1/ Il tesoro che l’Africa sta buttando a mare. Il problema dei migranti visto dal vecchissimo Continente. Ecco quali sono le conseguenze economiche e sociali della perdita di una intera generazione che non farà più ritorno a casa, di Anna Bono 2/ “Restate in Africa per costruire un continente migliore”: appello dei Vescovi africani ai giovani. Una nota dell’Agenzia Fides 3/ Sono pochi i rifugiati nella massa degli immigrati, di Anna Bono
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1/ Il tesoro che l’Africa sta buttando a mare. Il problema dei migranti visto dal vecchissimo Continente. Ecco quali sono le conseguenze economiche e sociali della perdita di una intera generazione che non farà più ritorno a casa, di Anna Bono
Riprendiamo da Tempi (2/2016) un articolo di Anna Bono. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione.
Il Centro culturale Gli scritti (2/7/2017)
Dall’inizio del 2016 sono arrivati in Italia via mare, partiti dalla Libia e dall’Egitto, più di 23 mila emigranti irregolari. Nel mese di marzo gli sbarchi sono stati 9.600, contro i 2.283 del marzo 2015, circa 6 mila nella sola settimana dal 12 al 19 aprile. Come negli anni scorsi, si tratta soprattutto di ragazzi africani, maschi, di età compresa tra i 18 e i 32 anni. Molti sono ancora più giovani: l’organizzazione non governativa Save the Children stima che nel 2015 siano approdati in Italia almeno 12.300 minori non accompagnati. C’è chi considera i flussi migratori dall’Africa una invasione che va fermata, preoccupato per gli insostenibili costi economici e sociali che comporta. Per altri, al contrario, rappresentano il rimedio provvidenziale alla denatalità: e persino quantificano in decine di milioni, nei prossimi anni, gli immigrati necessari per salvare l’economia europea. Tante personalità politiche, religiose, del mondo della cultura, dello spettacolo dicono la loro, danno giudizi, chi evidenziando un aspetto chi un altro: spesso dimostrandosi in realtà incompetenti, a partire dal fatto di usare i termini emigrante, profugo e rifugiato come se fossero sinonimi.
Ma, che lo si giudichi una benedizione o un danno, in tutti i casi l’attuale fenomeno migratorio viene osservato e valutato dal punto di vista europeo. Quasi nessuno si interroga sulle conseguenze economiche e sociali, in Africa, della perdita incessante di risorse umane, le più preziose – una generazione di giovani che se ne va per non più tornare – e con scarse speranze che chi parte almeno contribuisca al mantenimento dei parenti rimasti a casa, perché sono pochi gli emigranti irregolari che possono sperare di trovare un lavoro, posto che lo desiderino, e abbastanza remunerativo da consentire di risparmiare e spedire del denaro ai familiari: certo non in Italia dove il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 40 per cento. Per di più gli emigranti che lasciano clandestinamente i loro paesi vanno incontro a grosse spese e a non pochi rischi. I trafficanti, per meglio dire, i contrabbandieri di uomini chiedono migliaia di dollari per organizzare l’espatrio e il viaggio lungo le rotte dall’Africa sub-sahariana all’Italia: in media 2.500 dollari per il percorso via terra fino al Mediterraneo e da 1.500 a 3.000 per il tratto via mare. Nei tratti terrestri gli emigranti rischiano di essere rapiti, derubati, arrestati e rimandati in patria. Infine c’è la traversata che può finire in un naufragio, se si è colti dal maltempo o se le imbarcazioni sono sovraccariche.
Ma la prospettiva è di una vita facile e sicura, una volta arrivati a destinazione. I trafficanti convincono a partire migliaia di giovani promettendo soldi, benessere, una sistemazione invidiabile. Molti se ne vanno contro il parere dei genitori, di nascosto, dando fondo ai risparmi. Altri invece vengono spinti dalle famiglie stesse, attratte dalla promessa di ricevere laute rimesse dai figli emigrati e, come qualche vicino di casa che in effetti riceve denaro da un parente residente all’estero, poter presto acquistare televisori, smartphone, biciclette e motorini, garantire ai figli piccoli, rimasti a casa, qualche anno di scuola in più, lasciare capanne e baracche per più confortevoli e salubri case in muratura. Ma succede sempre più di rado: di molti che emigrano si perde contatto, altri ritornano senza soldi e senza aver raggiunto la meta, aumentano le famiglie che piangono un figlio scomparso nel deserto o in mare.
L’appello dei religiosi
Le Chiese africane da tempo osservano con preoccupazione le conseguenze che l’emigrazione di massa produce. «Non permettete che delle false prospettive di ricchezza vi inducano a lasciare i vostri paesi in cerca di inesistenti impieghi in Europa e in America. Non cercate soluzioni ai vostri problemi lontano, ma lottate invece per costruire una società migliore in Africa», è stato l’appello rivolto ai giovani africani da monsignor Nicolas Djomo, vescovo di Tshumbe e presidente della Conferenza episcopale della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), in occasione della cerimonia di apertura dell’Incontro della gioventù cattolica panafricana svoltosi a Kinshasa, capitale della Rdc, dal 21 al 25 agosto 2015. «Utilizzate i vostri talenti e le altre risorse a vostra disposizione per rinnovare e trasformare il nostro continente e per la promozione di giustizia, pace e riconciliazione durature in Africa. Voi siete il tesoro dell’Africa. La Chiesa conta su di voi, il vostro continente ha bisogno di voi».
Anche i governi africani incominciano a preoccuparsi dei danni che derivano dall’emigrazione in generale, e più ancora da quella irregolare, anche se alcuni forse cercano più che altro di blandire chi giustamente li accusa di esserne responsabili: per la corruzione e il malgoverno che vanificano i traguardi economici raggiunti. Sta di fatto che tentano di correre ai ripari. “Il mio Eldorado è il Mali. Stop all’emigrazione irregolare”. Nelle strade della capitale Bamako nel 2014 sono comparsi grandi manifesti con questa scritta e l’immagine di una barca di emigranti in navigazione. Con lo slogan “Il mio Eldorado è il Mali”, il 27 febbraio 2014 il governo maliano, benché reduce dai postumi di un colpo di stato e, nel vasto nord, alle prese con le istanze secessioniste dei Tuareg e con la minaccia jihadista, ha varato una campagna contro l’emigrazione irregolare volta a informare la popolazione sul rischio di lasciare il paese ricorrendo ai trafficanti di uomini. «Il nostro governo – ha detto il ministro per i maliani all’estero Abdramane Sylla durante la cerimonia di presentazione della campagna – ha posto come suo obiettivo prioritario la lotta contro l’emigrazione irregolare».
Una campagna contro la tratta
Per quanto le rimesse svolgano un ruolo molto importante nell’economia nazionale – ha spiegato – tuttavia non rappresentano una soluzione: «La cultura dell’emigrazione deve finire. I cittadini del Mali devono fare di più per lo sviluppo del loro paese». Come in altre occasioni, il ministro Sylla ha poi espresso particolare preoccupazione per la sorte degli emigranti minorenni non accompagnati: bambini e adolescenti che sempre più spesso le famiglie mandano in Europa sapendo che, in quanto minori, non verranno espulsi dalle autorità: «Quei bambini percorrono la stessa rotta degli adulti e che passa attraverso Burkina Faso, Niger, Ciad e Libia e poi li attende il mare. Arrivano sulle coste europee del tutto traumatizzati. Dobbiamo punire chi li manda, li dobbiamo fermare». Dal 2014 una legge persegue i genitori che costringono i figli a partire per l’Europa.
Altri stati hanno seguito l’esempio del Mali. Nell’aprile del 2015 28 emigranti cristiani provenienti dall’Etiopia sono stati giustiziati in Libia dall’Isis. Nei giorni successivi il governo etiope ha promesso di moltiplicare gli sforzi per combattere il traffico di uomini e ha avviato a sua volta una campagna per informare la popolazione dei rischi dell’emigrazione irregolare attraverso il Mediterraneo e il Golfo di Aden. Un mese dopo, il ministero degli Interni annunciava l’arresto di 200 trafficanti. L’11 agosto 2015, intervistato dalla rivista New African, il primo ministro Hailemariam Desalegn ha esortato i propri connazionali a cercare finanziamenti e a investire in attività produttive in Etiopia invece di pagare i trafficanti per lasciare il paese: «Il problema – ha spiegato tra l’altro – è che spesso gli emigranti vengono illusi con false promesse».
Promesse mai mantenute
Anche in Niger il governo ha presentato una proposta di legge, approvata dal parlamento all’unanimità l’11 maggio 2015, che prevede per chi esercita traffico e tratta di uomini il sequestro dei veicoli, pene fino a 30 anni di carcere e multe da 4.500 a 45 mila euro. «Si tratta di proteggere il nostro territorio e le vite umane», ha detto presentando la legge ai parlamentari il ministro della Giustizia Marou Amadou, precisando che il governo non intende proibire l’emigrazione regolare.
Contro la tratta in particolare, che ogni anno porta in Italia come schiave centinaia di giovani donne destinate alla prostituzione, in Nigeria è in corso una campagna di informazione. Per mettere in guardia famiglie e ragazze, vengono usati dei manifesti affissi nelle strade. Uno, ad esempio, mostra in primo piano nella metà superiore un uomo e una donna e sullo sfondo un aereo in volo. «Ti trovo un lavoro in Italia», promette l’uomo. Sotto si legge a grandi lettere: «Diffida degli estranei che fanno offerte allettanti: un lavoro all’estero, un matrimonio… I trafficanti di uomini conoscono molti trucchi. Rifiuta!».
Uno dei governi più attivi e si direbbe realmente preoccupati è quello del Senegal, da cui partono ogni anno migliaia di giovani. Nel corso di una conferenza sull’emigrazione svoltasi nella capitale Dakar il 20 aprile 2015, il segretario di Stato e ministro Souleymane Jules Diop ha annunciato l’imminente rimpatrio di quasi 400 connazionali individuati con l’aiuto della Croce Rossa in Libia e ha assicurato l’impegno prioritario del suo governo di riportare in patria tutti i senegalesi all’estero che si trovano in difficoltà. «Quasi ogni giorno uomini, donne e bambini partono attratti da una speranza che alla fine si dimostra nella maggior parte dei casi solo una illusione», ha dichiarato. «Migliaia di giovani muoiono nel mare Mediterraneo e dei gruppi organizzati di criminali continuano a organizzarne la morte per qualche migliaio di dollari o di euro. Stiamo perdendo la forza lavoro necessaria a costruire il nostro paese». Il ministro Diop ha concluso richiamando «famiglie, genitori e guide religiose al loro senso di responsabilità affinché si impegnino a far capire ai loro figli e ai loro fedeli che in Europa non c’è più niente da fare, non vale la pena andare».
«Tutti abbiamo visto in televisione gli europei parlare della crisi economica che ha colpito il loro continente. Eppure ci sono ancora famiglie che pagano per mandare figli e figlie a morire nel Mediterraneo», con queste parole il presidente del Gambia, Yahya Jammeh, il 15 maggio 2015 commentava il numero crescente di connazionali morti in mare e restituiti al paese dentro a una bara. «Ci sono dei genitori a cui non importa come i figli si guadagnano da vivere in Europa, basta che mandino a casa del denaro». «Non si comporterebbero così – aveva concluso – se fossero dei veri musulmani» (quasi il 96 per cento degli abitanti del Gambia sono di fede islamica).
Fermiamo la fuga dei giovani
Ultimo in ordine di tempo, il governo della Somalia il 19 aprile 2016, due giorni dopo che decine di connazionali avevano perso la vita in un naufragio al largo delle coste egiziane, ha proibito ai propri cittadini di recarsi in Sudan. «Vogliamo impedire che i giovani somali compiano il pericoloso viaggio verso l’Europa», ha spiegato il capo dell’immigrazione Abdullahi Gafow. «D’ora in poi solo le missioni diplomatiche saranno autorizzate ad andarci». Il Sudan è attraversato dalle due rotte migratorie che partono dal Corno d’Africa e dall’Africa orientale: quella diretta in Libia e quella che raggiunge il Sinai e di lì le coste mediterranee dell’Egitto. Sono utilizzate soprattutto dagli emigranti che lasciano Somalia, Etiopia ed Eritrea.
Ma il divieto di andare in Sudan da solo non basta. Piuttosto, farà salire il prezzo da pagare per uscire dal paese clandestinamente. D’altra parte il governo somalo a stento controlla la capitale Mogadiscio e parte del territorio nazionale e solo grazie ai 22 mila soldati e agenti di polizia della Amisom, la missione militare dell’Unione Africana che ha fermato i jihadisti al Shabaab, ma non impedisce loro di mettere a segno continui attentati persino nella capitale. Con gli eritrei, vittime di una delle peggiori dittature del pianeta, i somali, nella morsa di un governo corrotto oltre ogni immaginazione e di una feroce milizia jihadista, sono tra i pochi africani che possono chiedere asilo politico con la speranza di ottenere lo status di rifugiato.
2/ “Restate in Africa per costruire un continente migliore”: appello dei Vescovi africani ai giovani. Una nota dell’Agenzia Fides
Riprendiamo una nota dell’Agenzia Fides del 24/8/2015 a firma L.M. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (2/7/2017)
Kinshasa (Agenzia Fides)
“Non fatevi ingannare dall’illusione di lasciare i vostri Paesi alla ricerca di impieghi inesistenti in Europa e in America”. È l’appello lanciato da Mons. Nicolas Djomo, Vescovo di Tshumbe e Presidente della Conferenza Episcopale della Repubblica Democratica del Congo, ai giovani africani perché non cerchino soluzioni ai loro problemi al di fuori del proprio Paese ma invece lottino per costruire una società migliore.
Mons. Djomo ha lanciato il suo appello nel discorso di apertura della riunione della Gioventù Cattolica Panafricana che si tiene a Kinshasa dal 21 al 25 agosto.
“Guardatevi dagli inganni delle nuove forme di distruzione della cultura di vita, dei valori morali e spirituali” ha detto Mons. Djomo. “Utilizzate i vostri talenti e le altre risorse a vostra disposizione per rinnovare e trasformare il nostro continente e per la promozione della giustizia, della pace e della riconciliazione durature in Africa”.
“Voi siete il tesoro dell’Africa. La Chiesa conta su di voi, il vostro continente ha bisogno di voi” ha rimarcato il Vescovo.
Secondo un comunicato inviato all’Agenzia Fides alla riunione, organizzata dal Simposio delle Conferenza Episcopali di Africa e Madagascar (SECAM/SCEAM), hanno partecipato 120 delegati provenienti da Gabon, Zimbabwe, Ghana, Sudafrica, Botswana, Swaziland, Egitto, Congo, Kenya, Uganda, Camerun.
In un messaggio letto a nome del Segretario Generale del SECAM, P. Joseph Komakoma, Direttore delle Comunicazioni del SECAM, ha sottolineato che tra gli obiettivi della riunione vi sono il coinvolgimento della gioventù africana nelle celebrazioni dell’Anno Africano della Riconciliazione (dal 29 luglio 2015 al 29 luglio 2016); la creazione di un’organizzazione panafricana dei movimenti d’azione cattolica dei giovani e dei bambini; l’eventuale possibile organizzazione di una Giornata Mondiale della Gioventù Africana.
Ricordando che il 70% della popolazione africana è composta da giovani, p. Komakoma ha concluso affermando che “i giovani sono la parte più importante della popolazione sulla quale la Chiesa conta in modo prioritario per l’evangelizzazione e la promozione della pace, della giustizia, della riconciliazione e dello sviluppo del nostro continente”.
3/ Sono pochi i rifugiati nella massa degli immigrati, di Anna Bono
Riprendiamo da La Nuova Bussola Quotidiana del 25/11/2016 un articolo di Anna Bono. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (2/7/2017)
L’Italia non è un paese per rifugiati. Sono pochi quelli che chiedono asilo nel nostro paese. Lo dicono i numeri. Nel 2015, anno in cui i profughi hanno raggiunto la cifra record globale di 65,3 milioni, si sono messe in salvo oltre i rispettivi confini nazionali 16,1 milioni di persone, 1,7 milioni in più che nel 2014, ma solo 3.555 hanno raggiunto l’Italia. Tante sono state infatti nel 2015 le richieste di asilo accolte, su 71.117 esaminate, circa il 5%, e su un totale di 83.970 richieste presentate. Rispetto agli sbarchi, che nel 2015 sono stati 153.842, il numero delle persone che hanno ottenuto lo status di rifugiato è stato pari al 2,3%.
Nei primi dieci mesi del 2016 la percentuale delle richieste di asilo approvate ha oscillato, a seconda dei mesi, tra il 4% e il 7% di quelle esaminate: in tutto 4.067. Nel frattempo in Italia sono sbarcate 158.974 persone e 98.477 hanno presentato richiesta di asilo.
C’è da aggiungere che, da mesi ormai, gli sbarchi avvengono quasi tutti in Italia. All’inizio del 2016 la rotta dall’Africa alla Spagna è stata bloccata. Poi le due rotte percorse nel 2015 dalla maggioranza degli immigrati irregolari sono state quasi del tutto abbandonate: sia quella dei Balcani occidentali – a ottobre, ad esempio, gli ingressi sono stati solo 1.700, meno dell’1% rispetto allo scorso anno – sia, a partire dal 4 aprile quando è entrato in vigore l’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia, quella verso la Grecia: dei 170.000 emigranti arrivati in Grecia dall’inizio del 2016, 151.000 sono sbarcati tra gennaio e marzo. A luglio, ad esempio, il 93% dei nuovi arrivati in Europa è approdato sulle coste italiane. Così, mentre negli altri paesi europei gli immigrati irregolari sono diminuiti rispetto al 2015 e complessivamente in Europa si registra un calo del 55% circa – da 741.416 arrivi nei primi dieci mesi del 2015 a poco più di 331.000 da gennaio a ottobre 2016 – l’Italia ha già superato a fine ottobre il numero di sbarchi del 2014 e del 2015.
Questi sono i numeri. Riflettendo su di essi, la prima considerazione è che l’Italia è in grado di accogliere alcune migliaia di nuovi rifugiati ogni anno e di farsene carico, per tutto il tempo necessario, senza l’aiuto dell’Unione Europea e facendo a meno anche di contributi da parte dell’Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
L’emergenza è creata certo non da loro, ma dal 97% e oltre di immigrati irregolari che sbarcano aggirando le leggi nazionali e internazionali, non essendo profughi, e che per di più, come dimostra l’aumento dei richiedenti asilo, in misura crescente intendono stabilirsi in Italia o vi sono costretti non riuscendo a raggiungere gli altri stati europei.
Nel 2016 circa il 12% dei richiedenti respinti ha ottenuto protezione sussidiaria e circa il 20% ha ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari: in tutto più di 24.000 persone. La protezione sussidiaria viene accordata se vi è motivo di ritenere che, rimandato in patria o nel paese in cui risiedeva abitualmente, il richiedente asilo corre “un rischio effettivo di subire un grave danno”. Dura tre anni ed è rinnovabile a ogni scadenza, talvolta anche senza una nuova audizione. Da diritto tra l’altro all’assistenza sanitaria e sociale, all’assegnazione di alloggi pubblici, all’accesso al lavoro e al ricongiungimento familiare. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari viene concesso per “gravi motivi di carattere umanitario”. Ha durata di un anno e da diritto a lavorare e all’assistenza sanitaria.
I richiedenti asilo ai quali è negata protezione internazionale – status di rifugiato, protezione sussidiaria, permesso di soggiorno per motivi umanitari – possono presentare ricorso (hanno 30 giorni di tempo per farlo), poi possono ricorrere in Corte d’appello e infine in Cassazione. Inoltre hanno diritto al gratuito patrocinio, e tutti vi ricorrono, per cui lo stato italiano fornisce loro un avvocato e lo paga. Nel 2014 ha fatto ricorso il 73% dei richiedenti respinti, nel 2015 l’80%, nel 2016 la quasi totalità dei 47.456 richiedenti rifiutati al 31 ottobre 2016. Dal 2014 a oggi sono stati aperti almeno 90.000 procedimenti, al costo stimato di circa 50-60 milioni di euro all’anno, a cui vanno aggiunte le spese per consentire ai richiedenti asilo di soggiornare in Italia in attesa della sentenza definitiva, che in media arriva dopo tre anni.
Trascorsi 60 giorni dalla presentazione della richiesta di asilo, in Italia agli immigrati in attesa dell’esito è consentito lavorare. Sarebbe utile sapere quanti ne approfittano, quanti cercano e trovano lavoro, beninteso regolare. In Svezia, ad esempio, dei 163.000 richiedenti asilo registrati nel 2015, una cifra record, meno di 500 risultano svolgere attualmente un lavoro regolare. Gli altri continuano quindi a dipendere dall’assistenza pubblica per vivere. Il paese, sommerso da così tanti immigrati, è del tutto incapace di integrarli. La situazione, dicono le autorità svedesi, è ormai economicamente insostenibile.