice che bisogna sottoporsi alla Verità. Dice che la Verità ci farà liberi. E San Paolo esalta ai suoi corrispondenti «la libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8, 21) spingendosi fino a questa affermazione che riassume la Pentecoste: «dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà» (2 Co 3,17). Questa è la salvezza, l'esatto contrario di un islam, perché è essenzialmente liberazione e non sottomissione.
Saremo dunque come gli Ebrei pronti a tornare in schiavitù? Rimpiangeremo i cocomeri, «i meloni, i porri, le cipolle e l'aglio d'Egitto» (Nb 11, 5), giacché l'apprendistato della libertà esige che passiamo attraverso il deserto, la solitudine della responsabilità, l'inventiva della missione, non avendo altro cibo che la manna (man ou - «che cos'è?») e cioè l'interrogativo divino?
Liberi, si tratta di essere liberali. Perché la libertà non sta tanto nel fatto di scegliere (cosa che si potrebbe fare molto bene sul catalogo di un supermercato con consegna a domicilio) quanto nell'essere abbastanza potenti per essere attivi e fecondi. Tommaso d'Aquino presenta la liberalità come la virtù che sta nel giusto mezzo tra i due vizi contrari che sono l'avarizia e la prodigalità. Citando Aristotele dice: «È proprio dell'uomo liberale dare con sovrabbondanza».
Ecco perché quest'uomo intraprende e cerca di procurarsi ricchezze, non per accumularle né per sciuparle ostentandole, ma per essere generoso con gli altri. Non provvede soltanto ai suoi bisogni e a quelli dei suoi cari e supera in questo l'economia di sussistenza per andare verso un'economia del profitto. Ma tale profitto – veramente profittevole alla sua natura sociale – è di profusione. Il vero liberale, infatti, non si accontenta della giusta retribuzione, del giusto prezzo o del giusto stipendio. Vuole essere ricco come una sorgente, come il sole, come Dio stesso la cui lussureggiante libertà è di essere provvidenza per sue creature: «La liberalità – precisa san Tommaso – sebbene non miri a soddisfare, come la giustizia, un debito legale, tuttavia mira a soddisfare un debito morale, imposto dalla decenza del soggetto medesimo, e non da un diritto altrui. Essa quindi conserva solo in minima parte l'aspetto di cosa dovuta».
Incontriamo qui ciò che George Orwell chiama common decency. La decenza comune è riconoscersi in debito con qualcuno che non ha nessun credito verso di noi, semplicemente perché è il nostro prossimo, e che le ricchezze materiali sono meno divine della ricchezza spirituale del donare. Basterebbe che il liberismo diventasse infine ciò che deve essere, fondandosi sulla virtù della liberalità (e non rovesciandola in nome della favola secondo la quale i vizi privati fanno la prosperità pubblica) ed il titolo di “liberale” sarebbe il più elogiativo che si possa assegnare.
(Con questo articolo si chiude la rubrica “Ultime notizie dell'uomo”, curata per “Avvenire” dall'intellettuale francese Fabrice Hadjadj e tradotta da Ugo Moschella.
2/ Nel canto degli aborigeni c'è anche la mappa verso Dio, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 9/7/2017 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (6/8/2017)
Una verità profonda è venuta incontro a me da un errore di traduzione – qualcosa che si chiama in linguistica un “falso amico” – nell'enciclica Laudato si'. Il falso amico ha lasciato passare lo Spirito Santo (certo, se lo Spirito Santo si facesse fermare dai falsi amici, la Chiesa sarebbe scomparsa da tanto tempo). A due riprese il Santo Padre parla di “aborigeni”. Al paragrafo 146: «È indispensabile prestare speciale attenzione alle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali. Non sono una semplice minoranza tra le altre, ma piuttosto devono diventare i principali interlocutori […]. Per loro, infatti, la terra non è un bene economico, ma un dono di Dio e degli antenati che in essa riposano». Poi, al paragrafo 179: «Questi valori [di responsabilità, di senso comunitario, di profondo amore per la propria terra] hanno radici molto profonde nelle popolazioni aborigene». Quale posto è accordato ai popoli primitivi dell'Australia!
Mi dicevo. Ma sbagliavo. La parola “aborigeni”, in spagnolo come in latino (ab origines, quelli che stanno lì fin dalle origini) vuol dire “indigeni” ovvero “autoctoni” in senso generale. Anche se questo senso esiste ancora, in francese e in italiano la parola rimanda oramai soltanto agli indigeni dell'Australia… Ecco perché mi sono interessato specialmente a quegli aborigeni, invece di volgermi verso i sardi o gli alverniati, come una lettura più esatta del testo mi avrebbe forse spinto a fare…
C'è dunque la loro famosa pittura su pietra, corteccia o tessuto che tanto somiglia a allucinazioni da Lsd, ma che forma in verità una cartografia più rigorosa quella di un istituto geografico... E tuttavia è ai loro canti che mi sono fermato. O piuttosto ai loro “itinerari cantati” che sono anche una specie di cartografia o, per meglio dire, una “cartofonia”. Stabilire una mappa – per lo meno mentale – è un atto originario e decisivo.
Ne ho la prova ogni giorno quando mia moglie mi chiede dove ho messo le chiavi dell'automobile, o quando mi alzo la notte per andare al gabinetto. Oggi affidiamo i nostri itinerari a un Gps. Questi oggetti sono ancora molto poco performanti per dirci il tragitto dalla camera da letto ai servizi. Quanto a darci l'Itinerarium mentis in Deum, ne hanno di strada da fare prima di giungere al livello che si aveva al XIII secolo. Ho digitato «Deus» sul mio Gps: mi ha guidato fino a un venditore di moto a Milano, sotto l'insegna “Deus ex machina”. Ho digitato «W.C.»; mi è stato indicato un luogo lontano 9.012 chilometri, nella Provincia del Capo Occidentale in Sudafrica. Temo di non poter resistere così a lungo.
I songlines degli aborigeni sono ben più efficaci. Hanno al tempo stesso qualcosa dell'itinerario dello spirito in Dio e della strada che conduce alla porta del vicino. Gli aborigeni non hanno il catasto. I loro titoli di proprietà stanno nei canti ereditati dai loro antenati. Ciascuno di questi canti corrisponde a un itinerario che delimita un territorio: descrive tutto ciò che si può vedere. Al ritmo di una marcia. La stessa strada percorsa in Lamborghini non lascerebbe il tempo per una descrizione lirica.
La poesia è intimamente legata ai nostri piedi. Già una bici va troppo in fretta per la poesia, che deve cedere il posto a una segnaletica. Negli itinerari cantati, la descrizione non è un semplice inventario di oggetti. Queste rocce alla vostra sinistra sono le uova del Serpente Arcobaleno; quel grosso blocco di gres rossastro alla vostra destra è il fegato del Canguro trapassato da una freccia; quell'albero è uscito del sogno del Bruco; il fiume è sgorgato delle lacrime dell'Emù; quella grotta è il buco della Formica del miele – sapendo che al Tempo immemoriale del Sogno, il Serpente, il Canguro, il Bruco, l'Emù e la Formica erano antenati della tribù e potevano dare lezioni di saggezza meglio di molti arcivescovi.
Bisogna poter narrare l'avventura che condusse a questa metamorfosi: «Cantare il paesaggio, lo fa venire più rapidamente», diceva un aborigeno a un topografo russo le cui localizzazioni avevano come scopo l'installazione di una linea ferroviaria. E così, da quando il treno si è messo a passare in quei luoghi, il paesaggio si allontana. Impossibile cantarlo. Scorre via come la pioggia sui finestrini.
Il nipote dell'aborigeno, seduto su un sedile dell'Indian Pacific, ha le orecchie tappate da cuffiette che gli parlano di nessun luogo – o di una discoteca. Il mito è molto più preciso della mappa 1:10.000. Non solo sposa il passo dell'uomo ma gli dà un senso. Sapere che il fiume dove rinfrescarsi proviene da un emù malinconico – la sua femmina era stata divorata da una fiera nel suo primo atto carnivoro – misura il flusso dell'acqua sul flusso della parola e gli concede una profondità umana.
Ovidio permetteva qualcosa di analogo: dietro la fontana o l'alloro si nascondevano le ninfe che erano sfuggite a un tentativo di stupro di un dio. La foglia di alloro che mettiamo nel ragù aveva allora un sapore speciale e permetteva, intorno al tavolo, di raccontare storie ai bambini o di constatare coi vecchi che Apollo oggi sarebbe in prigione.
I pellegrini che vanno in Terra Santa somigliano agli aborigeni dell'Australia. Le cose in mezzo alle quali camminano, rimandano agli episodi della vita, non del loro antenato Canguro, ma di Cristo. I luoghi si mettono a parlargli senza essere troppo soffocati sotto i pannelli segnaletici e i manifesti pubblicitari.
Hanno ugualmente ancora un po' di strada a fare per sbarazzarsi della loro guida turistica e comprendere che Gesù è la Via. Egli lo dichiara all'apostolo Tommaso che andrà fino in India. Il cristianesimo è un aborigenismo trapiantato e trasfigurato. Qualunque strada è Cristo, anche quella che porta ad un negozio di moto, anche quella che porta al gabinetto, ecco perché bisogna poter cantare lo sciacquone ed il venditore di Harley.
Quando un aborigeno aveva finito il suo canto, aveva raggiunto i limiti del suo territorio. Che cosa c'insegna questo fatto? Che il potere del canto è più grande del potere di acquisto. Per abitare veramente da qualche parte, per sentirsi a casa propria, con i propri familiari, bisogna essere capaci di farne un inno da imparare a memoria. Cosa che – da quando il gres rossastro è stato sostituito dal cemento armato, il Serpente Arcobaleno da un'assemblea di condominio – esige un dono soprannaturale.
Cosa necessaria, tuttavia, se si vuole abitare davvero, e non solo essere messi in una casella. «Il canto e la terra sono una sola cosa», dice Bruce Chatwin nel Canto delle piste. Subito dopo osserva che «gli uccelli cantano anche i limiti del loro territorio». Cosa che li distingue nettamente dall'Airbus A350. E che li avvicina agli angeli. Questi non hanno altro spazio per spiegare le loro ali che la lode. Il loro accompagnamento delle creature è musicale. Improvvisano sul grande tema della Redenzione.
Al paragrafo 244, uno degli ultimi di Laudato si', il papa cita sant'Agostino: «Camminiamo cantando!». E così che si vede quanto gli aborigeni siano in anticipo. Costituiscono nell'evoluzione l'anello intermedio tra gli angeli e gli uccelli.
3/ La magia nascosta nello strumento, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 16/7/2017 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (6/8/2017)
C'è un prodigio che accade di continuo su cui val pena di soffermarsi, prodigio di cui tu o lettore fai ancora una volta l'esperienza proprio in quest'istante e che, nella sua stessa banalità, è più stupefacente di qualsiasi magia. Infatti, proprio in quest'istante stai guardando un foglio di carta, nient'altro che carta attraversata da piccole linee di inchiostro, e questa carta ti parla, questa carta si rivolge al tuo spirito. E tuttavia essa non è stregata. Non si tratta neanche di una prodezza della tecnologia. Anche un povero piccolo biglietto sul quale qualcuno che ti è caro avesse scritto semplicemente «Ti amo», farebbe accadere la meraviglia più fortemente che con la stregoneria o la tecnoscienza, perché i mezzi poveri con cui opera manifestano ancor di più il divario tra il materiale inerte e l'azione spirituale.
Che un uomo volga il suo sguardo verso un schermo dove si muovono figure cangianti e sonore, questo si capisce; ma che offra il suo viso a una pagina immobile ed annerita, è un mistero, un mistero e una banalità che sono quelli della scrittura che fa sentire il mio pensiero, ascoltare la mia parola, anche se io non ci sono e non mi nascondo dietro a questo foglio, anche se forse sono morto da molto tempo (nel qual caso sarei diventato un “classico”).
Questo genere di fenomeni allo stesso tempo ordinari e straordinari è in rapporto con la categoria di oggetti che Tommaso d'Aquino chiama “strumenti”. Lo strumento produce effetti che superano la sua stessa natura (e sono dunque in qualche modo “soprannaturali”) perché subisce l'azione di una natura più alta della sua: «La causa strumentale agisce in forza non della sua forma, ma della mozione che gli è impressa dall'agente principale. Per cui l'effetto non assomiglia allo strumento, ma all'agente principale: come un letto non ha somiglianza con l'accetta, ma con l'arte che è nella mente dell'artefice».
Certo si può percepire la lama dell'accetta o della sega, e dunque la loro forma propria, nelle linee e negli angoli del letto, ma la forma del letto, l'idea di fare un letto non è venuta dall'accetta che non ha bisogno di riposarsi come il falegname dopo un duro lavoro. Ugualmente la carta e l'inchiostro non si riducono qui a macchie o pallottole che si potrebbero tirare addosso a qualcuno. In quanto strumenti, queste cose senza intelligenza producono un'azione intellettuale, e possono parlare come Proust o Tommaso d'Aquino, e cioè meglio di noi o di molti dei nostri simili anche se dotati di parola.
Ecco perché si può facilmente immergersi in un libro piuttosto che intavolare una conversazione col vicino. Di tutti gli strumenti i più significanti sono gli strumenti musicali. Si distinguono dagli strumenti artistici nel loro non essere attrezzi. L'attrezzo scompare nel suo utilizzo. In quanto strumento, è “essere-tramite-un-altro” – quello che lo maneggia – in quanto attrezzo è “essere-per-un-altro” – l'opera prodotta attraverso di esso.
Meglio il suo utente lo usa, meno si accorge di esso: la penna non si manifesta se non quando l'inchiostro finisce. E, una volta finita l'opera, lo strumento è riposto nella sua scatola. Il pennello lascia posto al dipinto, lo scalpello alla scultura, perché la materia da essi formata resta al loro esterno.
Ora, in un'orchestra le cose stanno diversamente. A immagine del Creatore, lo strumento musicale produce la materia che lavora, nell'istante stesso in cui la lavora. Se cessa la sua azione la materia sonora sparisce. Ma di questo altro mistero parleremo la prossima settimana.
4/ Dalla musica una lezione per la tecnologia futura, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 23/7/2017 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (6/8/2017)
Tra tutti gli strumenti, i più significativi sono gli strumenti musicali. Al contrario degli altri strumenti artistici, non sono attrezzi. L'attrezzo scompare durante il suo utilizzo. In quanto strumento, è «essere-tramite-un-altro» – la persona che lo maneggia – in quanto attrezzo è «essere-per-un-altro», l'opera prodotta attraverso di esso. Meglio lo si usa, meno: la penna non si manifesta se non quando l'inchiostro finisce. E, una volta finita l'opera, lo strumento viene riposto nella sua scatola. Il pennello lascia posto al dipinto, lo scalpello alla scultura, perché la materia che hanno formato resta al di fuori di essi.
In un'orchestra le cose stanno diversamente. A immagine del Creatore, lo strumento musicale produce la materia nell'istante stesso in cui la lavora. Se cessa la sua azione, la materia sonora sparisce. Inoltre, uno strumento musicale è un attrezzo strano che non scompare interamente mentre lo si usa. All'ascoltatore piace contemplarlo e lo strumentista intrattiene con esso rapporti quasi coniugali: «Formano una vecchia coppia divertente e commovente quanto un uomo e il suo cane – dice Jacques Dewitte – ma non si riesce ad affermare con certezza chi dei due sia il padrone e chi il docile animale».
Più esatto è il paragone con una coppia di sposi. Lo strumentista forma con lo strumento quasi una sola carne, generando un organismo sfuggente e sottile. Ma lo strumento resta separabile dallo strumentista, non come qualcosa che egli può gettare, ma come una cosa di cui si prende cura, che rimette delicatamente nella sua custodia.
Del resto, è stato per lui quasi un colpo di fulmine, anche se in seguito ha dovuto faticare e sudare per tirare fuori non solo il meglio dello strumento, ma anche, indissolubilmente, il meglio di sé stesso. Le parole lo dicono: non si usa un violino o un pianoforte, lo si suona. Non si tratta di animali da addestrare: è invece un'autodisciplina di se stessi che si cerca nella loro frequentazione. In questa disciplina e in questo gioco (in francese suonare si dice jouer e in inglese to play) il grande piacere è sentire le dita, le braccia, il corpo tutto intero entrare in intelligenza con lo strumento più che con i nostri pensieri.
Dopo un certo tempo di pratica paziente, vediamo le dita, le braccia, il corpo mettersi in movimento quasi per conto loro per realizzare il ritmo, la melodia e l'armonia senza riflettere. Se ci si mette a pensare a cosa bisogna fare e si perde il gesto musicale, corde e dita si ingarbugliano.
Strumento in greco si dice organon. Occorre dunque che lo strumento sia legato a noi come un nuovo organo polifonico, in una fluidità analoga a quella che fa funzionare le nostre gambe senza che in fondo si sappia come. Con materiali presi dalla natura – il giunco del flauto, il palissandro della chitarra, la zucca della kora – lo strumento musicale esige anche un apprendistato legato a una tradizione. Questa tradizione viene a far suonare e cantare gli elementi naturali e soprattutto l'aria che si respira che è trasfigurata dalla vibrazione dello strumento.
Si costituisce in questo modo una “pratica focale”: il musicista e lo strumento costituiscono un punto focale intorno al quale la gente si raduna in una comunità incarnata, accordata dall'ascolto e dalla danza.
A che pro tutte queste considerazioni? Per rendersi conto di quanto il tecnologismo sia invece caratterizzato non dalla moltiplicazione, ma dalla scomparsa degli strumenti. L'apparecchio tecnologico provoca consumo ma non fa appello a un'arte. Funziona in una rete virtuale e non costituisce un punto focale fisico che attira con il suo savoir-faire.
Per quanto uno sia legato al proprio smartphone, si tratta di una dipendenza, non di un coniugalità. La reciprocità carnale è assente: lo si sfrutta dispoticamente, o si è sfruttati da esso. Probabilmente anche lo smartphone produce la materia digitale che lavora, ma non tanto per l'azione del suo utente quanto sotto alla dominazione di un sistema dove ci sono più strumentalizzati che strumentisti.
Del resto la sofisticazione stessa dell'apparecchio sminuisce il miracolo del vedere legno e corde prendere respiro e vita e passare attraverso tutti i sentimenti umani, diventare capaci di elevazione per l'anima. Ci sono qui troppa elettronica e troppa programmazione perché si possa assistere a quella congiunzione sorprendente a, per così dire, quel “corto-circuito” dell'unione meravigliosamente feconda di un materiale elementare e di una persona umana.
Ma le protesi? Gli impianti del futuro? Non faranno con noi un solo corpo meglio degli strumenti da musica? Ancora una volta, tali sposalizi sanno troppo di tecnoscienza e di alta finanza perché possano essere più diretti e aperti di un David Oïstrakh col suo violino, o, più vicini a noi di un Vincent Segal col suo violoncello. E per di più essi non cantano neanche così bene. In breve, lo strumento musicale resta il modello per tutti gli strumenti a venire.
5/ Blockchain, la catena Web che promette (falsa) libertà, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 25/6/2017 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (6/8/2017)
Gli anti-sistema sono sempre abbastanza sistematici: ciò in cui sperano è un altro sistema, migliore. Questa tendenza si incontra sia a destra che a sinistra: qui si attende infine lo stato provvidenziale, là si scommette sul Mercato autoregolatore. Nel 1979, Leszek Kolakowski descriveva così le «due promesse fatalmente contraddittorie» alla base dei messaggi dei grandi partiti politici europei: «Da un lato ci dicono: “Tutti gli altri vogliono regolare la vostra vita dall'alto, attraverso decisioni burocratiche, noi soli vogliamo che voi stessi, il popolo, prendiate tutte le decisioni negli affari che vi riguardano; in breve, vogliamo che la società sia arbitra di se stessa! Ma, dall'altro lato, ci promettono che lo stato, guidato dallo stesso partito, proteggerà tutti gli interessi di tutti gli strati sociali […]. Le ideologie politiche sembrano prometterci sempre di più una società che combinerà armoniosamente il paradiso anarchico e il paradiso totalitario: lo stato non sarà niente e allo stesso tempo lo stato sarà tutto, si occuperà efficacemente di tutto e cederà il potere al popolo, ciascuno di noi sarà protetto come un bambino nella culla e allo stesso tempo avrà una libertà perfetta di realizzarsi individualmente».
Questa contraddizione è oggi passata dall'ideologia alla tecnologia. Si è materializzata nella struttura stessa di Internet, la cui origine sta sotto il segno dell'ambiguità. Da una parte abbiamo la tecnologia militare americana sviluppata dalla Defense Advanced Research Projects Agency: in piena Guerra Fredda, bisogna concepire una rete di comunicazione strutturata in modo tale che la messa fuori uso di un nodo sia subito aggirata passando per un altro nodo, così che gli ordini dello Stato Maggiore possano sempre essere trasmessi.
Dall'altra parte, abbiamo alcuni giovani hippies superdotati che inventano la microinformatica in un garage, o un gruppetto di primi della classe che immaginano un annuario interattivo: il Web appare allora come un'utopia realizzata o piuttosto, dato che si tratta di una realizzazione cibernetica, come una utopizzazione del reale – il luogo virtuale di una comunità senza gerarchie.
Qui si concreta la struttura anarchica e totalitaria intravista da Kolakowski. Internet è al tempo stesso la rete e lo standard; il peer-to-peer e il data center; l'assenza di un centro di potere e la necessità di un macchinario universale; l'orizzontalizzazione delle relazioni umane e la loro captazione da parte degli algoritmi; la perfetta «neutralità del Net» e la neutralizzazione di tutto ciò che non passa attraverso di esso...
Posso mandare quasi istantaneamente un testo qualsiasi, ornato di video a tutti gli "amici" senza dovere render conto a nessuno, ma a condizione di avere un account Facebook o Gmail e di piegarmi alla loro formattazione del mondo. Questa ambivalenza ricompare a livello economico: il servizio è gratuito ma l'impresa che lo propone fattura parecchi miliardi.
Qual è dunque questa monetizzazione della gratuità? I nostri “dati personali” sono sfruttati come l'oro dell'Eldorado informatico. Il funzionamento “libero” del dispositivo non fa che rinforzare il monopolio dei membri del GAFA (Google, Apple, Facebook, and Amazon) che gestiscono l'infrastruttura che dà accesso a questo funzionamento. I “Giganti del Web” – si dovrebbe dire i Ragni della Tela – possono tuttavia accampare l'aspetto "rete" del loro accaparramento. Lottano malgrado tutto contro i privilegi della Stampa, della Scuola, della Banca, della Medicina, dei Trasporti...
Questa struttura libertaria/monopolistica trova la sua ultima frontiera nel blockchain, letteralmente “catena di blocchi”. Il neologismo rievoca all'orecchio ingenuo una doppia cattività, quella delle catene e quella di un blocco. Significa per gli specialisti una «economia fondata sulla fiducia decentralizzata tanto sul piano politico che sul piano dell'architettura» o ancora l'“Uberizzazione di Uber”. Gilles Babinet, imprenditore seriale e “Digital Champion per la Francia presso la Commissione europea”, scrive in un articolo intitolato Il blockchain per orizzontalizzare il mondo (nulla è qui inventato, né il cognome "Baby-net" né la funzione di "Campione Digitale" né il titolo dell'articolo che ammette la volontà di spianare il mondo): «Il blockchain si inserisce in una vera rivoluzione antropologica che va al di là della rivoluzione tecnologica già all'opera nelle nostre società».
Laurent Leloup, fondatore del Finyear Group, fiuta la contraddizione ma la riconduce nell'alveo della costruzione nuova: «La scommessa perduta di Internet di porre l'umano al cuore della sua tecnologia, per più libertà e più potere, sarà forse vinta dalla tecnologia blockchain».
Di cosa si tratta, esattamente? Dell'Internet, dell'open source, del potere di calcolo dei computer in rete e dei progressi della crittografia combinati per creare un immenso cyber-libro contabile o “registro distribuito” (distributed ledger) che permette di stipulare smart contracts, di effettuare transazioni «in modo trasparente e sicuro... senza organi centrali di controllo» (trusted third party). Questo protocollo permette di dare garanzie passando per un algoritmo e non una persona morale.
Lo si chiama trustmachine, “macchina della fiducia” come se ciò non fosse contraddittorio. La moneta numerica Bitcoin è stata la prima a funzionare secondo questo procedimento. Oggi esiste ciò che la stampa considera come l'“Uber-killer”: Arcade City, «piattaforma aperta dove conducenti e passeggeri possono essere messi direttamente in relazione, senza intermediari».
Il peer-to-peer è senza volto. La “disintermediazione” si opera attraverso l'ultra-mediazione delle macchine. La fiducia nella tecnologia poteva capovolgersi solamente in questa “tecnologia della fiducia”. L'atto della fiducia umana, con la sua avventura, fa spazio alla transazione sicura, col suo process. Questo ci rimanda all'origine militar-cool di Internet, e alle sue ingiunzioni contrarie di sicurezza totale e di libertà totale.
In questa origine si ritrovano alcuni tratti tipici di una certa antropologia moderna (a partire da Hobbes). Libertà totale e sicurezza totale sono “promesse contraddittorie” sia del comunismo, con la dittatura del proletariato, che del capitalismo, attraverso la mano invisibile del mercato. In questo senso Internet, più che un'innovazione, è il compimento e il superamento post-ideologico di due vecchie ideologie su un modo pratico, globale ed integrato (se Emanuel Macron supera i vecchi schemi è su quest'onda, mi sembra: non fu forse lui, da ministro dell'economia, il primo promotore politico del blockchain?).
La contraddizione ideologica è mutata in una costruzione tecnologica, ben più difficile da denunciare di una semplice dottrina. Siamo presi tutti in questa tela con molteplici legami quotidiani. Per strapparsi da essa, occorre probabilmente una conversione radicale come quella di coloro che un tempo lasciavano il mondo per entrare in monastero. Ma qui non si tratta di lasciare il mondo. Si tratta di ritrovarlo.
6/ L'elogio dei (veri) “padroni” al tempo dei manager, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 2/7/2017 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (6/8/2017)
La gente di sinistra ha l'abitudine di denigrare i padroni; quella di destra, di esaltarli. I cristiani, avendo ciascuno un “santo patrono”, li accettano a patto che essi “mettano la persona al centro dell'impresa” e pratichino “l'etica degli affari”, vale a dire che assumano e licenzino facendo appello alla nozione di “bene comune”.
Quanto a me, stavo per fare una critica del padronato nella debita forma, quando mi sono accorto che io stesso sono il direttore di un istituto accademico, una specie di padrone dunque che produce vento (o più precisamente che aspira l'aria per poi espellerla arricchita di suoni articolati). Questa scoperta mi ha spinto a un certo ritegno. Tanto più che mi sono anche reso conto che il grande nemico dei padroni è il “leader sindacale”.
Ora, se dovessi scegliere tra le due denominazioni, “padrone” o “leader”, credo di preferire ancora “padrone”, più antico, più latino. Non ignoro che va di moda la “leadership cristiana”. È possibile oggi leggere testi dal titolo: “Mosé era il leader per eccellenza”. O assistere a conferenze sul tema “Essere un leader provoc-attore secondo Gesù Cristo” . E così i discepoli in cammino continuano a discutere per sapere chi sia il primo…
Certamente, la parola “leader” significa «colui che guida». Si dice “duce” in italiano e fürher in tedesco, e questo ha un certo potere di seduzione su un vecchio agitatore socialista o un candidato rifiutato all'accademia delle Belle Arti.
La parola “padrone” significa invece «protettore». Ricorda anche la paternità che tollera figli turbolenti e ribelli, mentre la leadership richiede followers affascinati. Paul Claudel ammirava i padroni. Li vedeva come persone positive, impegnate, motivate sia dal gusto del profitto che dallo slancio della speranza.
Soprattutto, constatava che «la loro incapacità li elimina meccanicamente», e questo non è il caso per letterati e professori che possono limitarsi a parlare e non devono fare i conti con i risultati. Il poeta Claudel tuttavia appartiene ancora all'età familiare e eroica del capitale. Con lo sviluppo industriale e in seguito con il fordismo, compaiono le “multinazionali” e il “grande padrone” e sembra che questo implichi una contraddizione in termini.
A partire da una certa scala, si può avere un sistema di protezione sociale, ma non si può più avere un protettore. La figura paterna cede il posto a quella del presidente - direttore generale in cima alla sua torre, ora venerato come un dio, ora schernito come un diavolo.
Ma noi siamo già andati oltre. Abbiamo denunciato irrevocabilmente ogni “paternalismo” come puerilizzante. I dirigenti stessi, vergognandosi del nome di padrone, sono ormai “imprenditori” o addirittura “creatori di ricchezza”. Difendono anche l' “olocrazia” o “management orizzontale”; di questi termini ho trovato la seguente spiegazione in una rivista indigeribile e specializzata: «L'autorità e le prese di decisioni appartengono ai salariati e alle squadre autogestite. Ciascuno è autonomo e sceglie le sue missioni, sempre rispettando l'allineamento strategico dell'impresa. Gli impiegati aderiscono a una visione comune. La comunicazione e la cultura di impresa sono dunque valori centrali che uniscono la squadra».
Nel libro Il Nuovo Spirito del Capitalismo, pubblicato nel 1999, Luc Boltanski e Eve Chiapello hanno mostrato come il capitalismo avesse integrato la requisitoria libertaria - quella “critica artista” o addirittura anarchica che lo attacca nel nome dell'autonomia e dell'autenticità. Grazie ai suoi avversari, con la sua plasticità fantastica, il capitalismo si è dunque fatto un pelle nuova. I sessantottini si sono riciclati nella pubblicità. L'autonomia e l'autenticità sono diventate la caratterizzazione principale delle merci attuali, così come i “valori centrali” di industrie come Apple, Nestlé, Coca-Cola, ecc.
Boltanski e Chiapello fanno capire che i padroni costituiscono una specie in via di estinzione: «Il mondo del lavoro ormai conosce soltanto delle istanze individuali connesse in rete.. […] Questo cambiamento è consistito nel sostituire l'autocontrollo al controllo e in questo modo esternalizzare i costi molto elevati del controllo, spostando il peso dell'organizzazione sui salariati».
Non sono più il padrone o il caposquadra che garantiscono la sorveglianza. Nel “nuovo spirito del capitalismo”, ci si controlla gli uni gli altri, (la convivialità dell'open space serve anche a questo), si spia la défaillance del caro collega, si entra in una competizione neo-darwiniana. Nessuno è più responsabile dell'eliminazione di un salariato, è colpa della selezione naturale. L'elogio dell'autonomia e della rete è dunque non solo in accordo col cost-killing ma anche con la “flessibilità”, vale a dire con la possibilità di essere messo alla porta dall'oggi all'indomani, dicendo a se stessi che si non si è stati veramente licenziati, ma che ci si è in qualche modo “auto-esclusi” dell'organismo competitivo.
Il tempo dei padroni ci appare all'improvviso come un'età dell' oro. Si poteva esigere allora una protezione personale. Si poteva accusare qualcuno. Ed ecco, in fondo, ciò che mi ha impedito di fare la mia critica del padronato: non ci sono più padroni, là dove domina il tecnoliberalismo. La finanziarizzazione e la “managerizzazione” dell'economia ne hanno causato la sparizione. Si trovano soltanto “uomini connessionisti”, presi tra gli speculatori e i manager, gli uni che promuovono lo shareholding, gli altri, il team-building. L'impresa è orfana. Non ha più né padre né protettore. Non ci resta che pregare san Giuseppe, patrono dei lavoratori.