Eugène Viollet-le-Duc, l’uomo che reinventò il Medioevo, di Federico Fioravanti

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 16 /07 /2017 - 22:59 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito Festival del medioevo http://www.festivaldelmedioevo.it/, per gentile concessione del sito stesso, un articolo di Federico Fioravanti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia ed in particolare la sotto-sezione Basso medioevo.

Il Centro culturale Gli scritti (16/7/2017)

Una chimère, opera di Eugène Viollet-le-Duc a Notre Dame de Paris

Il volto della Francia medievale cambiò per sempre, a partire dalla prima metà dell’Ottocento.

Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc (1814-1879), enciclopedico architetto, storico dell’arte, formidabile disegnatore, archeologo e restauratore, scrittore di talento, acquarellista e molte altre cose ancora, in meno di quaranta anni, dal 1835 al 1870, fu il testardo e geniale protagonista di una gigantesca operazione di restauro di cattedrali, palazzi, castelli e città.

Ridisegnò il passato. E lo fece a modo suo, attraverso uno studio maniacale delle fonti storiche.

Creò uno stile gotico, nazionale, figlio dello spirito del tempo, quando la Francia cercava solide fondamenta di una nuova identità nazionale.

Distrusse e ricostruì. Catalogò, senza sosta. Aggiunse e rimodellò. Trasformò, fin quasi a stravolgere. Spesso, alla ricerca della “forma perfetta”, arrivò a reinventare gli edifici di sana pianta.

L’esito dei suoi restauri divise i contemporanei. E ancora oggi fa discutere. In ogni caso, Viollet-le-Duc ebbe un merito incontestabile: riuscì a salvare dall’oblio e dalla decadenza un immenso patrimonio di bellezza.

Quel suo sogno di pietra, con tutto il suo straordinario bagaglio di torri e chimere, ponti levatoi, pitture policrome e mazze piombate, guglie, decorazioni, “gargoyles”, mostri, mura, favolosi uccelli e altri ibridi animali, ha ripopolato quei monumenti. E adesso abita, in modo stabile, anche nel nostro immaginario collettivo.

Carcassonne

Un Medioevo immaginato È un Medioevo falso e insieme meraviglioso che ormai sembra più vero di quello reale. Lo riscopriamo a Parigi, nella cattedrale di Notre-Dame, nella grande basilica di Saint-Denis oppure all’interno della celeberrima Sainte-Chapelle. Riemerg e, imponente, dentro e fuori le cattedrali, di Vézelay, Amiens, Chartres, Poissy, Évreux, Amboise e Clermont-Ferrand. Riappare a Laon e nella basilica di Saint-Sernin di Tolosa, fascinosa tappa del cammino che porta i pellegrini a Santiago di Compostela. Stupisce, con tutta la sua forza evocativa, i turisti che in Linguadoca affollano la cittadella medievale di Carcassonne o che percorrono i centri storici di intere città: Chartres, Narbonne, Tolosa, Reims e Amiens, fino al piccolo municipio pirenaico di Saint-Antonin-Noble-Val.

Possiamo ammirarlo ancora nella chilometrica cinta muraria fortificata di Avignone e in alcuni straordinari castelli: a Pierrefonds, la dimora imperiale di Napoleone III interamente ricostruita nella Francia settentrionale, nel gioiello bordolese di Roquetaillade, a Coucy in Piccardia, e nel cuore dei Paesi baschi, davanti all’immagine dello Chateaux d’Abbadie.

Viollet-le-Duc fotografato in tre pose diverse da Félix Nadar

Le discussioni sulle rovine

Eugène spese la sua vita a reinventare il passato. Fu osteggiato e esaltato, deriso ma anche copiato. Il suo cognome diventò addirittura un modo di dire: l’espressione “fare alla Viollet-le-Duc”, indicava un arbitrio, seppure riuscito.

Dalla metà del XIX secolo ad oggi, la sua gigantesca opera di recupero dei monumenti medievali fa ancora discutere. Perché oggi, come allora, è in ballo il rapporto che abbiamo con le rovine e con la storia che ci ha preceduto.

I romani imitavano e trasformavano l’arte greca. Così facevano, rispetto a Roma, anche i sudditi di Carlo Magno. L’arte antica era oggetto di restauro anche in quegli anni fecondi di bellezza che abbiamo voluto definire Rinascimento. In oriente, alla stessa maniera, operavano i bizantini con le piccole e grandi meraviglie dell’arte tardo antica.

La svolta arrivò con il Romanticismo. L’idea di Nazione cambiò il modo di intendere il restauro. Gli stati cercavano una comunanza geografica, una lingua comune, dei confini definiti e radici condivise. La ricerca di una identità passò anche attraverso l’arte e l’architettura. Così, anche il passato, mutò il suo volto. Diventò un passato prossimo, quello più vicino all’idea di nazione nascente.

Poco importava se la storia è stata e sarà sempre sovrapposizione di molti passati, confusi, mescolati e diversi. Se ne scelse uno, a discapito degli altri: un Medioevo da riscoprire e, spesso, nel caso di Viollet-le-Duc, da reinventare.

Il castello di Roquetallaide in Aquitania

La riscoperta del passato In Inghilterra le chiese e i castelli medievali disabitati furono riscoperti e studiati già nella seconda metà del Settecento. Nelle classi colte e tra i viaggiatori, si affermò il mito del Gotico come un retaggio profondo dell’antichità nazionale.

All’alba del Romanticismo, il Medioevo iniziò ad essere percepito in modo diverso in tutta Europa. A partire dal ciclo di Ossian del poeta scozzese James Macpherson fino alle pitture di William Blake e ai romanzi storici di Walter Scott. Tornarono di moda le epopee popolari: nei paesi tedeschi il “Canto dei Nibelunghi”, in Spagna “Il poema del mio Cid”, in Inghilterra il “Beowulf” e in Francia “La Chanson de Roland”.

Nel revival medievale vittoriano l’Età di Mezzo tornò ad essere anche un modello di riforma della società. Nel campo dell’architettura lo scrittore, poeta, pittore e critico d’arte britannico John Ruskin (1819-1900) trovò nella cattedrale gotica un modello etico ed insieme estetico. E dopo la ricostruzione del palazzo di Westminster a seguito di un incendio (1834) il gotico fu assunto come stile nazionale inglese.

ll nuovo gusto per le antichità medievali in Francia si diffuse in modo più lento. Un conte normanno, Arcisse de Caumont, coinvolse l’elite colta nel recupero degli antichi monumenti. Arrivò a ricostruire la struttura delle fortezze normanne in base alla tappezzeria dell’Arazzo di Bayeux. E iniziò un grande lavoro di documentazione di case, castelli, fortezze e monasteri.
François Guizot, primo ministro con Luigi Filippo d’Orleans, adottò misure pratiche per recuperare il patrimonio archeologico francese.

Nel 1831, a Parigi, fu inaugurato il Musée de Cluny. Nacque anche una nuova figura di difensore della cultura nazionale: l’ispettore dei monumenti storici.

Estetica o Storia?

Nell’età romantica, la riflessione sul restauro si spaccò intorno a due opposte teorie rappresentate da Ruskin e Viollet-le-Duc. Per Ruskin l’edificio somiglia a un organismo vivente: nasce, cambia, muore. E il tempo può solo aumentarne il fascino. In un edificio, la storia quindi conta più dell’estetica. Restaurare, allora, è un atto immorale. Anzi, sostituire l’originale con una copia “è la peggiore delle distruzioni”. Cosa fare quindi di fronte a un monumento in rovina? La ricetta, al posto del restauro, come scriveva William Morris è soltanto “la tutela (…) per evitare il degrado attraverso cure giornaliere”.

La tesi di Viollet-le-Duc era opposta: il restauratore deve mettersi nei panni dell’architetto originario, penetrare nella sua mentalità. E attraverso uno studio rigoroso delle fonti, ricostruire il momento storico nel quale l’opera venne pensata.

Nel “Dictionnaire raisonnè d’architecture” scrisse: “Restaurare un edificio non è affatto mantenerlo, ripararlo o rifarlo, è il ristabilirlo in uno stato completo che può non essere mai esistito in nessun momento”. Il suo era un restauro “di ripristino”: l’obiettivo era quello di riportare il bene culturale alla sua condizione iniziale, quella che ne aveva caratterizzato la nascita.
Così venivano cancellati tutti gli interventi posteriori e i loro segni, per ridare all’edificio una sua “unità stilistica”. È quindi lecito integrare e colmare le lacune dovute al degrado dell’opera, recuperando le parti mancanti o aggiungendone altre da opere dello stesso periodo.

Al contrario di Ruskin, in Viollet-le-Duc l’estetica prevale sulla storia. Eugène fu il primo architetto a operare in maniera scientifica nel campo del restauro. Tutta la sua concezione teorica si fondava su una regola: “documentare il passato” per poi interpretarlo. Allora l’architettura gotica non ha niente di misterioso. Per Eugène la razionalità doveva innervare l’architettura, in una continua ricerca della bellezza. E l’uso dei nuovi materiali, soprattutto il ferro, diventava determinante per la funzionalità e l’estetica dell’opera da restaurare.

Autodidatta per scelta Eugène Viollet-le-Duc si faceva vanto di non appartenere a nessuna accademia. Era insofferente e ipercritico verso tutti i “si dice”. Aveva però una fede forte, figlia dei tempi: quella, tutta positivistica, nelle scienze sperimentali. Credeva che l’esperienza, la letteratura e i viaggi servissero più della scuola.

Tutta la sua vita fu improntata a queste convinzioni. Sognava la gloria come architetto. Ma ripeteva che i concorsi erano utili solo a coprire il “vuoto dei programmi didattici”. Di conseguenza, snobbava l’École des Beaux-Arts, la migliore scuola d’architettura d’Europa: la considerava poco più di un diplomificio, “popolato da parassiti”. Per lui il talento non aveva bisogno di professori.

Per scelta, fu quindi un autodidatta. Ma poteva permetterselo. Abitava alle Tulieries, dove suo padre era curatore delle residenze reali di Luigi Filippo I. Sua madre, Elizabeth Delécluze Eugenie, era figlia dell’architetto Jean-Baptiste Delécluze. E nella casa parigina di suo zio, il pittore e letterato Étienne-Jean Delécluze, allievo di David, ogni domenica si riunivano alcuni tra i più noti intellettuali del tempo. Un autentico circolo letterario. In quegli appuntamenti settimanali, in rue Chabanis 1, teneva banco, tra gli altri, il grande Stendhal, autore de “Il rosso e il nero” e della “Certosa di Parma”.

Un altro amico di famiglia era Prosper Mérimée, l’autore di “Carmen”, poi musicata da Bizet. Lo scrittore, cultore dell’arte gotica e dei romanzi di Walter Scott, tra l’altro, aveva uno stretto rapporto con la madre dell’imperatrice Eugenia, la moglie spagnola di Napoleone III. La sua conoscenza fu determinante per Viollet-le-Duc. Mérimée nel 1834 fu nominato Ispettore generale dei Monumenti storici: per quattro anni, lo scrittore si trasformò in archeologo e storico dell’arte.
Visitò la Francia in lungo e in largo per catalogare l’immenso patrimonio artistico del paese. E all’inizio del 1840 produsse una lista di 1034 monumenti da strappare alla distruzione e all’oblio. Lo stesso anno chiamò con sé Viollet-le-Duc e gli affidò il restauro della Basilica di Vézelay.

La scoperta del Bel Paese

Eugène, nel frattempo, fedele ai suoi principi, si era formato senza professori. Prima studiando architettura in modo quasi maniacale nella fornitissima biblioteca paterna. Poi viaggiando, dal nord al sud del suo paese, insieme allo zio materno, che gli faceva da professore. Disegnando, con una tecnica raffinatissima, una infinità di schizzi. E continuò a farlo per tutta la vita.

Quando il re, nel 1835, pagò una forte somma per un suo acquarello dedicato alle Tulieries, Viollet-le-Duc impiegò quel denaro per un lungo viaggio di formazione in Italia. Fu una esperienza fondamentale: osservò e studio direttamente i monumenti, applicando all’architettura il metodo analitico delle scienze storiche e delle scienze naturali.

Rimase nel Bel Paese per 18 mesi: visitò Genova, Napoli, la Sicilia, Pompei, Firenze, Pisa, Assisi, Padova, Venezia, Siena e Roma. Si entusiasmò di fronte alla Cappella Sistina. Produsse quasi 450 disegni. E non dimenticò mai quello che aveva visto.

L’anno dopo, in Francia, riversò le sue esperienze nel suo primo grande lavoro, nella Sainte-Chapelle di Parigi, per la quale realizzò le inconfondibili vetrate. Viollet-le-Duc, come architetto, seguì pochissimi nuovi progetti. La sua frenetica attività di restauratore si fondò su una formidabile conoscenza della civiltà del Medioevo francese, consolidata dall’esperienza diretta dei luoghi, dei monumenti e delle fonti letterarie e iconografiche.

La basilica di Sainte-Marie-Madeleine a Vézelay

I capitelli di Vézelay

Eugène Viollet-le-Duc, aveva soltanto 26 anni quando ricevette da Prosper Mérimée, ispettore generale dei monumenti storici, l’incarico di coordinare i restauri della splendida basilica di Sainte-Marie-Madeleine a Vézelay.

I lavori durarono 20 anni. La chiesa, di impianto romanico con aggiunte gotiche, risaliva al 1096. Nel 1120, dopo un disastroso incendio, la navata centrale venne ricostruita e coperta da una volta a botte, scandita in campate da archi a tutto sesto in conci neri e bianchi. L’abside gotica (1180 circa) riprendeva il modello dell’abbazia parigina di Saint-Germain-des-Près. L’architetto sostituì i sette capitelli originali della navata con altri, realizzati da Michel Pascal in stile conforme a quello medievale, su disegno dello stesso Viollet-le-Duc.

Il capitello di Giuditta 
e Oloferne a Vézelay

Ma in un capitello, al posto di una sirena, fece scolpire una Giuditta nell’atto di decapitare Oloferne: una scena mai raffigurata prima in nessuna scultura romanica in Borgogna. Una scelta forse politica. Nel capitello, Giuditta tiene sollevata la testa della sua vittima: l’immagine ricorda il periodo della Rivoluzione e l’uso frequente della ghigliottina. E in quegli anni Charlotte Corday, la donna che aveva assassinato Marat, simbolo dei repubblicani, veniva paragonata all’eroina biblica. Il tema fu ripreso da David in un celebre quadro. L’omaggio poco “medievale” al tirannicidio e quindi alla repubblica fu fermato sulla pietra del capitello di Vézelay. Il giovane Viollet-le-Duc, in cuor suo, era ancora repubblicano. Diventerà monarchico negli anni seguenti, con l’avvento di Napoleone III e del Secondo Impero.

[N.B. de Gli scritti Anche il famoso capitello con Giuda e il buon pastore sembrerebbe essere un'opera di Viollet-le-Duc]

Eugène, dopo accuratissimi studi sull’arte romanica, nel 1856 sostituì anche il timpano originale della facciata della basilica, che era danneggiato in modo irreparabile. Scelse il tema del Giudizio universale: un Cristo in gloria separa i beati dai dannati mentre il diavolo si stringe vicino a San Michele, impegnato nella pesatura delle anime. L’effetto è sorprendente: un capolavoro dell’arte medievale ricostruito 700 anni dopo.

Notre Dame de Paris prima del restauro di Viollet le Duc

Venti anni a Notre-Dame

La grande cattedrale, allora come oggi, era il simbolo di Parigi. Ma dopo le spoliazioni della Rivoluzione era diventata il terreno di battaglia di continui atti vandalici e cadeva letteralmente a pezzi.

Per celare il degrado allo sguardo dei fedeli e dei cittadini si arrivò a coprire le pareti della navata con le bandiere che la Grand Arméé riportò trionfante dalla battaglia di Austerlitz, orgoglio della nazione e momento più alto dell’età napoleonica. Si formò, tra le polemiche, un movimento di opinione che propose di abbattere la struttura.

In prima fila per salvare la cattedrale c’era lo scrittore Victor Hugo che da poco aveva pubblicato il suo romanzo “Notre-Dame de Paris” (1831). Petizioni ed appelli si susseguirono. Finché Luigi Filippo, nel 1842, ufficializzò con un atto del governo la volontà di dare il via al restauro.
I lavori durarono più di venti anni. Nei primi dodici, il ventottenne Viollet-le-Duc fu affiancato dal più esperto Jean-Baptiste Lassus.

Nel grande cantiere, Eugene intraprese ogni tipo di sperimentazione. Ripristinò sia i muri portanti che lo straordinario apparato scultoreo.

Nel rifacimento della sacrestia vennero impiegati alcuni tra i principali maestri di scalpello e orafi parigini, come Durand, Monduit e Geoffroy-Dechaume, che negli anni seguenti lavoreranno ancora con Viollet-le-Duc nel recupero della cappella di Saint Denis. Molte figure dei tre portali della facciata furono rifatte ex novo.

La guglia di Notre-Dame e l’angelo del Giudizio Universale (©musée d’Orsay)

La serie dei “Re di Giuda”, distrutta durante la Rivoluzione, fu ricostruita per intero. Le lunette scalpellate vennero completate. Cambiarono i paramenti. Pinnacoli e contrafforti furono sostituiti. I più abili vetrai di Francia furono coinvolti per riprodurre l’affascinante policromia dei tre grandi rosoni.

Il restauro di Notre Dame in stile gotico fu così capillare e presentò così tanti cambiamenti rispetto alla chiesa medievale che perfino Napoleone III, ad un certo punto, si allarmò. Nel maggio 1856, l’imperatore confidò, con aplomb regale, le sue paure a Prosper Mérimée: ”Sembra che Viollet-le-Duc, distruggerà Notre Dame…”.

Era, più o meno, quello che temeva la maggioranza dei parigini. Soprattutto quando si cominciò a parlare di una guglia che prima non c’era. Una freccia di ghisa alta 45 metri e pesante 750 tonnellate, innalzata verso il cielo, proprio all’incrocio tra la navata principale e il transetto. Oltretutto lontanissima dai modelli del XIII secolo: per la sua realizzazione Viollet-le-Duc si ispirò alla “flèche” ottocentesca della cattedrale di Orléans.

La statua di San Tommaso con il volto di Viollet-le-Duc

La statua di Eugène

La freccia fu affiancata da quattro gruppi di statue in rame realizzate da Adolphe-Victor Geoffroy-Dechaume: raffigurano i dodici apostoli e i simboli dei quattro evangelisti. Tutte guardano verso la città. Solo una, quella di San Tommaso, ha lo sguardo rivolto verso la guglia. Ma il volto dell’apostolo che per credere veramente voleva toccare con mano, è quello di Eugène Viollet-le-Duc: l’architetto ammira, con orgoglio, la sua opera più controversa.

Ibridi e fantastici animali abitano Notre-Dame: “chimere” e “gargouilles”, 54 “mostri” di pietra distribuiti sui tetti e lungo la facciata della cattedrale. Per conoscere da vicino “les gargouilles” che dall’alto scrutano Parigi bisogna salire i 387 scalini della torre nord. La visione stupisce ogni volta: demoni con unicorno, cormorani, arpie, gatti-pantere, leopardi, orsi, cani rabbiosi, basilischi

La parola che indica queste singolari figure è onomatopeica e deriva dal latino gurgulium: “glugluglu” rimanda al suono delle acque che scendono dai tetti verso gli scoli, attraverso le gronde i condotti idraulici. Gargouille in francese, gargoyle in inglese. In italiano, doccione, la parte terminale del sistema di scarico dell’acqua piovana che si protende da un cornicione o da un tetto e fa defluire l’acqua lontano dai muri.

Anonimi artisti medievali crearono ogni tipo di gargouilles, ispirandosi al mitico universo dei bestiari come il Physiologus, il libro illustrato che riportava le singolari figure di animali di terre sconosciute e lontane.

Viollet-Le-Duc li volle nella “sua cattedrale”. E replicò alle critiche di chi voleva rimuoverli. Nel “Dictionnaire raisonné de l’architecture”, alla voce “Gargouille” spiegò che i primi doccioni fecero la loro comparsa, già in forma di animali fantastici, nel 1220 nella cattedrale di Laon, in Piccardia. La fede popolare attribuiva loro il ruolo di “guardiani” dei luoghi sacri insidiati dalla forza del Maligno. In qualche modo, Viollet-le-Duc, con il suo restauro testimoniò questa funzione: aumentò il numero dei doccioni per dividere e ridurre la portata dell’acqua piovana e preservare Notre Dame dal degrado.

La costruzione delle prime “chimere”, figlie anch’esse di un Medioevo immaginato, iniziò già nel 1843, in contemporanea con gli altri lavori che affollavano il grande cantiere.

Freud e le chimere

Il falso storico ci appare come vero: i secoli, il vento e la pioggia hanno levigato i materiali ottocenteschi e li hanno amalgamati. Così, Medioevo e tempo si confondono. Lo stesso accade ai moderni viaggiatori, storditi di fronte alla visione dei “mostri”, le ibride creature di pietra appollaiate sulla facciata di Notre-Dame. Le chimere osservano dall’alto lo scorrere lento della Senna e della Storia.

A differenza delle “gargouilles”, non hanno nessun carattere pratico: per l’idea gotica di Viollet-le-Duc l’ornamento e la struttura fanno parte della stessa idea unitaria di progetto architettonico.
Lo storico americano Michael Camille nel saggio “Les Gargouilles de Notre Dame – De Quasimodo à Dracula” dà una lettura particolare degli intendimenti dell’architetto parigino: Viollet-Le-Duc, colpito dalla rivolta popolare del 1848, dissimulava in quelle figure le sue ossessioni borghesi. Ecco che allora la figura del “Roditore, il mostro canino che azzanna la sua preda” ricorda l’operaio che addenta il suo misero panino nelle pause del cantiere, insieme alla disperazione delle migliaia di persone giunte a Parigi dalla provincia, in cerca di un lavoro. E il “Cerbero a tre teste” è la paura del futuro di una classe sociale privilegiata davanti all’avanzata dei movimenti popolari e delle nuove idee che scuotono l’Europa.

La più famosa delle chimere è la Stryge, spirito maligno che vive solo di notte, presente in molte leggende che vengono dall’Oriente.

Figure inquietanti, dai tratti spesso ironici. Sogni di pietra, come il Medioevo immaginato di Viollet-le-Duc. Custodi del passato, di un tempo perduto. Spesso simili a incubi o a paure da esorcizzare.

Non è un caso che Sigmund Freud avesse scelto la grande balaustra che attraversa la facciata ovest di Notre-Dame come spazio privilegiato delle sue meditazioni, nei quattro mesi, fra l’ottobre 1885 e il febbraio 1886, quando, grazie ad una borsa di studio, si trasferì a Parigi per seguire le lezioni del neurologo Jean-Martin Charcot, il precursore degli studi sull’isteria. L’ultima chimera fu collocata sulla facciata della cattedrale nel 1864: la simbolica cerimonia concluse ufficialmente i lavori del grande cantiere.

La cittadella fortificata di Carcassonne

La sfida di Carcassonne

La prova d’autore di Viollet-le-Duc si realizzò a Carcassonne, la meravigliosa cittadella fortificata edificata su una collina nel sud-ovest della Francia, tra Narbonne e Tolosa. La città, con la sua doppia cerchia di mura e le sue 53 torri, dal 1997 compare nella lista dei Patrimoni dell’umanità dell’Unesco. Ma nella prima metà dell’Ottocento versava in uno stato pietoso: le torri e le case cadevano a pezzi e la popolazione si era trasferita da tempo nella città bassa. Il governo pianificava la totale distruzione della Cité.

Prosper Mérimée, ispettore generale dei monumenti storici, lottò a lungo per cambiare un destino che appariva segnato. Ci riuscì e affidò il restauro a Viollet-le-Duc, che già dal 1844 seguiva i rifacimenti della chiesa di Saint-Nazaire e aveva studiato il sito archeologico con l’aiuto di rilievi topografici e centinaia di schizzi e di appunti sulla storia medievale dei luoghi.

Il complicato restauro iniziò nel 1853, grazie a un finanziamento imperiale. Eugène non vide mai la fine dei lavori, che si interruppero più volte per mancanza di denaro e terminarono addirittura 57 anni dopo, nel 1910. Il risultato divide ancora la critica. Il restauro, in senso stretto riguardò soltanto il 30 per cento degli edifici, con il castello, la cattedrale di Saint-Nazaire e l’omonima porta fortificata.

Anche perché Viollet-le-Duc per valorizzare la bellezza delle due cinte fortificate, fece spazzare via tutte le miserabili abitazioni che nel corso dei secoli erano state costruite addosso alle mura. La sua prima preoccupazione fu quella di salvare le torri.

Insieme alle tante merlature fece ricostruire le coperture coniche dei tetti con l’ardesia utilizzata a piene mani nei castelli del nord ma sconosciuta nel sud del Paese. Replicò alle durissime critiche sostenendo di aver trovato nella città diroccata dei resti di ardesia. E affermò che secondo i suoi studi, dopo la crociata contro gli albigesi e la conquista di Simone di Monfort, buona parte di Carcassonne venne ricostruita ad imitazione delle città fortificate della Francia settentrionale.

Lo sviluppo delle ferrovie, nell’arco di qualche decennio determinò la fortuna turistica della città: i più ricchi iniziarono ad arrivare già prima dello scoppio della Grande Guerra. Oggi, ogni anno, la città accoglie due milioni di visitatori ansiosi di perdersi, come Viollet-le-Duc, in un Medioevo che forse non è mai esistito ma che fa ancora sognare.

Il castello di Pierrefonds. Fu restaurato tra il 1857 e il 1885

Il castello di Pierrefonds

Ma il restauro più discutibile e traumatico di Viollet-le-Duc fu quello esteticamente perfetto che interessò il castello di Pierrefonds, a nord di Parigi, sul confine nord-orientale della foresta di Compiègne: un’imponente struttura del tardo Trecento, ricostruita, dopo alterne vicende, su un antico edificio che risaliva al XII secolo, e poi distrutta, nel 1617, per ordine di Richelieu.

Per più di due secoli il castello rimase diroccato. Finché Napoleone Bonaparte nel 1810 lo acquistò per poco meno di 3.000 franchi. Pierrefonds era il castello che l’immaginazione di Alessandro Dumas “regalò” a Porthos, il più forte e estroverso de “I tre moschettieri”.

Nel XX secolo, quella “romantica rovina” tornò di moda. Tanto che nel 1832 fu sede di un banchetto reale in occasione delle nozze del primo re del Belgio Leopoldo di Saxe Cobourg-Gotha con Louise, figlia di Luigi Filippo, sovrano di Francia fino all’insurrezione del 1848. Camille Corot, grande paesaggista, ambientò tra i ruderi molti dei suoi quadri. E il ministero della Cultura francese nel 1848 lo classificò come “monumento storico”.

Napoleone III ne rimase folgorato. Chiese a Viollet-le-Duc di dare il via al restauro nel 1857. All’inizio solo per rendere di nuovo abitabile il mastio e gli ambienti circostanti. Ma poi volle che fosse interamente ricostruito per destinarlo a residenza imperiale dove poter esporre la sua famosa collezione di armi e di armature. I lavori costarono 5 milioni di franchi. Sei anni dopo la morte di Viollet-le-Duc vennero bloccati. E la decorazione delle stanze non fu mai finita.

La ricostruzione diventò presto un fatto di “grandeur”: Viollet-le-Duc scrisse che l’obiettivo dei lavori era “dimostrare la superiorità della architettura dei castelli militari francesi nell’età medievale”. L’architetto lasciò spazio alla sua fantasia soprattutto negli ambienti interni. Arrivò a progettare un monumentale camino decorato da statue gotiche che riproducevano i lineamenti delle dame di corte dell’imperatrice Eugenia.

Fece discutere il largo utilizzo del ferro come materiale da costruzione, insieme alle tecniche edilizie ben lontane da quelle dell’Età di Mezzo. La superstite muratura medievale servì però a costruire otto torri a cui l’architetto diede il nome di altrettanti mitici personaggi dell’antichità e del Medioevo che nel Trecento erano simboli dei valori propugnati dalla cavalleria: Artù, Giulio Cesare, Carlo Magno, Goffredo di Buglione…

Pierrefonds è un posto da visitare, quasi una sintesi emblematica dell’espressione usata dai numerosi detrattori del grande architetto: “faire a la Viollet-le-Duc”. L’apparato decorativo precede l’Art Nouveax ma le libertà filologiche continuano a scandalizzare i puristi impegnati nella ricerca di un “Medioevo autentico”.

Bocciato dagli studenti

Quando, alla fine del 1863, apparve a stampa il primo volume dei suoi “Entretiens sur l’architecture”, Eugène Viollet-le-Duc venne nominato professore di Storia dell’arte e di Estetica in quella “École des beaux-arts” che aveva tanto combattuto. Sembrava fosse arrivato il suo trionfo sugli accademici che tanto disprezzava. Non fu così: le critiche dei colleghi dopo la sua nomina e le fortissime proteste degli studenti, lo costrinsero alle dimissioni dopo appena sei lezioni. L’amarezza della sconfitta come professore fu addolcita da altri titoli e riconoscimenti. Tornò a viaggiare: visitò il Messico e gli scavi di Pompei.

L’ultima passione: il Monte Bianco

Nel 1868 lasciò la frenetica vita parigina per trasferirsi a Chamonix, sedotto dall’ultima, grandissima passione della sua vita: la montagna. Il Monte Bianco lo affascinava: lo studiò in modo minuzioso, come aveva fatto con l’arte medievale.

Ne analizzò l’immagine, la struttura geologica e la storia. Realizzò una affascinate carta topografica. Alla montagna maestosa dedicò centinaia di disegni ed acquarelli. E in un libro, “Le massif du Mont Blanc”, espose un folle e poetico progetto: “ristrutturare” la montagna per riportarla alla sua grandiosità primordiale, rimodellando quello che il tempo e la mano dell’uomo avevano rimosso.

Dalla sua personale “chimera” lo distrassero, a tratti, gli avvenimenti politici: nel 1870 tornò a Parigi, assediata dai prussiani, per sovrintendere alle opere di fortificazione della città per le quali coordinò il lavoro di 1200 uomini. Ma l’anno dopo, quando la Comune salì al potere, gli insorti lo costrinsero all’esilio. Dopo altri viaggi in Italia, lasciò l’amata Chamonix per andare a vivere a Losanna, dove si impegnò nel progetto di restauro della cattedrale. E in Svizzera si spense, il 17 settembre 1879.

Il dizionario della bellezza

Sir John Summerson (1904-1992), uno dei più importanti storici dell’architettura del Novecento ha scritto che in Europa “ci sono stati due supremi teorici della storia dell’architettura: Leon Battista Alberti ed Eugène Viollet-le-Duc”. Nei dieci volumi splendidamente illustrati del “Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XIme au XVIme siècle”, pubblicati tra il 1854 e il 1868, sono descritte in ordine alfabetico le tecniche costruttive e le tipologie dei diversi edifici: le cattedrali, i conventi, le cappelle e le cripte, insieme ai palazzi, ai mercati, alle mura e a castelli.

Un’altra opera enciclopedica, “Dictionnaire raisonné du mobilier français de l’époque carlovingienne à la Renaissance”, in 6 volumi (1858-1874), riassume i ricchissimi repertori delle antichità medievali. Nel saggio “Entretiens sur l’architecture” (1863-1872) Viollet-le-Duc affrontò invece la teoria e la storia dell’architettura.

L’appassionato studio per il Medioevo non si limitò al restauro e all’architettura. Ma si estese agli abiti, alle armi, ai mobili, agli strumenti musicali. Con Viollet-le-Duc nacque un gusto Neomedievale, che ispirò la costruzione dei nuovi edifici, delle nuove chiese e dei moderni castelli. Come il Sacré Coeur, il tempio parigino di Paul Abadie, edificato in uno stile romanico e insieme bizantino. O come un’altra Notre-Dame, quella de la Croix de Ménilmontant, pensata da Antoine Héret a Belleville.

Viollet-le-Duc influenzerà i lavori dell’architetto belga Victor Horta, precursore dell’Art Nouveau e Hector Guimard, isolato campione del Liberty, oltre che le primissime opere del catalano Antoni Gaudí. E ispirerà i basilari principi delle moderne architetture di Frank Lloyd Wright e della scuola di Chicago fino a Le Corbusier.

Pietre fascinose

Il rapporto con l’età medievale segnò la vita del grande architetto. Eugène scrisse in una sua pagina: “Esiste un fascino indefinibile che mi lega alle pietre con cui lavoro. Un fascino tanto vivo quanto sconosciuto, che al tempo stesso risulta essere segreto, intimo, muto”.

Il passato non esiste più. E nemmeno il Medioevo, non più espressione cronologica ma culturale. Piuttosto, tempo sospeso, fuga, specchio o alibi rispetto al tempo presente: un contenitore immaginario nel quale tutto può essere recuperato.

Duecento anni dopo, il Medioevo immaginato da Viollet-le-Duc sembra lontano anche dall’arbitrio. È più vicino e familiare.

Il suo sogno di pietra è ormai sognato da tutti. La singolare sensazione è descritta bene da Marcel Proust (1871-1922) in “Sodoma e Gomorra”: “Per il piccolo commerciante che, la domenica, va talvolta a visitare qualche edificio del “buon tempo andato”, a volte è proprio in quelli dove tutte le pietre sono del nostro tempo che ha maggiormente il senso del Medioevo”.