2 agosto 1980. La strage di Bologna spiegata ai ragazzi, di Giovanni Bianconi
Riprendiamo dal Corriere della Sera dell’1/8/2015 un articolo di Giovanni Bianconi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (15/8/2017)
Il 2 agosto 1980 alle 10.25 ci fu una violentissima esplosione nella stazione di Bologna, affollata di turisti in arrivo e partenza per le vacanze. È considerato il più grave atto terroristico compiuto in Italia nel secondo dopoguerra. La bomba era composta da 23 chili di esplosivo chiuso in una valigia posta su un tavolino. Di una delle vittime, una donna, non venne ritrovato il corpo. L’esplosione la disintegrò.
Angela Fresu stava per compiere 3 anni, sua madre Maria — contadina della provincia di Sassari — ne aveva festeggiati 24 a febbraio. Sonia Burri aveva 7 anni, sua sorella Patrizia 18; venivano da Bari. Roberto Gaiola, vicentino, era uno studente di 14 anni come il tedesco Eckhard Mader (il fratello Kai ne aveva 8). Antonella Ceci, diciannovenne di Rimini, era fidanzata con Leoluca Marino, operaio, 24 anni, siciliano come le sorelle Domenica e Angelina, 26 e 23 anni.
Sono alcune delle vittime della strage: bambini, ragazzi o poco più. Degli ottantacinque morti, circa la metà non aveva trent’anni. Giovani vite spezzate da giovani assassini, stando alla sentenza che ha individuato tre colpevoli: Valerio Fioravanti, 22 anni; Francesca Mambro, 21; Luigi Ciavardini, nemmeno 18: è stato processato a parte, dal tribunale dei minorenni. Loro, terroristi-ragazzini sotto la sigla neofascista dei Nuclei armati rivoluzionari, per la bomba si proclamano innocenti nonostante la condanna definitiva. Hanno rivendicato e ammesso omicidi di poliziotti, carabinieri, magistrati, avversari politici e «camerati» accusati di tradimento; ma la strage no, ripetono da sempre. Dopo aver scontato la pena, sono tornati liberi; in Italia si può, anche con più di un ergastolo sulle spalle.
Esecutori giovani, depistatori anziani
Una storia di ragazzi di 35 anni fa, mescolata alla politica e alle trame del tempo, di cui i ragazzi di oggi mostrano di sapere poco o niente. Forse perché è stata digerita in fretta, a dispetto degli enigmi irrisolti e degli intrecci (reali, plausibili o solo immaginari) con le altre vicende del terrorismo italiano e straniero, che il Paese ha archiviato nonostante le risposte mancanti; dai legami col resto dell’eversione nera ai possibili collegamenti con la strage di Ustica (il Dc9 precipitato con 81 persone a bordo il 27 giugno 1980) e con il terrorismo medio-orientale.
Anziani, o comunque uomini maturi, furono invece i depistatori accertati. A cominciare da Licio Gelli, il «grande vecchio» dei misteri italiani, oggi novantaseienne, condannato per aver tentato di deviare le indagini, all’ombra della Loggia P2, insieme a due alti ufficiali del servizio segreto militare, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, e al faccendiere Francesco Pazienza. Un altro giovane estremista nero dell’epoca, Massimo Carminati, poi passato armi e bagagli alla criminalità comune e ora nuovamente in carcere con l’accusa di essere il capo di Mafia Capitale, fu anche lui processato e infine assolto per aver contribuito al depistaggio. Per quel che lo riguarda Gelli nega tutto, la sua idea è che l’attentato non fu nemmeno voluto: qualcuno trasportava una valigia di esplosivo e un mozzicone di sigaretta provocò il disastro. Spiegazione banale quanto «minimale» per l’atto di terrorismo più grave verificatosi nel dopoguerra nell’intera Europa occidentale.
Politica e strategia della tensione
L’ultimo capitolo della cosiddetta strategia della tensione, sostengono i più; anche perché, se pure Fioravanti, Mambro e Ciavardini fossero innocenti (così si chiamava il comitato sorto in loro difesa al tempo dei processi, al quale aderirono diversi esponenti della sinistra), ciò non significherebbe che l’eccidio non sia ascrivibile ai neo-fascisti. Anzi. Nell’andamento altalenante dei verdetti (condanne in primo grado, assoluzioni in appello, annullamento della Cassazione, nuove condanne nell’appello-bis e conferma in Cassazione) si sono persi per strada nomi noti dell’eversione nera della generazione precedente, già coinvolti nelle indagini sulle stragi del periodo 1969-1974, da piazza Fontana al treno Italicus, passando per Brescia. Assolti o prosciolti, certo. Ma a star dietro alle sole condanne, per contare i responsabili del lungo rosario di bombe che hanno insanguinato l’Italia basterebbero le dita di una mano. Un po’ poco. Ci dev’essere dell’altro. Anche per Bologna.
Nel 1980 il quadro politico era ben diverso da quello dei primi anni Settanta: l’avanzata delle sinistre si era arenata, e dopo il delitto Moro (1978) il Partito comunista era definitivamente uscito dall’area di governo; ogni timore di cedimento sul fronte orientale dell’Europa divisa in due poteva considerarsi superato, nonostante mancasse un altro decennio al crollo del muro di Berlino. Capo del governo era Francesco Cossiga (che bollò subito la strage come «fascista» salvo chiedere successivamente scusa), seguito da Arnaldo Forlani (travolto in pochi mesi dallo scandalo P2), e poi dal repubblicano Giovanni Spadolini, primo non-democristiano a entrare a palazzo Chigi nella storia della Repubblica. In ogni caso, il terrorismo di sinistra bastava e avanzava per tenere alta la guardia filo-occidentale.
Trentacinque anni dopo, il mistero della strage persiste intorno al movente: ci sono i nomi dei giovanissimi esecutori materiali, d’accordo, ma mancano mandanti e intermediari. Pedine di un gioco inevitabilmente più grande, in un mondo che non esiste più, rimaste senza manovratori. Nella ricostruzione iniziale c’erano, da Gelli in giù, ma col tempo troppi anelli della catena si sono spezzati per comporre un quadro credibile. Basti dire che alla fine pure il neofascista veneto (e più in età) Massimiliano Fachini uscì assolto, così come Sergio Picciafuoco, l’unico certamente presente sul luogo del delitto perché rimasto ferito.
I dubbi sul movente e le altre piste
L’associazione dei familiari delle vittime, per bocca del suo presidente Paolo Bolognesi, attuale deputato del Pd, sostiene che in realtà sullo sfondo altri colpevoli si intravedono, e di recente un nuovo dossier è stato consegnato agli inquirenti affinché svolgano ulteriori indagini. «Sarà valutato con grande attenzione e pari riservatezza», annuncia il procuratore aggiunto di Bologna. Si vedrà. Le piste alternative degli ultimi anni (compresa quella palestinese legata al gruppo terroristico che guardava a Est guidato da Carlos) sono state archiviate perché costruite su indizi rivelatisi troppo labili. E in generale è auspicabile che si proceda con cautela e diligenza, perché pure sul processo approdato alle tre condanne definitive rimangono dubbi e sospetti sulla genuinità delle prove; a cominciare dalla confessione dell’informatore che «inchiodò» Mambro e Fioravanti.
Tutto questo pesa su una strage di cui gli italiani continuano a sapere troppo poco. Non solo per colpa loro: anche per i più informati restano troppe zone d’ombra. E restano le storie delle vite saltate in aria il 2 agosto di 35 anni fa. Come quella di un’altra giovane vittima: Mauro Di Vittorio, 24 anni, romano simpatizzante dell’estrema sinistra, recentemente tirato in ballo da qualche «revisionista» come ipotetico complice della trama medio-orientale. L’ultimo provvedimento di archiviazione l’ha del tutto scagionato. Sua sorella Anna e il marito Giancarlo (amico di Sergio Secci, stessa età di Mauro, ferito nell’esplosione e morto dopo 5 giorni di agonia) continuano a studiare le carte giudiziarie per difenderne pubblicamente la memoria violata.