I bambini e l’infanzia nel mondo antico (da Manlio Simonetti)
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Riprendiamo da M. Simonetti, Classici e cristiani. Alle radici del mondo occidentale, Milano, Edizioni Medusa, 2007, pp. 33-34 un brano di un suo articolo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia greca e romana e periodo patristico.
Il Centro culturale Gli scritti (21/5/2017)
Offerta ad Asclepio di un toro e di una bambina
[I tempi attuali hanno il merito] di far conoscere a tutti e stigmatizzare quanto, e ben di più, per millenni si è tranquillamente perpetrato nella generale indifferenza. Ce lo dimostra un rapido sguardo alla matrice culturale di cui la moderna civiltà occidentale sembra andare tanto fiera: la classicità.
Le civiltà arcaiche, sia primitive che di tipo superiore, non sono certo tenere nel trattamento riservato ai giovani: basti pensare alle torture inflitte ai ragazzi nel corso delle iniziazioni tribali. Ma al di là di questi crudeli rituali, finalizzati a operare una selezione atta a scartare gli elementi più deboli, non è tenero neppure l’atteggiamento abituale nei confronti dell’infanzia. L’incontrollabilità delle nascite, l’alta mortalità infantile, la precarietà dell’esistenza quasi mai garantita fanno sì che il bambino, salvo casi eccezionali riguardanti famiglie d’alto lignaggio, sia abitualmente trattato quale entità inconsistente, sulla cui durata non si può fare affidamento e che perciò non merita particolari riguardi.
Per quanto concerne la classicità questo atteggiamento è più che documentato. L’aborto è condannato solo in quanto priva l’eventuale padre di una futura proprietà, sulla quale per altro avrebbe insindacabile diritto di vita e di morte. Sui neonati l’ostetrica e l’eventuale medico operano una drastica selezione eliminando i più deboli (a Sparta gettandoli nella voragine del Taigeto, a Tebe abbandonandoli sul monte Citerone). Successivamente spetta al padre, ai cui piedi il neonato viene deposto, decidere di sollevarlo, e dunque educarlo, oppure farlo esporre, nel qual caso lo attende la morte oppure un’esistenza miserrima (schiavitù, prostituzione).
Chi è allevato in famiglia non gode comunque di eccessiva considerazione né da parte dei suoi né da parte della comunità: in greco il termine nèpios significa sia “bambino” sia “sciocco”, “ingenuo”, e l’infanzia, se si eccettua il Lamento di Danae del poeta Simonide, è assente dalla letteratura; ad Atene il bambino non è presentato al pubblico prima del terzo anno di vita; a Roma chi moriva prima di aver cambiato i denti di latte non aveva diritto neppure al funerale, né la famiglia prendeva il lutto. E sempre a Roma soltanto il matrimonio, per le ragazze (già all’età di otto/dodici anni), e l’assunzione della toga virile, per i maschi (sui diciotto anni), conferivano peso sociale alle nuove leve.
La situazione non era molto diversa nell’antico ebraismo. Fatta eccezione per alcuni rampolli celebri, l’infanzia resta sinonimo di cosa da nulla: perfino gli apostoli rimproverano aspramente coloro che portano dei bambini a Gesù (Matteo, 19,13-15, e passi paralleli).
Le cose cambiano radicalmente con l’avvento del cristianesimo: nel ribaltamento di valori sociali operato dalla predicazione di Gesù il bambino diventa addirittura simbolo dell’innocenza, della disposizione d’animo necessaria per poter entrare in paradiso: «Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli» (Matteo, 18,3). Insieme con la vedova l’orfano diventa il destinatario privilegiato dell’attività assistenziale della comunità.
Quando l’impero è diventato cristiano, anche nella legislazione si fa strada una certa tendenza alla tutela dell’infanzia: nel Codice teodosiano si vieta di vendere come schiavi i propri figli in caso di carestia. [...]