I tre livelli della filiazione secondo il Nuovo Testamento, di Romano Penna
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Riprendiamo per gentile concessione il testo di una relazione del prof. Romano Penna, tenuta il 25 settembre 2013 per il Seminario di Studio internazionale delle Suore Salesiane sul tema “Filialità. Categoria che interpella l’identità mariana delle fma”. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (30/4/2017)
Nel cristianesimo, ma non solo in esso, è impossibile parlare della filiazione del credente/cristiano senza relazionarla alla paternità di Dio, se non altro perché non c’è l’una senza l’altra. Il suo significato e la sua portata, infatti, dipendono totalmente dall’idea che si ha di questa. Anche a livello naturale, in tanto si è figli in quanto si ha un (certo) padre; d’altronde, come si direbbe con un proverbiale adagio latino, qualis pater talis filius[1]! Per quanto riguarda la dimensione religiosa, questa idea, con l’eccezione probabilmente unica dell’Islam[2], appartiene di fatto a tutte le religioni e perciò non rappresenta di per sé l’originalità propria del cristianesimo[3].
Ma per venire più da vicino alla concezione neotestamentaria della paternità di Dio e della filiazione ad essa correlata, dobbiamo constatare che si esprime in più di una forma. In effetti il Nuovo Testamento dimostra di essere erede di altre concezioni già preesistenti: di esse, da una parte, si appropria, e, dall’altra, vi costruisce sopra una nuova idea di paternità/filiazione. In concreto, vi troviamo documentati tre livelli o tre diverse modalità del suo manifestarsi: l’una è di derivazione pagana e riguarda la paternità/filiazione universale; l’altra è di origine giudaica e riguarda la paternità/filiazione limitata nei confronti di Israele (e dei discepoli di Gesù); la terza è quella di pretta origine cristiana e concerne la peculiare paternità di Dio nei confronti di Gesù Cristo stesso come Figlio[4]. Qui di seguito intendo dunque offrire un quadro complessivo del tema, distinguendo tra la situazione dei testi e la spiegazione circa l’origine o il parallelismo delle loro affermazioni.
1. La paternità/filiazione universale.
1.1 La situazione.
È raro leggere negli scritti neotestamentari l’affermazione di una derivazione di tutti gli uomini da un solo padre divino, anche se si tratta certamente di testi forti. Di fatto non se ne contano più di tre.
A. Il più evidente proviene dal racconto lucano dell’intervento di Paolo all’areopago di Atene[5]. Qui l’Apostolo si rivolge a un uditorio composto, tra l’altro, da esponenti della cultura greca come alcuni filosofi stoici ed epicurei (cf. At 17,18). Il suo discorso è ben mirato, poiché, dopo un esordio sulla religiosità degli ateniesi (cf. 17,21-23) e prima di passare all’annuncio cristiano vero e proprio (cf. 17,30-31: poi interrotto), si diffonde a parlare di Dio e del rischioso destino della sua ricerca da parte dell’uomo. Ciò che Paolo dice in proposito ha tutto il sapore di una captatio benevolentiae, poiché di fatto è condiviso dagli intellettuali che lo ascoltano, anche se non lo sarebbe stato del tutto dal popolino. Egli infatti fa tre affermazioni principali: la prima è che Dio non abita in templi manufatti né ha bisogno di un particolare culto rituale (cf. 17,24-25); la terza è che un tale Dio non ha neanche bisogno di immagini materiali che lo raffigurino (cf. 17,29); l’affermazione intermedia, la più sviluppata, riguarda l’uomo come vera e unica immagine della divinità e destinato alla sua ricerca (cf. 17,26-28). È qui che l’Apostolo ricorre alla citazione di un poeta greco, che gli torna utile per sottolineare la somiglianza esistente tra l’uomo e Dio, col dire che «di lui infatti discendenza noi siamo» (17,28: toû gàr ghénos esmén = Arato di Soli, Fenomeni 5)[6]. La qualifica di “padre” certo non è direttamente presente, ma sta ovviamente sullo sfondo. Infatti il greco ghénos ha quattro significati fondamentali e tra loro sinonimi (“nascita, discendenza”; “stirpe, famiglia”; “casato, nazione”; “razza, specie”), che richiamano inevitabilmente l’idea di progenitori o antenati diretti[7]. Ebbene, questa discendenza divina vale per “tutto il genere umano” (17,26: pân éthnos anthrōpōn), il quale perciò si trova accomunato nell’andare a tastoni (cf. 17,27) verso l’incontro con un dio, che per quanto “ignoto” (17,23) ha comunque il volto di un padre uguale per tutti. Nel NT però questa concezione è sostanzialmente lucana, cioè di tipo redazionale, poiché cozza con l’epistolario autentico di Paolo, dove la paternità di Dio non è mai affermata nei confronti né del mondo né degli uomini in generale ed è invece precisata in senso diretto soltanto nei confronti di Gesù Cristo (cf. sotto) e in senso adottivo soltanto nei confronti dei cristiani (cf. Rm 8,15.23; Gal 4,5s).
B. Una eccezione sembrerebbe essere un testo paolino, in cui è detto che, se pur nel mondo ci sono molti dèi e molti signori, «per noi invece c’è un solo Dio, il Padre, dal quale sono tutte le cose e noi siamo per lui, e un solo Signore Gesù Cristo...» (1Cor 8,6a). Questo sarebbe l’unico caso in cui l’Apostolo sembra affermare la paternità universale di Dio. E ciò sorprende, dato che per lui, come abbiamo appena detto, il rapporto paternità-filiazione tra Dio e l’uomo si gioca non a livello naturale o creaturale[8], ma per adozione e quindi per grazia. Ma bisogna fare un paio di precisazioni, che ci aiutano a stemperare la sorpresa. L’una è che il passo rappresenta con ogni probabilità la ripresa di una confessione di fede già pre-paolina[9], come risulta dalla sua costruzione bimembre, dai parallelismi con l’ambiente culturale greco e giudeo-ellenistico (stoicismo e Filone Alessandrino), e dal confronto polemico e giudeo-cristiano con la preghiera dello Šemac (ma con lo sdoppiamento della qualifica di “Dio” e “Signore”). L’altra è che la qualifica di Dio come “padre”, ben situata a livello cosmologico nella grecità (cf. sotto), nel contesto del pensiero paolino invece non può non acquistare una valenza sia cristologica (= Padre di Gesù Cristo) sia di antropologia soprannaturale (= Padre dei battezzati)[10]. Probabilmente, dunque, la dizione “il Padre” ha valore parentetico tra «un solo Dio» e la frase ad esso collegata “dal quale sono tutte le cose e noi siamo per lui”: essa è posta qui quasi a indicare un nome proprio[11] per specificare qual è il Dio della fede cristiana, la quale lo confessa non come padre dell’universo ma come padre di Gesù Cristo e dei cristiani (vedi più avanti).
C. Un terzo testo, appartenente alla tradizione post-paolina, è nella lettera agli Efesini, dove leggiamo: «Piego le ginocchia davanti al Padre, da cui prende nome ogni stirpe (pâsa patriá) nei cieli e sulla terra... Un solo Dio e Padre di tutti (heîs theòs kaì patēr pántōn), che è sopra a tutto e attraverso tutto e in tutto» (3,14-15 e 4,6)[12]. La prima frase, dato che il termine greco ha il significato concreto di “clan, tribù, nazione, razza, progenie, schiatta”, riconosce che Dio è l’origine ultima della famiglia umana e dei suoi vari tronconi. La sua portata nel contesto è data dall’affermazione precedente, secondo cui Dio ha rivelato il suo mistero alle “genti” (cf. 3,1.6.8) per cooptarle al popolo di Dio e farle diventare «concittadini dei santi» (2,19). La preghiera dell’autore va dunque a un Dio dalle prospettive universalistiche, di fronte al quale non tengono le divisioni create dagli uomini, e la diversità, per non dire la contrapposizione, tra giudei e gentili viene annullata, ancor prima che sia Cristo a diventare “la nostra pace” (2,14) o, meglio, proprio perché Dio in Cristo dimostra di avere un progetto unitario[13].
La seconda frase non è di facile comprensione, dato che il greco ha una serie di genitivi e un dativo plurali (6a...patēr pántōn 6b ho epì pántōn kaì dià pántōn kaì en pâsin), da cui risulta difficile stabilire se essi siano di genere maschile (= solo gli uomini) o neutro (= tutte le cose) e quindi se la paternità di Dio vada intesa in senso solo antropologico oppure cosmologico. I commentatori si dividono. A me però sembra meglio distinguere tra il v. 6a e il v. 6b: nel primo, dato il contesto epistolare di tipo parenetico-ecclesiologico, non si può fare a meno di riferire il pronome a “tutti” i battezzati, e solo ad essi, come membri dell’unica chiesa, a prescindere dalla loro diversa provenienza giudaica o gentile; nel secondo, invece, riecheggia una formula tripartita di origine greca che afferma la presenza del dio in tutte le cose[14]. L’autore sa che Dio, padre dei cristiani, è anche colui che insieme trascende, permea e abita tutte le cose, e perciò vuol dire che colui che fa l’unità del cosmo tanto più deve fare l’unità della chiesa[15].
D. Altri testi neotestamentari, apparentemente incasellabili in questa serie, di fatto non vi appartengono. Così è di Mt 5,45 («...perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti»); 6,26 («Guardate gli uccelli del cielo: ...eppure il Padre vostro celeste li nutre»). Qui la dimensione cosmologica della paternità di Dio è solo apparente, poiché egli è detto esplicitamente «Padre vostro», cosicché la sua paternità riguarda i discepoli di Gesù (cf. sotto). Analogamente si deve dire di Eb 2,11: «Colui che santifica e coloro che sono santificati vengono tutti da uno solo (ex henós); per questo motivo non si vergogna di chiamarli fratelli». L’autore nel contesto sviluppa l’idea di una profonda comunione che, a differenza degli angeli, vincola Gesù in una stretta solidarietà con gli uomini; si pone però il problema di sapere se il complemento greco riportato voglia significare una stessa materia costitutiva di entrambi (= sono della stessa natura) oppure un medesimo punto di provenienza, sia esso Adamo o Dio[16]. Le interpretazioni migliori sono quelle che intendono o la stessa natura o la stessa origine da Adamo; infatti, affermare un’origine da Dio non avrebbe senso, dato che la fede cristiana proclama piuttosto la differenza tra Gesù e gli altri uomini[17].
1.2 La provenienza del tema
L’idea di una paternità universale di Dio è di chiara provenienza greco-pagana. Anzi, possiamo computarla come uno degli apporti o contributi migliori del paganesimo alla concezione di Dio. In effetti, è da Omero che si comincia a cantare Zeus come «padre degli dèi e degli uomini» (Il. 1,544; Od. 1,18)[18]. Ma è poi soprattutto con Platone che si opera una riflessione filosofica su di una paternità divina[19]. Nel Timeo, infatti, dove si tratta dell’origine del cosmo, si parla del Demiurgo esplicitamente definito come «artefice e padre di questo universo» (Tim. 28C: poiētēs kaì patēr toûde toû pantós), anche se di lui si dice che «è molto difficile trovarlo e, trovatolo, è difficile parlarne a tutti». Da parte sua, il cosmo è chiaramente detto suo “unigenito” (30B: monogenēs), e il rapporto fra i due è quello di una “generazione” (27D, 28B, 29CE: génesis)[20] tanto che il Demiurgo viene anche qualificato come «il Generatore dell’Universo» (41A: tò pân gennēsan).
Particolarmente significativi sono i testi di preghiera, anche se di conio letterario. Fondamentale in proposito resta il proemio del già citato poema di Arato di Soli, Fenomeni, dell’inizio del secolo III a.C., dedicato alle costellazioni, alle stagioni e ai fenomeni atmosferici che regolano la vita dell’agricoltore e del marinaio; il suo incipit suona così: «Cominciamo da Zeus, che mai noi uomini lasceremo / impronunciato: di Zeus infatti sono piene tutte le strade / e tutte le piazze degli uomini, pieni sono il mare / e i porti; sempre, tutti noi abbiamo bisogno di Zeus. / Di lui infatti siamo anche progenie (toû gàr kaì génos eimén), ed egli benigno agli uomini / rivela segni propizi e incita le genti al lavoro ... / Salve, Padre, grande meraviglia (Chaíre, Páter, méga thaûma), potente soccorso agli uomini!» (vv. 1-6.15). A questo testo fa eco il contemporaneo, celebre Inno a Zeus di Cleante, che comincia così: «Gloriosissimo tra gli immortali, dai molti nomi, sempre onnipossente, / Zeus, principio della natura, che tutte le cose con legge governi, / salve! È giusto infatti che tutti i mortali si rivolgano a te, / poiché da te siamo nati (ek soû gàr genómetha), avendo in sorte l’immagine di dio (theoû mímēma) / noi soli fra quanti esseri mortali vivono e si muovono sulla terra» (vv. 1-5)[21]. Lo stesso Cleante in un suo frammento prega così: «Conducimi, o Padre dominatore dell’alto cielo, / dovunque tu voglia (Duc, o parens..., quocumque placuit): non esiterò a ubbidirti»[22]. Il titolo di «Padre» dato a Zeus in Arato induce questo poeta a considerare il dio come provvidenza benevola, che offre agli uomini segni particolari non tanto per essere conosciuto quanto per rendere loro un servizio a loro beneficio[23]. In queste preghiere traspare una autentica esperienza spirituale che sembra addirittura presupporre una concezione personale di Dio[24].
Una particolare idea di paternità divina, considerata dal risvolto della filiazione umana, si troverà più tardi in Epitteto (cf. Diatr. 1,19,9, dove, contro il timore di un tiranno, si afferma la libertà per natura: «Zeus mi ha fatto libero; o credi tu che egli lasci asservire il suo proprio figlio [tòn ídion hyión]? Tu sei padrone solo del mio cadavere: prendilo!»). Tra le righe si scorge l’idea secondo cui solo il saggio è il vero figlio di Dio e che quindi del saggio questi è veramente padre; e nel contesto dello stoicismo la definizione di Dio come padre dei saggi implica necessariamente una esortazione alla virtù: per essere figli di Dio occorre vivere nell’esercizio della virtù (cf. l’esempio di Socrate in: ib. 1,9,22-25)!
L’antica concezione pagana della paternità divina, tuttavia e curiosamente, non ha come conseguenza né di teorizzare né di suscitare il sentimento di una fratellanza universale tra gli uomini[25]. Poiché il dio celebrato è sostanzialmente un “dio cosmico”, in qualche modo identificato con la natura, la risultante che ne deriva è piuttosto quella di una “parentela”, una cognatio, in greco una syggéneia, che lega vicendevolmente non soltanto gli uomini quanto piuttosto tutti gli esseri dell’universo tra di loro e con gli dèi per la comune connaturalità[26]. Riportiamo in proposito un testo significativo, che, pur provenendo dal giudaismo ellenistico, dimostra come nemmeno il monoteismo potesse premunire da una concezione del genere: nel contesto di un rifiuto dell’idolatria, Filone Alessandrino esorta a «non adorare degli oggetti che per natura sono nostri fratelli... poiché tutti gli esseri creati in quanto creati sono fratelli tra di loro, avendo tutti per padre l’unico artefice di tutte le cose»[27], dove nel greco è sintomatico il passaggio del termine “fratelli” dal genere maschile al genere neutro.
Una conseguenza di questo stato di cose è la concezione di come la divinità s’interessa degli uomini ed eventualmente interviene a loro favore. Ebbene, la figura del “padre” qui scompare. Ciò che emerge in primo piano non è tanto la metafora della bontà del cuore quanto quella della razionalità della mente. L’idea fondamentale e riassuntiva in proposito è quella di “provvidenza”, prónoia, da intendersi come forza divina impersonale ma razionale, che pianifica l’universo secondo un ordine perfetto, che è quello in cui esso ci appare. Il concetto ha una sua storia[28]. Ma nella filosofia dominante al tempo delle origini cristiane, cioè nello stoicismo, esso ha due caratteristiche di fondo: «La dottrina della provvidenza aveva anzitutto lo scopo di negare in modo assoluto il caso in tutte le sue forme, anche meccanicistiche: e giustamente Marco Aurelio la sintetizza nella formula “o la prónoia o gli átomoi”. In secondo luogo voleva essere un appello a comprendere ogni singolo fenomeno o evento a partire dalla totalità in cui il piano divino lo ha fatalmente collocato. Allora la provvidenza veramente altro non è che il destino, o meglio l’interpretazione religiosa del destino»[29].
2. La paternità nei confronti di un gruppo.
Più volte nel NT si afferma anche una paternità di Dio specifica, a cui corridsponde una analoga filiazione, per così dire ristretta e settoriale, limitata al gruppo dei soli cristiani: ai discepoli di Gesù nello stadio gesuano, e ai membri della chiesa nello stadio post-pasquale. Anche qui distinguiamo tra la situazione dei testi e la spiegazione circa la provenienza di questa concezione.
2.1 La situazione
I testi che presuppongono e affermano un tale tipo di paternità divina/filiazione sono certamente molti di più di quelli precedenti, ma tutto sommato meno di quelli del terzo livello che vedremo in seguito. In realtà, non si tratta qui di prendere in considerazione dei testi singoli quanto piuttosto degli insiemi testuali, diversificati quanto ad ambiti letterari, ma uniti dalla medesima prospettiva teologica. Ne individuiamo quattro.
A. In primo luogo poniamo tutte quelle parole di Gesù, in cui egli, rivolgendosi ai suoi discepoli, per parlare di Dio usa il costrutto “Padre vostro”. La situazione in proposito risente certamente di un intervento redazionale, poiché è diversa a seconda dei vari strati della tradizione evangelica[30]. Dovrebbe comunque essere abbastanza chiaro che con l’appellativo “Padre vostro” Gesù intende parlare non di una paternità divina in generale, benché essa non sia negata, ma del rapporto peculiare che lega Dio al gruppo dei discepoli di Gesù stesso (o, detto inversamente, che lega il gruppo dei discepoli al Dio predicato da Gesù). Ciò traspare già con sufficiente chiarezza nel fatto che Mt, in cui l’appellativo è più attestato, lo impiega in larga maggioranza nel Discorso della Montagna, dove si tratta appunto dell’identità del discepolo; così, per esempio, in 5,15 («... perché vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli») si suppone che la testimonianza resa dal discepolo di Gesù non porti a glorificare genericamente Dio, ma precisamente il “Padre vostro”, cioè il Dio dei discepoli, che è il Dio evangelico predicato da Gesù stesso e accolto appunto dai suoi discepoli: il che suppone che con questo Dio si sia verificato e si stia vivendo un rapporto del tutto speciale, fatto di estrema fiducia. Ed è per rassicurare i suoi discepoli che Gesù propone un Dio che s’interessa premurosamente di loro (cf. 6,26; 7,11; 10,20.29). Anche là dove si parla di Dio che «fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45), richiamando attività cosmologiche il più universali possibile, in realtà è per ammonire i discepoli ad adottare lo stesso metro di una generosità che non guarda in faccia nessuno: «Perché siate figli del Padre vostro»; certo l’ammonimento è a superare ogni grettezza d’animo e a non chiudersi in sé, ma il punto di partenza di questa visuale “ecumenica” è il Dio dei discepoli, che ha delle sue proprietà tipiche ma non per questo si mette i paraocchi. Ciò, d’altronde, è confermato dal fatto che in una sezione escatologica di Mt, Gesù commenta la parabola del buon grano col dire: «Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro» (13,43); evidentemente la paternità di Dio qui è riservata al gruppo escatologico dei giusti, di cui i discepoli di Gesù dovrebbero essere l’anticipo su questa terra. La cosa poi è ancora più chiara nel loghion di Lc 12,32: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il regno»; qui il gruppo dei discepoli è esplicitamente denotato come “gregge”, cioè, al di là della metafora, come unità ben delimitata e a sé stante: ebbene, Dio è qualificato come “Padre vostro”, cioè appunto come Padre specifico di questo gregge, con il quale ha evidentemente dei rapporti speciali tanto da aver donato a loro e solo a loro “il regno”[31]. Con queste premesse si comprende ancor meglio il rapporto indiretto che Mt 23,8-9 stabilisce tra “l’unico Padre celeste” e i discepoli che tra loro sono “tutti fratelli”.
B. Particolarmente eloquente è la redazione matteana della preghiera del Pater, che, a differenza di quella lucana, integra l’invocazione al “Padre” con il possessivo plurale “nostro”: Páter hēmôn (Mt 6,9b)[32]. Che una simile invocazione intenda riferirsi a Dio come Padre del solo gruppo dei discepoli risulta sia dall’introduzione: «Così dunque pregherete voi» (Mt 6,9a; con una esplicita presa di distanza dalle preghiere pagane nei precedenti vv. 7-8), sia dal parallelo racconto lucano, in cui Gesù risponde a una esplicita richiesta dei discepoli: «Signore, insegnaci a pregare, così come anche Giovanni insegnò ai suoi discepoli» (Lc 11,1); si tratta dunque di una preghiera specifica del gruppo dei discepoli di Gesù. Se poi essa viene correlata all’invocazione personale propria di Gesù, che chiama Dio ’Abbá’ (vedi più avanti), allora ci si rende conto che «egli dà ai “piccoli” [sinonimo evangelico per “discepoli”] la prerogativa di imitarlo... Come membri della famiglia di Dio, essi possono dirgli “padre” e chiedergli in dono dei beni... Gesù rendeva così partecipi i discepoli della sua potestà di figlio»[33]. In effetti, come diremo tra poco, dal punto di vista puramente letterario-terminologico questa preghiera può essere considerata un testo puramente giudaico, non avendo nella sua formulazione nulla di specificamente cristiano[34]. Ciò che la rende una vera preghiera cristiana non sono le parole, ma l’intenzione, cioè la precomprensione che l’orante vi premette come una chiave su di un rigo musicale, cioè la partecipazione, personale e insieme comunitaria, alla filiazione unica e irripetibile di Gesù Cristo. È solo questo che distingue il cristiano da qualunque altro orante, che volesse servirsi dello stesso testo soltanto per la sua sostanza morale[35]. L’aggettivo «nostro», nel contesto, corregge e integra la formula «Padre mio» che è presupposta poco prima nelle altre parole di Gesù, polemiche contro l’ipocrisia pubblica: «Tu, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,6). Di fronte a Dio come Padre, il discepolo non è mai solo ma appartiene a una comunità di figli, che appunto costituiscono la sua famiglia (cf. Mt 12,5: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre»)[36].
C. Nelle lettere autentiche di Paolo si trova alcune volte l’espressione «Dio e padre nostro», limitata per lo più alle formule di saluto epistolare (cf. 1Cor 1,3; 2Cor 1,2; Gal 1,3; Fil 1,2; Flm 3; Rom 1,7: «Grazia a voi e pace da Dio Padre nostro...») o a formule eucologico-dossologiche (cf. 1Tes 3,11; Fil 4,20; Gal 1,4: Gesù ha dato se stesso «per liberarci dal presente tempo malvagio secondo la volontà del Dio e Padre nostro, al quale la gloria...») e solo raramente in contesti discorsivi (cf. 1Tes 1,3;3,13: «Il Signore vi riempia abbondantemente di amore vicendevole... per confermare i vostri cuori irreprensibili nella santità davanti al Dio e Padre nostro nella parusìa del Signore nostro...»); va poi notato che in 2Cor 6,18 l’Apostolo trasforma arditamente al plurale con dimensione comunitaria («Io sarò per voi un padre e voi sarete per me figli e figlie») un testo biblico che nell’originale era costruito solo al singolare in senso individuale-messianico (cf. 2Sam 7,14: «Io sarò per lui un padre ed egli sarà per me un figlio»)[37]. Comunque, anche se è prevalentemente di tipo formulare, anzi forse proprio per questo, il costrutto indica qualcosa che non solo è acquisito alla coscienza cristiana, ma che soprattutto appartiene ai rapporti peculiari delle chiese con Dio. Si confessa in questo modo che egli si è davvero dimostrato Padre nei loro confronti, come dimostra il passo di 1Tes 1,3-4: «Continuamente memori... davanti al Dio e Padre nostro, ben conoscendo, fratelli amati da Dio, la vostra elezione». Come si vede, l’idea di elezione della comunità cristiana è collegata con l’amore e la paternità di Dio, secondo uno schema che, come diremo, ripete quello veterotestamentario del rapporto padre-figlio tra Yhwh e Israele[38]. Questa associazione della paternità di Dio con il suo amore è fondamentale: essa, infatti, nei testi indicati non è mai spiegata propriamente con l’idea di una generazione diretta dei cristiani, ma è piuttosto illuminata dall’idea dell’amore da parte di Dio e di una appartenenza fiduciosa da parte della comunità. D’altronde, si può osservare l’assenza contestuale pressoché totale di un qualche legame tra il Padre e gli altri nomi di membri della famiglia (come: madre, figlio, fratello, o schiavo); e ciò colpisce ancor più, se si osserva invece il legame contestuale tra il titolo di Padre dato a Dio e quello di Signore dato a Gesù Cristo. Questa prassi paolina tende a mettere in luce il fatto che la paternità di Dio nei confronti dei battezzati non è diretta, ma è mediata dalla filiazione unica di Gesù Cristo[39].
D. Negli scritti giovannei il nesso esplicito tra la paternità di Dio e la filiazione dei cristiani è piuttosto raro. Esso viene piuttosto segnalato col parlare genericamente di una “generazione da Dio” (Gv 1,13; 1Gv 2,29; 3,9bis; 4,7; 5,1bis.4.18bis), salvo specificazioni d’altro genere (così in Gv 3,5-8 il nesso è con lo Spirito). Ma il titolo di Padre, dove non è in forma assoluta (molto spesso), è cristologicamente collegato con la figura di Gesù[40]. È sintomatico in proposito ciò che leggiamo in 1Gv 1,3: «La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo». Evidentemente la comunione del cristiano con Dio in quanto Padre passa attraverso quella di chi gli è veramente Figlio, cioè Gesù Cristo. Con tutto ciò, forse nessuno come la comunità giovannea alle origini cristiane ha sentito tanto fortemente la propria identità, oltre che in contrasto con un gruppo di secessionisti interni, soprattutto in alternativa con il “mondo” non credente[41].
2.2 La provenienza del tema.
L’idea di una paternità di Dio ristretta esclusivamente a un gruppo di fedeli non appartiene alla grecità pagana[42] e neanche alle religioni dell’Antico Vicino Oriente[43]. Essa ha la sua matrice solo in Israele ed è ben testimoniata nell’AT ebraico, il quale però, pur celebrando Dio come creatore e signore del cielo e della terra, non conosce l’idea di una sua paternità universale o almeno non la esplicita.
A ben vedere, ciò non esclude che si parli di una sua tenerezza persino materna verso tutti gli esseri creati (cf. Sal 145,7.9: «...il ricordo della tua bontà immensa... Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza [raḥămȃw] si espande su tutte le sue creature») e in particolare verso le persone che lo temono (cf. Sal 103,13: «Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono»). In ogni caso, l’uomo ha con Dio legami più stretti di ogni altra creatura, dato che solo di lui si legge che Dio lo creò a propria immagine (cf. Gen 1,26), donandogli direttamente un soffio di vita di origine divina (cf. Gen 2,7). Si veda anche la celebre definizione che si legge in Es 34,6s: «Il Signore è il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato» (e però continua: «ma non lascia senza punizione e castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione»). Tuttavia, la misericordia celebrata in questi testi non è spiegabile tanto con la metafora del padre, che non è utilizzata, quanto piuttosto con quella del sovrano, come si vede bene nel citato Sal 145 dove ricorrono i concetti di “regno” (vv. 1.11.12.13), “potenza” (vv. 6.11), “dominio” (v. 13). D’altronde, nell’antichità il concetto di paternità si combina sempre con quello di sovranità, come si vede già in Omero (cf. Od. 1,45: «O nostro padre Cronide, sovrano supremo», Hô páter hēmétere Kronídē, hýpate kreióntōn), nell’ebreo Fl. Giuseppe (cf. Ant. 5,93: «Dio, padre e padrone della razza ebraica», Ho theòs patēr kaì despótēs toû Hebraíōn génous) e particolarmente nel concetto giuridico romano di pater familias[44].
Va però notato che il binomio padre-sovrano applicato a Dio viene disgiunto in qualche testo, come in Sap 11,10: «Provasti gli uni come un padre che ammonisce, mentre traesti gli altri al tuo tribunale come un re severo che condanna» (il riferimento è rispettivamente alle prove degli ebrei nel deserto e alla condanna degli egiziani in Egitto; cf. ib. 12,22). Del resto il tema del padre che corregge il figlio è un tema sapienziale diffuso (cf. Dt 8,5: «Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio ti corregge»; in particolare Pr 3,11: «Il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto»[45]). In ogni caso, come si vede, la metafora riguarda Israele.
Il motivo dell’assenza della paternità universale di Dio dalle Scritture ebraiche risiede probabilmente nel fatto che essa, comportando il tema di una certa connaturalità tra il generante e il generato, poteva giustificare la divinizzazione del cosmo e di conseguenza l’idolatria. Solo il giudaismo ellenistico, più libero nei confronti con la grecità, ce ne offre discrete tracce[46].
L’AT attesta su vasta scala l’idea secondo cui Dio è padre di Israele e questi è il suo figlio[47]. Riportiamo qui una serie di testi tra i più significativi. Innanzitutto vengono quelli in cui ricorre l’epiteto di “padre”, da solo o specificato con gli aggettivi “tuo-nostro”, a volte sostituito da un verbo di generazione: «Non è lui il padre tuo che ti ha formato (’ābîkā qānekā)?» (Dt 32,6; cf. v. 18: «la roccia che ti ha generato [ṣûr yelādekā] tu hai trascurato»); «Tu sei nostro padre (’attāh ̛ābînû)...Tu, Signore, sei nostro padre (’attāh Yhwh ’ābînû), da sempre ti chiami nostro redentore» (Is 63,16); «Io sono un padre per Israele, Efraim è il mio primogenito» (Ger 31,9); «Non abbiamo forse tutti noi [sottintesto: israeliti] un solo Padre (’āb ‘eḥād)?» (Mal 2,10); «È lui il nostro Padre» (Tb 13,4). Ma il concetto è altrettanto evidente là dove, correlativamente, si definisce il popolo d’Israele come “figlio” di Dio: «Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito (benî bekorî yiśrā’ēl)» (Es 4,22)[48]; «Voi siete figli per il Signore Dio vostro» (Dt 14,1); «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Os 11,1, con allusione all’esodo; cf. Mat 2,15); «Ritornate, figli traviati» (Ger 3,14.22); «Come un padre ha pietà dei suoi figli» (Sal 103,13)[49].
Il tema è ben testimoniato anche nel giudaismo contemporaneo delle origini cristiane. Così leggiamo nell’apocrifo Libro dei Giubilei della fine del secolo II a.C.: «La loro anima mi seguirà in tutti i miei comandamenti... ed io sarò, per loro, il Padre ed essi mi saranno figli. E tutti... sapranno che essi sono miei figli e che io li amerò e che sono, in rettitudine e giustizia, loro padre..., e tutti sapranno che sono il Dio di Israele, il Padre di tutti i figli di Giacobbe» (Giub. 1,24.25.28)[50]; così negli Inni di Qumran: «Tu sei un padre per tutti [quelli che partecipano] della tua verità. In essi ti rallegri come una madre tenera verso il suo bambino e come una nutrice tieni al seno tutte le tue creature» (1QH 9,35-36)[51].
Nei testi di preghiera, poi, mentre è rarissima l’invocazione al singolare: «Padre mio»[52], è molto ben testimoniata quella al plurale: «Padre nostro». Lo si vede soprattutto nelle due più antiche preghiere sinagogali, l’una in aramaico e l’altra in ebraico. Nel Qaddish ci si augura che la preghiera sia accolta insieme alla supplica di tutta la casa d’Israele «davanti al Padre nostro che è nei cieli» (’ebunāh debišmayā’). Nella cAmidah o Preghiera delle Diciotto Benedizioni, alla sesta benedizione si legge: «Padre nostro (’ābînû), perdonaci, poiché abbiamo peccato contro di te» (§ 6)[53]. In più, la Mishnah testimonia più volte lo stesso costrutto attribuito a Maestri diversi: «R. Pinchas ben Iair diceva: Dopo la distruzione del sacro Tempio... in chi dobbiamo noi cercare appoggio? Nel nostro padre celeste. R. Eliezer il grande diceva: ...a chi dobbiamo noi appoggiarci? Al nostro padre celeste... In chi dobbiamo noi cercare appoggio? Nel nostro padre celeste» (m.Sot. 9,15)[54].
La concezione israelitica della paternità divina ha la funzione specifica di conferire al popolo la coscienza di una forte identità, con la quale Israele si ritaglia una fisionomia propria dai contorni ben definiti, non assimilabile a quella degli altri popoli (cf. il concetto di elezione). A differenza di quella pagana, essa conosce il concetto di una fratellanza reciproca[55], anche se applicato a casi particolari e non teorizzato. Vedi tuttavia il celebre precetto di Lev 19,17-18: «Non coverai nel tuo cuore odio verso il tuo fratello (’aḥkā)... Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo (benê cammekā), ma amerai il tuo prossimo (recăkā) come te stesso»[56]. Analogamente si legge in Ger 34,9.14.17: «Al compiersi di sette anni ognuno rimanderà (libero) il suo fratello ebreo che si sarà venduto a te». Così spesso nel Deuteronomio (cf. Dt 15,2.3.7.9.11.12; 17,15.20; 18,15.18; ecc.). Il passo di Sal 133,1 («Ecco com’è bello e soave che i fratelli [’aḥîm]abitino insieme») esprime ottimamente il legame familiare che unisce insieme i membri del popolo[57].
D’altra parte, il concetto greco di “provvidenza” è sostituito da quello più caldo e personale di amore, perdono, misericordia (cf. nel Sal 136 il ritornello: «Perché eterna è la sua misericordia»: 26 volte su 26 versetti). Ma va detto che, cosa tipica delle Scritture di Israele, la metafora del “padre” applicata a Dio si integra paradossalmente con quella dello “sposo”, che non è meno determinante per la teologia del popolo eletto, ma che qui tralasciamo.
3. La paternità nei confronti di un’unica persona: Gesù.
Il discorso più ampio e insieme più originale, fatto dalle origini cristiane sulla paternità di Dio, riguarda il suo rapporto con il solo Gesù (e soltanto indirettamente poi anche con i cristiani). Essa riempie letteralmente ogni pagina del Nuovo Testamento[58].
3.1 La situazione
Per verificare con chiarezza la situazione dei testi, procedo con una distinzione metodologica tra i due corpi letterari maggiori, che sono i Vangeli e le lettere di Paolo, corrispondenti grosso modo alla storia di Gesù prima della morte in croce e alla riflessione poi condotta su quest’ultima.
A. I racconti evangelici ci dànno il materiale di fondo per parlare di Dio come Padre nei confronti del Gesù terreno. Lasciando da parte la voce ‘fuori campo’ che viene dal cielo nei due momenti del battesimo e della trasfigurazione[59], dividiamo il materiale concernente la paternità di Dio secondo tre aspetti diversi: nella preghiera di Gesù, nelle sue parole, nella sua prassi.
Aa. La preghiera personale di Gesù ci fa toccare con mano dal vivo come egli si rivolgesse concretamente a Dio, riconoscendogli una peculiare paternità nei propri confronti. I vangeli nella loro sobrietà biografica ci tramandano cinque momenti del genere, che elenchiamo secondo un ordine genericamente cronologico[60].
1) Il cosiddetto grido di giubilo (proveniente dalla fonte Q). In un certo momento della sua vita pubblica, che Lc collega con il ritorno dei settantadue discepoli e Mt con le parole di condanna per le città del lago di Galilea, Gesù prorompe in uno sfogo dell’anima: «Esultò nello Spirito Santo e disse: Ti rendo lode, o Padre, signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è stato il tuo beneplacito» (Lc 10,21 / Mt 11,25). Benché il passo riecheggi alcuni motivi sapienziali, esso in realtà ne capovolge i valori parodiandone i tradizionali esponenti: la vicinanza del Regno di Dio mette ormai in crisi le gerarchie umane e crea un nuovo ordine di cose[61]. La doppia ricorrenza dell’appellativo di Padre in questo contesto acquista dei tratti molto personali e addirittura intimi. Se nel primo caso esso è integrato dalla caratteristica di un dominio universale[62], ciò non toglie nulla al fatto che la paternità sia proclamata in forma assoluta, come del resto avviene nella seconda frase. Gesù si rimette al disegno insondabile di Dio, che, come un pater familias, dispone sovranamente della vita della casa (cf. il concetto di eudokía, “beneplacito”); in questo caso, egli ha preposto i “piccoli”, i semplici, ai sapienti e agli intelligenti: mentre questi hanno rifiutato l’evangelo, quelli lo hanno accolto ingenuamente come dei bambini, senza frapporvi pregiudizi (cf. Mt 18,1-4). E Gesù è sulla stessa lunghezza d’onda delle decisioni del Padre.
2) La risurrezione di Lazzaro. In Gv 11,41s, mentre gli astanti tolgono la pietra dal sepolcro, Gesù, alzando gli occhi al cielo, assume anche fisicamente un atteggiamento di preghiera e dice: «Padre, ti ringrazio di avermi ascoltato. Io so che mi ascolti sempre; ma l’ho detto per la folla presente, perché credano che tu mi hai mandato»[63]. Il passo insiste sulla proclamazione pubblica dell’unità di intenti tra Gesù e il Padre suo: la folla deve sapere che egli non agisce per la propria gloria, ma è strettamente unito a Dio suo mandante, e quindi è per così dire garantito e sostenuto da lui. Egli conferma così le altre sue parole: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30)[64], che a loro volta richiamano quanto già fin dal Prologo era stato detto sull’intimità del Logos con Dio come fondamento della rivelazione portata da Gesù: «Nessuno ha mai visto Dio, ma il dio unigenito, che è nel seno del Padre, egli ce lo ha rivelato» (1,18). È proprio questa intimità che sta alla base dell’estrema consonanza tra preghiera ed esaudimento: «Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite» (8,29).
3) La cosiddetta preghiera sacerdotale. Al termine dei discorsi dell’Ultima Cena, il Quarto vangelo inserisce una lunga preghiera di Gesù, che, alzando ancora una volta gli occhi al cielo, dice: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te...» (Gv 17,1). Bisogna innanzitutto avere presente il momento in cui questa preghiera è pronunciata. Siamo all’inizio del racconto della passione, l’“ora” suprema di Gesù[65], verso cui gravita tutta la composizione giovannea e anche, si può ben dire, l’intera storia della salvezza. Se poi teniamo presente che nel Quarto vangelo Dio è essenzialmente Padre di Gesù (vedi più avanti; come abbiamo già detto, a differenza dei Sinottici, solo una volta in Gv 20,17 si parla di «Padre vostro»), allora è vero che «solo Gesù ha il diritto assoluto e primario di chiamare Dio col nome di “padre”»[66]. L’appellativo di “Padre”, messo quasi in chiave dell’intera preghiera del cap. 17, ne condiziona in qualche modo l’intera formulazione; del resto, l’invocazione ricorre ancora ripetutamente nei vv. 5.11 («Padre santo»).21.24 («Padre»).25 («Padre giusto»). È evidente allora che i temi ricorrenti nella preghiera (la gloria, la rivelazione, la conoscenza-fede, l’unità, e la santificazione) recano il timbro di questa paternità divina e della corrispondente filiazione di Gesù, come a dire che questi due poli racchiudono in sé e dànno valore a tutte le componenti della storia di salvezza e della identità cristiana.
4) L’invocazione ’Abbà’ nel Getsemani. Secondo il vangelo di Marco, dopo la Cena, nell’Orto degli ulivi, Gesù prega Dio in questi termini: «’Abbà’, Padre, tutto ti è possibile: rimuovi da me questo calice; ma non quello che voglio io, bensì quello che vuoi tu» (Mc 14,36). L’appellativo di Dio come Padre in questo preciso momento è attestato dalla quadruplice tradizione evangelica (cf. anche Mt 26,39.42 / Lc 22,42 / Gv 12,26.28) e va ritenuto un tratto storico. Quanto allo specifico appellativo aramaico in funzione eucologica, fonte di ampie discussioni[67], esso rappresenta sicuramente una novità nel giudaismo del tempo, non essendo attestato in alcun documento prima dell’era volgare. Ma non va necessariamente inteso come un modo infantile di rivolgersi al proprio “papà”, essendo invece normale sulla bocca degli adulti, come si vede sia dalle epigrafi sugli ossuari, sia dall’uso dei Targumim, sia dal fatto che nel NT è normalmente tradotto con ho patēr o con páter, che è parola usata dagli adulti, e mai invece con uno dei possibili diminutivi o vezzeggiativi (del tipo pápas, páppa, apfýs, átta). In ogni caso, ciò non toglie nulla alla dimensione di intimità familiare che esso comunque comporta ed esprime; del resto, il fatto che sia stato conservato alla lettera solo nel contesto di una agonia la dice lunga sulla sua dimensione di totale abbandono confidenziale nelle mani di Dio e della sua accogliente paternità. Infine, come ha dimostrato Jeremias, è pressoché certo che l’appellativo ’Abbà’ doveva costituire il modo normale con cui Gesù si rivolgeva a Dio in tutte le sue preghiere[68], ben al di là, dunque, della sola agonia nel Getsemani.
5) La preghiera sulla croce. Il vangelo di Luca ci dà due preghiere di Gesù mentre è appeso alla croce. In un primo momento, egli dice: «Padre, perdona loro, poiché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). L’autenticità di queste parole è discussa a motivo della situazione manoscritta[69]; ma, come ci ricorda il professore ebreo David Flusser, il contenuto della preghiera è ben all’altezza del precetto evangelico dell’amore per i nemici e quindi del tutto conforme sia alla redazione lucana del vangelo sia allo spirito di Gesù stesso[70]. La preghiera, infatti, non rivela tanto l’eroicità del disinteresse e del perdono di Gesù per i suoi torturatori in mezzo alle sofferenze quanto piuttosto costituisce un appello all’amore di Dio stesso per i peccatori, quale egli ha sempre dimostrato nel ministero terreno (cf. sotto). Non è solo al proprio Padre, dunque, che Gesù si rivolge, ma anche al Padre di tutti coloro che hanno bisogno della sua misericordia. In un secondo momento, poi, prega ancora così: «Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito» (Lc 23,46). La frase di affidamento proviene da Sal 31,6, ma il titolo di “Padre” preposto ad essa manca nel Salmo, che invece in apertura ha “Signore”. In più, se si tiene conto che queste parole sostituiscono quelle angosciose dell’abbandono presenti in Mc-Mt, si vede come Lc scorga fin nelle ultime parole del Gesù terreno un sentimento di massimo abbandono fiduciale a Dio, che per l’ultima volta chiama col titolo affettuoso e insieme riverente di “Padre”.
Questi cinque casi, gli unici riportati dal racconto della storia di Gesù, ci fanno vedere come fosse normale per lui rivolgersi a Dio con l’appellativo di “Padre”. Infatti, l’unica volta che egli adotta l’appellativo più neutro di “Dio”, anche se personalizzato in “Dio mio”, è nella citazione di un testo biblico: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34 / Mt 27,46 = Sal 23,1); anzi, proprio questa constatazione ci conferma nel fatto che in quel momento Gesù sta appunto utilizzando un’espressione non sua.
Ab. Il modo con cui Gesù parla abitualmente di Dio come Padre, a prescindere dalla qualifica comunitaria di “Padre vostro-nostro”, di cui abbiamo parlato più sopra[71], dimostra quanto stretto sia il loro rapporto vicendevole. Distinguiamo in proposito i due modi di fatto ricorrenti: da una parte i testi in cui egli parla specificamente del “Padre mio”, e dall’altra i testi in cui si riferisce a “il Padre” in forma assoluta.
1) L’attestazione del costrutto “Padre mio” varia a seconda dei diversi strati della tradizione evangelica. La situazione è la seguente:
- non è mai presente in Mc; solo una volta vi si trova l’espressione “Padre suo”, alla terza persona, con la quale Gesù si riferisce direttamente al Figlio dell’uomo (Mc 8,38 / Mt 16,27: «quando verrà nella gloria del Padre suo») e solo indirettamente a se stesso;
- è rarissimo nella fonte Q: certo in Lc 10,22 / Mt 11,27 («Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio, e nessuno conosce il Figlio se non il Padre...»); forse anche Lc 22,29+30b («Io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me... e siederete in trono a giudicare le dodici tribù d’Israele»), ma il suo parallelo riconosciuto (cf. Mt 19,28: «Quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele») non comporta la nostra locuzione, a meno di attribuire quella lucana solo a uno stadio redazionale[72]. In ogni caso, è il contesto escatologico del costrutto a orientarne la semantica[73];
- non più di due volte è presente nel solo Lc: cf. 2,49 («Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?») e 24,49 («Io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso», cioè lo Spirito Santo);
- è invece frequentissimo nel solo Mt: 18 volte (cf. 7,21; 10,32.33; 11,27; 12,50; 15,13; 16,17; 18,10.14.19.35; 20,23; 25,34.41; 26,29.39.42.53);
- ancora di più è attestato dal quarto vangelo: ben 24 volte (cf. 2,16; 5,17.43; 6,32.40; 8,19bis.49.54; 10,18.25.29.37; 14,2.7.20.21.23; 15,1.8.15.23.24; 20,27).
Questa crescita progressiva nelle redazioni evangeliche dimostra, se non altro, che la tradizione della chiesa postpasquale era sempre più disposta a riconoscere la speciale filiazione di Gesù nei confronti di Dio, comunque ritenuta ben diversa da quella dei cristiani. Infatti, il sintagma “Padre mio” (detto di Dio) non verrà mai usato da singoli cristiani, nemmeno da san Paolo[74]. I vari contesti, in cui esso ricorre[75], dimostrano poi che la relazione di Gesù con il Padre «suo» domina tutti i settori della predicazione gesuana e della stessa fede cristiana.
2) Il linguaggio concernente “il Padre” in forma assoluta è del tutto tipico del quarto vangelo[76]. In questo modo l’evangelista intende ulteriormente sottolineare (oltre il frequente costrutto cristologico “Padre mio”) il rapporto unico di paternità che vincola Dio a Gesù Cristo più che non agli uomini. Infatti, a parte l’affermazione iniziale sull’intima comunione vicendevole (cf. 1,18: «nel seno del Padre»), i contesti di ricorrenza in cui il Padre è soggetto di un’azione sono quelli dell’amore (cf. 3,35: «Il Padre ama il Figlio»; 5,20; 10,17; 15,9; 17,24.26), della missione (cf. la formula «il Padre che mi ha mandato»: 5,23.37; 6,44.57; 8,16; 12,49), della donazione (cf. 13,3: «Il Padre gli ha dato tutto nelle mani»; 3,35; 5,26s; 6,37.39; 10,28-29; 17,2), e della rivelazione (cf. 8,19: «Se conosceste me conoscereste anche il Padre»; 14,7-10: «Chi vede me vede il Padre»). Ciò che ne risulta è il quadro di una assoluta coincidenza, non solo di intenti ma anche di natura, tra il Figlio e il Padre (cf. 10,30: «Io e il Padre siamo una cosa sola»; e 14,11)[77].
Ac. Anche la prassi di Gesù è un luogo privilegiato per la rivelazione del profondo nesso esistente tra Gesù e la paternità di Dio. Il testo classico in proposito è la parabola lucana cosiddetta del figlio prodigo, che però dovrebbe essere etichettata con più verità come del padre misericordioso (cf. Lc 15,11-32). Senza soffermarci in dettaglio sull’esegesi del testo[78], qui c’interessa mettere in luce due aspetti complementari inerenti rispettivamente alla parabola e al contesto storico in cui essa è stata raccontata.
1) E ormai acquisito il fatto che protagonista del racconto non è il figlio minore, che si allontana da casa e poi vi ritorna pentito, e tantomeno il figlio maggiore, che entra in scena solo nell’ultima sezione del racconto. Personaggio centrale piuttosto è la figura del padre. È lui che tiene unite in sé tutte e tre le parti narrative del racconto (cioè: vv. 11-20a.20b-24.25-32), primeggiando soprattutto nella parte centrale (vv. 20b-24), quando egli riaccoglie con infinita tenerezza il figlio minore tornato a casa, letteralmente subissandolo di segni di gioia e di festa. Ma la sua paterna bontà è ben presente sia nella parte prima (vv. 11-20a) con il concedere subito senza opposizioni al figlio minore ciò che egli domanda, sia nella parte terza, quando incoraggia il maggiore a riabbracciare il fratello perduto e ritrovato andando oltre ogni meschino sentimento di gelosia e di orgoglio[79]. Orbene, è evidente che il tertium comparationis del racconto è Dio stesso che, come nelle due precedenti parabole della pecora (15,3-7) e della dracma (15,8-10) smarrite, si rivela non solo disponibile ma assolutamente pronto e addirittura impaziente ad accogliere i peccatori in una rinnovata comunione con sé.
2) La comprensione della parabola sarebbe però incompleta se la si isolasse dal suo contesto redazionale. È qui invece che se ne scopre una importante dimensione cristologica, che sfuggirebbe se ci si concentrasse soltanto sul racconto parabolico, come purtroppo normalmente avviene. Infatti, il cap. 15 inizia col rilevare che «si avvicinavano a lui (=Gesù) tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo; e i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro» (15,1-2). È appunto per rispondere a questa obiezione che Gesù racconta le tre parabole, culminanti in quella più ampia e indubbiamente più provocante del padre misericordioso. Infatti, «Gesù non illustra genericamente la misericordia di Dio come verità astratta ed atemporale, ma difende la propria prassi di accogliere pubblicani e peccatori fino al punto di offrire loro la sua commensalità. E proprio qui c’è qualcosa di strano, di misterioso: gli avversari non avevano criticato Dio ma Gesù, eppure Gesù risponde parlando di Dio. Come mai? Tale replica sarebbe incongrua se non presupponesse, pur senza formularlo esplicitamente, che Dio agisce qui e adesso attraverso Gesù, che attraverso Gesù è Dio stesso che cerca e trova i suoi figli “perduti”»[80]. Dunque, il messaggio di Gesù sulla paternità di Dio non è di tipo teorico, meramente didattico, ma è intrinsecamente legato al suo ministero provocatorio; esso infatti promana dal suo concreto comportamento di accoglienza e di commensalità con coloro che la società del tempo bollava come peccatori/impuri, rifiutandoli. In questo senso, per il Gesù lucano valgono in pieno le parole giovannee: «Io e il Padre siamo una cosa sola», anche se verificate ora a livello prevalentemente funzionale. In Gesù è il Padre celeste che agisce: quindi, Gesù è davvero il rivelatore concreto del Padre. Ancora una volta, rifacendoci a un’altra dichiarazione giovannea, è davvero in Gesù che si vede chi è Dio e come egli manifesta la sua paternità (cf. Gv 14,9: «Chi vede me vede il Padre»).
Come conclusione di queste analisi vale una doppia considerazione.
(1) La prima è di tipo ontologico: Gesù risulta personalmente figlio di Dio come nessun altro essere né umano né angelico; la fede cristiana perciò, in quanto tale, non potrà mai porre nessuno sul suo piano, non soltanto in senso soteriologico (cf. At 4,12: «Non c’è infatti in nessun altro la salvezza...») quanto soprattutto in senso ontologico (come si vede dal titolo giovanneo di “Unigenito”)[81].
(2) La seconda è di tipo funzionale: per la fede cristiana, è in Gesù che si rivela in pienezza la paternità di Dio; questi ormai non è più soltanto un «padre nostro che è nei cieli», ma ha concretamente manifestato se stesso e la sua paternità (in Tit 3,4 si parla di philanthropía) in Gesù di Nazaret, cioè nelle coordinate spazio-temporali proprie della storia (= una paternità incarnata), e lo ha fatto con modalità estreme, addirittura scandalose (= una paternità assolutamente accogliente)[82].
B. L’apostolo Paolo, da parte sua, articola il suo discorso sulla paternità di Dio in due momenti diversi e complementari.
Ba. La sua prima affermazione, comune alla tradizione cristiana, riguarda appunto la paternità di Dio nei riguardi di Gesù. Secondo l’Apostolo essa si è esercitata in tre momenti successivi: nella missione stessa del Figlio nel mondo, avvenuta nella «pienezza del tempo» (Gal 4,4) e «in condizione di affinità con la carne di peccato» (Rom 8,3), cioè pienamente umana; nel momento doloroso della croce (cf. Rom 8,32: «Egli che non risparmiò il Figlio suo ma lo diede per tutti noi...»)[83]; e infine nell’evento della risurrezione (cf. Rom 6,4: «Cristo fu risuscitato dai morti mediante la gloria del Padre»)[84]. Quest’ultima espressione è tanto più rilevante perché unica, dato che altrove Paolo attribuisce la risurrezione di Gesù allo Spirito di Dio (cf. Rom 8,11) o alla sua potenza (cf. 2Cor 13,4). Qui invece viene sottolineata la premura paterna di Chi, pur avendolo consegnato alla croce, non può lasciare il Figlio suo nella morte (cf. At 2,24).
Su queste basi si comprende la tipica designazione paolina di Dio come «Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (Rom 15,6; 2Cor 1,3; 11,31), ripresa anche dalla tradizione che fa capo all’Apostolo (cf. Col 1,3; Ef 1,3.17; 1Pt 1,3). La definizione, come si vede dalle sigle di citazione, ricorre soprattutto in formule di benedizione che stanno all’inizio delle lettere (cf. 2Cor 1,3: «Benedetto il Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione»). Questa sua caratteristica eucologica implica tacitamente una presa di distanza da analoghe berakôt giudaiche, che evidenziano invece la paternità di Dio nei riguardi dell’intero popolo d’Israele, come si legge per esempio in 2Cr 29,10: «Sii benedetto, Signore Dio d’Israele, nostro Padre, ora e sempre» (cf. sopra). Per il cristiano, dunque, la paternità di Dio non si misura più primariamente in rapporto all’universo o a un popolo specifico, ma in rapporto a Gesù Cristo, la cui filiazione unica definisce Dio stesso.
Bb. Ma caratteristica di san Paolo è l’affermazione di una paternità di Dio nei confronti dei cristiani in quanto costituiti figli adottivi. È solo l’Apostolo infatti a impiegare il termine tecnico hyiothesía, «accettazione/adozione come figlio»: riconosciuto come valido già per Israele (cf. Rom 9,4), il vocabolo ora designa la condizione dei battezzati, sia in quanto loro propria già oggi (cf. Rom 8,15; Gal 4,5; Ef 1,5), sia in quanto ancora attesa nella sua pienezza (cf. Rom 8,23)[85]. Il concetto comprende due sfumature semantiche ugualmente importanti: quella di una libera assunzione nell’intimità divina da parte di Dio stesso e per conseguenza quella di una filiazione solo indiretta, per quanto effettiva, da parte del battezzato. Ma ciò che rende possibile questo tipo di filiazione come nuova, stabile condizione del cristiano è soltanto la partecipazione alla filiazione unica e irripetibile di Gesù Cristo. Ciò è messo bene in luce da Paolo mediante l’attribuzione al battezzato della stessa invocazione a Dio Padre con cui pregava lo stesso Gesù terreno: “Abbà!” (Rm 8,15; Gal 4,6; cf. sopra); infatti è «lo Spirito del Figlio suo» che «grida» nei nostri cuori non tanto con questo arcaico termine aramaico quanto soprattutto con il peculiare, inaudito tono di familiarità che esso comporta. Non per nulla nel NT, a parte la preghiera insegnata da Gesù secondo la redazione matteana vista più sopra, è solo Paolo a parlare ripetutamente di Dio come “Padre nostro” (vedi sopra: 2.1.3)[86]. Va però sempre ribadito che la filiazione del cristiano in rapporto a Dio non è diretta ma indiretta, poiché passa inevitabilmente attraverso la mediazione della filiazione di Gesù.
3.2 La provenienza del tema
Come abbiamo visto sopra, l’idea della paternità di Dio sia nella sua dimensione universale sia nella sua dimensione limitata a una comunità ha una chiara matrice extra-cristiana, rispettivamente nel paganesimo greco e nella tradizione d’Israele. La prima dimensione viene pressoché assunta tale e quale, solo con la correzione dell’identità di Dio (= monoteismo) e mantenendo la distinzione ebraica tra Dio e le sue creature, cioè evitando di affermare la loro connaturalità (= creazionismo). La seconda dimensione, invece, viene assunta a integrazione della precedente (= elezione comunitaria), ma viene corretta in quanto la comunità cristiana non ritiene di avere con Dio un rapporto di filiazione diretta bensì solo indiretta, resa possibile unicamente dalla filiazione di Gesù (= cristologia).
Resta però l’interrogativo: sarà forse possibile dire che anche l’idea della peculiare paternità di Dio nei confronti di Gesù abbia una sua matrice esterna alla esperienza personale di Gesù stesso? La risposta, diciamolo subito, non potrà che essere negativa, e ne esponiamo brevemente i motivi.
Nell’antichità mediterranea orientale è abbastanza diffusa l’attribuzione della qualifica di “figlio di Dio” a personaggi di vario genere. Lo si constata sia sul versante greco-ellenistico sia sul versante israelitico-giudaico[87]. Tuttavia, nonostante qualche apparenza contraria, dobbiamo scartare in toto la serie delle tre possibili forme di parallelismo offerte dalla storia delle religioni.
La prima consiste in una categoria di persone, che possiamo denominare mitologiche: gli eroi nella grecità (figli di un dio e di una donna mortale, come Eracle/Ercole) e gli angeli in Israele; Gesù infatti non appare di fatto catalogabile né tra gli uni né tra gli altri[88].
Neppure in una seconda categoria è facile inserire Gesù: quella dei cosiddetti “uomini divini” della grecità e quella dei giusti in Israele; infatti, egli propriamente né si presenta come “dio”[89] né è semplicemente annoverabile tra i giusti osservanti della Torah mosaica[90].
Infine, non si può neanche dire che egli appartenga alla terza categoria possibile dei “figli di Dio”, cioè quella dei sovrani che godono della regalità: certo, non a quelli di ambito ellenistico-pagano; diverso semmai è il caso del Messia d’Israele, la cui filiazione divina è l’unico parallelo possibile al caso-Gesù. Anche qui, tuttavia, ci sono due fattori complementari che contraddistinguono Gesù dal Messia davidico. Da una parte, il concetto di regalità non è inteso da Gesù in senso terrenistico-politico, tanto che la sua identità viene espressa anche da altre categorie come quella del profeta e del Figlio dell’uomo (sofferente!). Dall’altra, il concetto di filiazione divina è inteso da Gesù in un senso molto più forte di quanto avvenga nei testi ebraici che lo attribuiscono al Messia, poiché va ben al di là di una semplice adozione[91].
In definitiva, e questo è un fatto incontrovertibile, né nella grecità pagana né in Israele si dà mai il caso di un movimento religioso che venga fatto risalire e si raccolga attorno al nome di un personaggio storico (quindi non mitologico e non riservato soltanto al futuro escatologico), di cui si affermi un rapporto di filiazione con Dio e quindi di paternità da parte di Dio, che sia di tipo unico ed esclusivo. Ma proprio questo è il caso di Gesù. Perciò va riconosciuto che di fatto la dimensione della paternità di Dio nei suoi confronti è davvero senza paragoni. Come unico condizionamento culturale si può annoverare la concezione giudaica del Messia come particolare figlio di Dio; ma poi tutto si gioca sulla coscienza e sull’esperienza propria ed esclusiva di Gesù stesso. In questo senso la paternità di Dio nei suoi confronti costituisce la componente più tipica della fede cristiana.
4. Conclusione.
Con le nostre analisi abbiamo acquisito dal Nuovo Testamento un concetto denso e complesso della paternità di Dio e della filiazione nei suoi confronti, quale di fatto non è dato reperire in altre tradizioni religiose. È una realtà che trabocca e si espande su tre livelli, diversi l’uno dall’altro ma complementari, sicché ciascuno ne rivela una specifica componente. La loro diversità di origine non impedisce che in qualche modo essi si fondano insieme in una prospettiva cristiana. Se le Scritture ebraiche non accolgono la paternità/filiazione universale di Dio, il cristianesimo invece se l’appropria senza difficoltà, sia pure con parsimonia; in più esso fa propria anche l’idea israelitica di una paternità divina peculiare, limitata a un solo gruppo di persone. Ma è senz’altro la dimensione cristologica il fattore decisivo per la comprensione cristiana di Dio come “padre”[92].
Si può dire che, con il passaggio da un orizzonte universale all’ambito di un popolo-chiesa e poi a una irripetibile esperienza singola, il movimento va da un’estensione di superficie a una sempre maggiore profondità.
Si potrebbe anche addurre il paragone di un cannocchiale prolungabile a tre componenti. È solo a partire dalla piccola lente del terzo stadio che si può integrare nella potenza del campo visivo dell’osservatore ciò che appartiene in crescendo tanto al secondo quanto al terzo stadio. Senza di essa, per quanto lo strumento fosse grande, non si avrebbe nemmeno la possibilità di utilizzarlo. Allo stesso modo, la fede in Gesù come unico Figlio di Dio in pienezza è il fattore che permette al cristiano di considerare, sia la specifica paternità di Dio nei confronti della comunità dei battezzati, sia la sua indistinta paternità nei confronti di tutti gli uomini.
Se dal punto di vista storico e religionsgeschichtlich si è passati da una paternità di Dio verso tutti alla paternità verso i molti e infine a quella verso l’Unico[93], dal punto di vista della fede cristiana il movimento ha una direzione inversa. È dall’Unico che si può passare ai molti e di qui a tutti; non viceversa. Certo, la fede avente per oggetto la paternità di Dio nei confronti di Gesù non è affatto un dato costitutivo dell’esperienza religiosa, poiché a questa invece appartiene semmai l’attribuzione a Dio di una paternità nei confronti di tutti gli uomini, come ben si vede nella tradizione pagana.
Anche qui vale la distinzione tra fede e religione. Ma ciò che voglio dire è che, se la religione non produce la fede, questa invece recupera la religione e la rivaluta, sia pur considerandola sotto un nuovo angolo visuale. In ogni caso, è una paternità ricca e polivalente quella che si dispiega ai nostri occhi, soprattutto nel Dio misericordioso proprio della parola e della prassi di Gesù. E per quanto il linguaggio che la riguarda si muova sul piano della metafora[94], non può non stupire il fatto che essa, da una parte, pretenda di connotare in profondità la natura di Dio stesso, e, dall’altra, investa ampiamente la vita degli uomini in molteplici sue espressioni.
Anche il cristiano, dunque, sia pure dal suo specifico punto di vista, può legittimamente esclamare nell’estasi dell’adorazione insieme al citato poeta greco e anzi con più verità: «Salve, Padre, grande meraviglia!».
Note al testo
[1] Questo detto non ha un autore preciso, ma l’equivalente si trova già nel commediografo greco Aristofane, Uccelli 767 («è rampollo di suo padre») e ancor più in Ez 16,44 al femminile («Quale la madre tale la figlia»); cf. anche M.T. Cicerone, De officiis 1,121.
[2] L’Islam infatti è probabilmente l’unica religione non solo a non ammettere alcuna paternità di Dio (cf. l’assenza del titolo di Padre tra i «99 bei nomi di Allah»), ma perfino a negarla esplicitamente, sia nei confronti dell’umanità in generale sia nei confronti di un qualche personaggio particolare, com’è Gesù per i cristiani (cf. Corano, Sura 4,171; 6,100-101; 112,3). Sicché gli appellativi di Dio «clemente e misericordioso» (Raḥmān e Raḥîm), con cui comincia ogni Sura, non richiamano la bontà di un padre ma quella di un sovrano: il padre, cioè, è sostituito dal despota, secondo uno schema frequente di interscambiabilità fra i due (cf. più avanti); o, meglio, la seconda qualifica, che religionisticamente è pur sempre una componente della prima (cioè il Dio è insieme padre e signore), prevale sull’aspetto parentale fino ad escluderlo per mantenere intatta la sua totale diversità di natura (cf. L. Gardet, L’Islam: Religión et Communauté, Paris 1967, 53-65).
[3] Cf. in breve la documentazione religionista addotta da W. Marchel, Abba, Pére! La prière du Chris! et des chrétiens (AB 19), Romae 1963 (19712), 20-27. Va aggiunto che addirittura, secondo alcuni fenomenologi della religione, l’idea di una «dea Madre» avrebbe di gran lunga preceduto quella di un Dio-Padre (cf. G. van der Leeuw, La religion dans son essence et ses manifestations, Paris 1955, 82-94 e 175-180: G. Stacul, La grande madre: introduzione all’arte neolitica in Europa, Roma 1963); altri tuttavia preferiscono parlare semplicemente di «Grande Dea», poiché le funzioni di una primordiale figura divina femminile non sarebbero limitate alla maternità ma comprenderebbero anche quelle della distruzione e del rinnovamento (cf. Marija Gimbutas, Il linguaggio della dea: mito e culto della dea madre nell’Europa neolitica, Milano 1990, 316-317), identificata in definitiva con la Natura eterna. Accenniamo poi soltanto di passaggio alle tesi psicanaliste di S. Freud, espresse in varie opere (cf. per esempio Totem e tabù; Mosè e la religione monoteista), secondo cui la religione nasce come ritorno all’infanzia e al suo bisogno di una protezione paterna (cf. J.-J. Tamayo-Acosta, Para comprender la crisis de Dios hoy, Estella 1998, 149-172).
[4] In generale, cf. G. Schrenk-G. Quell, patēr, in: GLNT IX, 1111-1306.
[5] Oltre ai commenti, cf. R. Penna, «Paolo nell'Agorà e nell'Areopago di Atene (Atti 17,16-34). Un confronto tra vangelo e cultura», in Id., Vangelo e inculturazione, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 365-390.
[6] Cf. M.J. Edwards, “Quoting Aratus: Acts 17,28”, ZNW 83 (1992) 266-269.
[7] Cf. F. Montanari, Vocabolario della lingua greca, Torino 1995, s.v.; qui si danno come esempi due passi omerici, in cui l’idea di provenienza è esplicita (cf. Il. 6,209: «Non disonorare la stirpe degli antenati [patérōn]”; Od. 4,62: “In voi due non si è spenta la stirpe dei genitori [tokēōn]”).
[8] In ciò è presente una precomprensione di tipo giudaico-biblico, di cui diremo nel secondo paragrafo.
[9] Cf. P.H. Langkammer, “Literarische und theologische Einzelstücke in I Kor. VIII.6”, NTS 17 (1970-71) 193-197; R. Kerst, “I Kor. 8.6 - ein vorpaulinisches Taufbekenntnis?”, ZNW 66 (1975) 130-139; R.A. Horsley, “The Background of the Confessional Formula in I Kor. 8.6”, ZNW 69 (1978) 130-135; J. Murphy-O’Connor, “1 Cor. 8.6: Cosmology or Soteriology?”, RB 85 (1978) 253-267. Tra i commenti, cf. C. Wolff, Der erste Brief des Paulus an die Korinther (THNT 7), Berlin 1996, 172-177 (“Exkurs: Das Bekenntnis 1. Kor. 8,6”).
[10] Cf. C. Wolff, Der erste Brief des Paulus an die Korinther, 173: «A motivo della prosecuzione del testo bisogna ora pensare al Padre di Gesù Cristo, il quale mediante Cristo è anche Padre dei credenti; questa è la caratteristica che contraddistingue l’unico Dio dagli altri dèi».
[11] Analogamente avviene nella seconda metà della confessione, dove «Gesù Cristo» sta a specificare l’identità di colui che è gratificato del titolo di «Signore», che gli è preposto.
[12] Tra i commenti, cf. R. Penna, Lettera agli Efesini (SOC 10), Bologna 22000; e E. Best, The Epistle to the Ephesians (ICC), Edinburgh 1998.
[13] Cf. D. von Allmen, La famille de Dieu. La symbolique familiale dans le paulinisme (OBO 41), Fribourg - Göttingen 1981, 225s.
[14] Cf. W. Pöhlmann, “Die hymnischen All-prädikationen in Kol 1,15-20”, ZNW 64 (1973) 53-74.
[15] Senza alcun fondamento esegetico è l’ipotesi di C. Masson, L’épitre de S. Paul aux Ephesiens (CNT 9), Neuchàtel-Paris 1953, che nel v. 6b vede un’allusione trinitaria rispettivamente alla trascendenza del Padre, all’attività immanente dello Spirito e all’inabitazione del Figlio.
[16] Tra i commentatori, l’interpretazione che intende il greco come un complemento di materia al neutro è sostenuta da Vanhoye, Weiss, Grässer. Altri invece tengono il complemento di origine al maschile, sia che come punto di inizio si intenda Adamo (così alcuni antichi; cf. At 17,26) o Abramo (così Buchanan, con riferimento ad Eb 2,16 e 11,12 [ma qui c’è la preposizione apó]) o Dio stesso (così molti: oltre agli antichi, anche Braun, Hegermann, Lane, Attridge, Casalini; cf. 1Cor 8,6a).
[17] Cf. A. Vanhoye, Situation du Christ. L’épître aux Hébreux 1-2 (LD 58), Paris 1969, 331-335.
[18] Un titolo analogo è riservato dagli Inni omerici all’anonima «madre di tutti gli dèi e di tutti gli uomini»(Inni 14,1), tradizionalmente identificata con Cibele o Dea frigia; anche Gea, la Terra, è cantata come «madre universale» (ib. 30,1). Ancora nel sec. II d.C. Apuleio, Metam. 11,5 fa dire a Iside: «Eccomi: io sono la genitrice dell’universo, la sovrana di tutti gli elementi, l’origine prima dei secoli, la regina delle ombre, la prima dei celesti (En adsum, rerum naturae parens, elementorum omnium domina, saeculorum progenies initialis, regina manium, prima coelitum); io riassumo nel mio volto l’aspetto di tutte le divinità maschili e femminili... Io vengo a te perché ho pietà delle tue disavventure (Adsum tuos miserata casus)».
[19] Di altro genere è il frammento eracliteo, che, definendo il Tutto come combinazione di opposti (tra cui «divisibile indivisibile... mortale immortale»), lo chiama anche «generato ingenito.... padre figlio» (framm. 50: patēr hyiós).
[20] Il termine greco nel contesto non significa solo genericamente “origine”, ma comporta una vera “generazione”, e con questo termine giustamente traduce G. Reale (a cura), Timeo, Milano 1994, rispettivamente 83, 85, 87, 91.
[21] Analogamente in Eschilo, I sette contro Tebe, 140-141, il coro delle fanciulle tebane rivolgendosi alla Cipride/Afrodite per invocarne l’aiuto contro gli assalitori canta: «Dal tuo sangue infatti / noi siamo nati (séthen gàr haímatos gegónamen)».
[22] H. von Arnim, Stoicorum Veterum Fragmenta 1,119 ( = R. Radice [a cura], Stoici Antichi, Milano 1998, 232). Il testo continua così: «Vengo sollecito (adsum impiger). Se mi opponessi, ti dovrei comunque seguire, ma lamentandomi, / e subirei da uomo malvagio quello che era giusto sopportare da virtuoso. / Il fato conduce chi accetta, trascina chi lo rifiuta(ducunt volentem fata, nolentem trahunt)».
[23] Per una discussione dei due poemi, cf. A.-J. Festugière, La révélation d’Hermes Trismégiste - II. Le Dieu cosmique, Paris 1949,310-340.
[24] A.Vanhoye, cit., distingue giustamente tra “sistema” e “poema” per dire che, se il sistema stoico suppone una concezione monistico-panteistica, un poema invece può esprimere una dimensione spirituale diversa: ed è quindi significativo che non sia uno stoicismo di sistema quello accolto da Paolo all’areopago.
[25] Il tema è appena accennato in Eschilo, Pers. 185-186, dove la Grecia e la barbara Asia appaiono come «una coppia di sorelle della stessa razza», ma in lite fra loro tanto che l’una sopraffà l’altra.
[26] Cf. E. des Places, Syngeneia. La parenté de l’homme avec Dieu d’Homère à la Patristique, Paris 1964, con tutta una serie di autori e di testi. Vedi per esempio Platone (che definisce l’anima come ciò che «dalla terra ci innalza verso la parentela del cielo in quanto noi siamo piante non terrestri ma celesti»: Tim. 90A; cf. Leg. 899D), Posidonio (in Nemesio di Emesa: «L’intero creato è unitario e stretto da parentela, mían kaì syggenê»), Cicerone (De nat. deor. 2,19: tanta rerum consentiens conspirans continuata cognatio), Dione di Prusa (Or. 12,27: la nozione innata degli dèi, propria di ogni essere ragionevole, «viene dalla natura a motivo della loro parentela con essi»), Seneca (Ep. 95,52: «Tutto l’insieme delle cose divine e umane forma una unità: siamo membra di un grande corpo, e la natura ci ha generati parenti, natura nos cognatos edidit»),
[27] Decal. 64: toùs adelfoùs fýsei mē proskynômen … adelfà d’allēlōn tà genómena kathò gégonen emeì kaì patēr hapántōn heîs ho poiētēs tôn hólōn estín. Nell’antichità l’appellativo di “fratello-i”, a livello sociologico, poteva essere impiegato per significare la semplice appartenenza a uno stesso paese o clan o anche a uno stesso gruppo religioso, ma senza riferimenti all’idea di un Padre divino (vedi la documentazione in B. Rigaux, Les deux épìtres aux Thessaloniciens, Paris 1956, 370).
[28] Cf. l’ottimo studio di A. Magris, L’idea di destino nel pensiero antico - I. Dalle origini al V secolo a.C.; - II. Da Platone a S. Agostino, Trieste 1984-1985, 609-708 («Il concetto di provvidenza»).
[29] A. Magris, L’idea di destino, II, 658. La sentenza di Marco Aurelio (tratta da Ricordi 4,3,2) sintetizza il principio stoico, secondo cui l’uomo così nell’universo come nella società è un essere relazionale, legato non solo a se stesso ma a tutti quanti gli altri (cf. SVF III, 492): analogamente ciò vale per tutti gli esseri.
[30] La situazione è la seguente:
- mai nel solo Mc né nella triplice tradizione;
-1 sola volta in Mc-Mt (Mc 11,25: «Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati» / Mt 6,14);
- 2 volte in Q (Lc 5,36: «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro» / Mt 5,48; e Lc 12,30: «Il Padre vostro sa che ne avete bisogno» / Mt 6,8.32);
- 9 volte nel solo Mt (5,16.45; 6,1.15.26; 7,11; 10,20.29; 23,9: «Nessuno chiamerete sulla terra vostro padre, poiché uno solo è il vostro padre, quello celeste»);
-1 volta nel solo Lc (12,32: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il regno»);
-1 sola volta in Gv (20,17: «Io salgo al Padre mio e Padre vostro...»).
[31] Non è possibile quindi accettare ciò che scrive P. Grelot, Dieu, le Pére de Jésus Christ, Paris 1994, quando riferisce questi testi alla “paternité de Dieu à l’égard de tous les hommes” (108). In verità, egli tace su Lc 12,32, che invece è ben commentato da J. Nolland, Luke 9:21-18:34 (WBC 35B). Dallas 1993,694: «This language is spoken not to a general audience but to those who have responded to the ministry of Jesus and in connection with whom the prophetic promises alluded to are to come to their fullfilment».
[32] Oltre ai molti commenti, cf. J. Carmignac, Recherches sur le “Notre Pére”, Paris 1969, che pensa a un originale ebraico; e P. Grelot, “L’arrière-plan araméen du Pater”, RB 91 (1984) 531-556, che pensa invece a un originale aramaico.
[33] J. Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento, I, Brescia 1972, 226, con opportuno rimando a Rom 8,15 e Gal 4,6.
[34] «Scrivendo per una comunità a maggioranza giudeo-cristiana, l’editore finale di Mt greco ha ripreso come invocazione iniziale il formulario abituale della preghiera giudaica» (P. Grelot, Dieu, le Pére de Jésus Christ, 112).
[35] Si può ricordare in proposito la testimonianza personale dello scrittore I. Silone, L’avventura d’un povero cristiano, Milano 1968, 40-41: «Quel che nella mente rimane, stando fuori di ogni chiesa o partito, non può essere dichiarato in forma di credo e paragrafi... Rimane un cristianesimo demitizzato, ridotto alla sua sostanza morale... A ben riflettere e proprio per tutto dire, rimane il Pater Noster».
[36] Vedi in generale S. Grasso, Gesù e i suoi fratelli. Contributo allo studio della cristologia e dell’antropologia nel Vangelo di Matteo (RivBibSuppl. 29), Bologna 1993, 207: «Sperimentare la paternità di Dio significa scoprire una nuova relazione con Gesù: la fraternità; d’altra parte vivere quest’ultima vuol dire scoprire il nuovo volto di Dio Padre, che viene rivelato attraverso il fratello Gesù». Questo riferimento di tipo familiare alla madre, oltre alla risposta di Gesù alla donna che proclamava «beato» il suo grembo materno e il seno da cui era stato allattato («Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano»: Lc 11,27-28), potrebbe richiamare anche quei testi in cui Gesù non solo è detto «nato da donna» (Gal 4,4), ma soprattutto quelli in cui si fa esplicito riferimento a Maria come «madre» sua (Lc 1,31.43; At 1,14; Gv 2,1.3.5; 19,26; Ap 12,4-5?) e poi madre dei discepoli: così in Gv 19,26-27 dove è propriamente dalla croce che «il Figlio crea la madre» (A. Serra, Maria presso la Croce. Solo l’Addolorata? Verso una rilettura dei contenuti di Giovanni 19,25-27, Messaggero, Padova 2011, 342s; cf. anche U. Vanni, «Dalla maternità di Maria alla maternità della Chiesa. Una ipotesi di evoluzione da Gv 2,1-12 e 19,26-27 ad Ap 12,1-6», RassTeol 26 [1985] 28-47).
[37] Queste dodici occorrenze (pur aggiungendovi quelle della tradizione paolina: Ef 1,2; Col 1,2; 2Ts 1,1; 2,16) sono comunque minoritarie rispetto alle 31 occorrenze nelle sole lettere autentiche del costrutto “Signore nostro” riferito a Gesù Cristo.
[38] Cf. P. Iovino, La prima lettera ai Tessalonicesi (SOC 13), Bologna 1992, 96.
[39] Cf. D. von Allmen, La famille de Dieu, 209-238. Giustamente scrive B. Rigaux, Les deux épitres, 368: “Il credente è uno che ha Dio davanti a sé e, grazie al Cristo, sa che egli è un Padre”.
[40] A ciò si collega l’osservazione che negli scritti giovannei (con la sola eccezione già segnalata di Gv 20,17) non si parla mai né di “Padre vostro” né di “Padre nostro”.
[41] Cf. R.E. Brown, The epistles of John (AB 30), Garden City 1982, 180-187. «La strada verso il Padre passa attraverso il Figlio» (H.-J. Klauck, Der erste Johannesbrief [EKK XXIII/1], Zürich/Neukirchen 1991,70).
[42] Neanche il titolo latino di Dioniso/Bacco, Liber Pater, sembra avere alcun rapporto con i membri del suo tìaso.
[43] A parte Num 21,29 (dove il popolo di Moab viene detto figlio di Camos), i testi addotti da W. Marchel, Abba, Pére!, 17-19, riguardano la paternità di vari dèi verso gli uomini in generale ma non verso un singolo popolo; vedi anche H. Cazelles, La Bible et son Dieu, Paris 1989, 29.47.152; e J. Schlosser, Le Dieu de Jésus (LD 129), Paris 1987, 107. Un paragone con la paternità umana si trova in un inno della letteratura accadica, dove in una richiesta di perdono al dio Marduk si legge: la colpa è stata commessa «nei riguardi della tua grande divinità / come nei riguardi di un padre umano» (da: L’Antico Testamento e le culture del tempo, Roma 1990, 36).
[44] Vedi anche G. Schrenk, patēr, in: GLNT IX, 1118-1132.
[45] Questo testo è ripreso in Eb 12,6 ma secondo la versione dei LXX (che dice: «Il Signore corregge chi ama, punisce [mastigoî] il figlio prediletto»), dove nel paragone dell’originale ebraico «come un padre» (ke’ab) si legge per assonanza il verbo kā’ab, «punire, affliggere»: il testo neotestamentario infatti continua: «È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre?». Questo tradizionale tema sapienziale diventa frequente sia in ambito giudaico (cf. 2Mac 6,12-17; Filone Al., Det.pot.ins. 145-146; Leg.alleg. 2,90; e Strack-Billerbeck II,193-197, 274-282; III, 245, 445, 747), sia in ambito cristiano (cf. 2Cor 6,9; Ef 6,4; 1Tim 1,20; Ap 8,19); vedi H.W. Attridge, The Epistle to the Hebrews (Hermeneia), Philadelphia 1989,361; G. Scarpat, Libro della Sapienza II, Brescia 1996, 371-371 e 403. Tuttavia, non va esclusa una motivazione cristologica, perché di fatto la sorte di Gesù Figlio di Dio fu di tipo drammatico: infatti, poco prima in Eb 12,2 si legge appunto di Gesù che «per la gioia propostagli sostenne la croce, disprezzando la vergogna»; ma cf. anche 5,8: «Pur essendo Figlio imparò da ciò che patì l’obbedienza» (vedi anche il bel passo dell’apocrifo Sal.Salom. 13,9: «Dio ammonisce il giusto come un figlio prediletto, e la sua correzione è come quella del primogenito»; ma qui il figlio primogenito è Israele, come si conferma in 18,4: «La tua correzione su di noi è come si corregge un figlio primogenito unico»).
[46] In questo senso, oltre a Filone Alessandrino (cf. per esempio Dec. 64 [riportato sopra nota 27]; Det.pot. 54; Spec.leg. 2,30; 3,189: gli esseri del mondo «non si sono costituiti spontaneamente grazie a impulsi irrazionali, ma grazie all’intelligenza di un Dio, che è giusto chiamare Padre e Creatore»; vedi G. Schrenk, in: GLNT IX, 114-1144), si possono citare Sap 13,3.5 (genesiárchēs ... genesiourgós, “progenitore... generatore”, cioè, della bellezza delle creature; forse anche 14,3, dove c’è l’associazione del titolo di “Padre” con il termine “provvidenza”); Sir 23,1 («Signore, Padre e Padrone della mia vita»); 3Mac 2,21 (propáter, «padre supremo»).
[47] In generale cf. E. Jenni-C. Westermann, Dizionario di Teologia dell’Antico Testamento I,1-15 (voce ’ab, padre): W. Marchel, Abba, Père!, 9-97; e la sintesi di J. Schlösser, Le Dieu de Jesus (LD 129), Paris 1987, 105-122.
[48] Il titolo di “primogenito” non intende che Dio abbia avuto altri figli dopo Israele; esso è condizionato dal contesto narrativo in opposizione al “primogenito” del faraone (cf. Es 4,23) destinato a morire con tutti i primogeniti degli egiziani; in questo senso, Sap 18,23 dice che gli egiziani alla morte dei loro primogeniti confessarono: «Questo popolo è figlio di Dio».
[49] Vedi anche il bel paragone di Dt 1,31: «Nel deserto... il Signore tuo Dio ti ha portato come un uomo porta il proprio figlio»; Os 11,4: «Ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia»; e la definizione che si legge in Sal 68,6: «Padre degli orfani e difensore delle vedove» (sottinteso: di Israele).
[50] Traduzione dall’etiopico di L. Fusella in: P. Sacchi (a cura). Apocrifi dell’Antico Testamento II, Torino 1981, 220-221.
[51] Traduzione di C. Martone in: F. Garcia Martinez-C. Martone, Testi di Qumran, Brescia 1996, 552. Su questo testo facciamo le seguenti osservazioni: (1) la definizione di Dio come «padre per tutti» è in realtà limitata a coloro che «partecipano della verità» di Dio, che è un modo per riferirsi alla comunità di Qumran (cf. 1QS 1,1-10; 3,5-10); (2) l’espressione «madre tenera» è una perifrasi per rendere l’originale ebraico merāḥemet (participio presente attivo pi’el del verbo rāḥam, “essere preso da tenero amore, avere compassione”; cf. reḥem, “utero”); si evidenzia così la femminilità di Dio che si specifica come maternità (in questo senso, vedi anche Is 49,15 e Sal 27,10); (3) la metafora della nutrice applicata a «tutte le creature» sottolinea la benevolenza universale di Dio (come in Sal 104,27-28), che però non è mai collegata con la metafora del padre.
[52] In Ger 3,4 ha valore collettivo, essendo un grido del popolo. Vedi invece Sal 89,27 («Egli [Davide] mi invocherà: Padre mio sei tu, ’ābî ’āttāh»). Quanto a Sir 51,10 è l’ebraico ad avere: «Signore, mio padre tu sei», mentre il greco ha: «Signore, padre del mio signore». Inoltre, in un paio di testi qumranici frammentari si legge l’invocazione: «Padre mio e Dio mio» (4Q372 1,16) e «Padre mio e Signore mio» (4Q460 5). Quanto alla dizione «Padre tuo», si legge per esempio nella Mishnah: «Sii fiero come il leopardo, veloce come il cervo, e forte come il leone nel compiere la volontà del Padre tuo che è nei cieli» (m.Ab. 5,20).
[53] Vedi il testo completo delle due preghiere in R. Penna, L’ambiente storico-culturale delle origini cristiane. Una documentazione ragionata, Bologna 20126, rispettivamente 36 e 33-35.
[54] Traduzione di V. Castiglioni, Mishnaiot, II, Roma 1962, 191-192.
[55] Cf. E. Jenni-C. Westermann, Dizionario teologico, coll. 85-90 (voce ’aḥ, “fratello”).
[56] Come poi si leggerà nel midrash rabbinico Mek.Ex. 21,35, la figura del “prossimo” e quindi del “fratello” esclude le seguenti persone: il subordinato, il samaritano, lo straniero e il residente forestiero; si tratta quindi del puro membro del popolo d’Israele.
[57] «La dichiarazione di “insiemità” (yaḥad) di unità e di fraternità è così ampia e solenne da adattarsi perfettamente alla congregazione cultica di Israele nel tempio o ad una raffigurazione della comunità dell’alleanza» (G. Ravasi, Il libro dei Salmi, III, Bologna 19936, 695).
[58] Basti pensare, per esempio, che in un libro come l’Apocalisse di Giovanni tutte le occorrenze del titolo riguardano sempre e soltanto la paternità di Dio verso Gesù, espressa mediante la dizione «Padre mio» (Ap 2,27; 3,5.21) o «Padre suo» (cf. Ap 1,6; 14,1). Anche gli Atti degli Apostoli, che impiegano solo tre volte il titolo in riferimento a Dio (cf. At 1,4.7; 2,33), lo scrivono in forma assoluta ma con un implicito riferimento cristologico.
[59] Cf. rispettivamente Mc 1,11// («tu sei mio figlio prediletto...»); 9,7// («Questi è il figlio mio prediletto...»). Invece nel Quarto Vangelo, che non conosce la trasfigurazione, la testimonianza al Battesimo non viene dal cielo ma è quella dello stesso Battista: «Questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,34).
[60] Un altro momento probabilmente è quello in cui Gesù si trova in un luogo a pregare da solo e i discepoli gli chiedono di insegnare anche a loro a pregare: il fatto che egli in questa occasione insegni il «Padre nostro» (o il «Padre», secondo Lc) può essere un indizio che la sua personale preghiera in quel momento era appunto materiata da un rapporto vivo con Dio come suo Padre celeste.
[61] Oltre ai commenti, cf. A. Kirk, The Composition of the Sayings Source: Genre, Synchrony, and Wisdom Redaction in Q (NTSuppl. 91), Leiden 1998, 362-363.
[62] Il testo non vuol dire che Dio sia anche «Padre... del cielo e della terra»; piuttosto, la paternità è una cosa, e la signoria sul cielo e sulla terra è un’altra.
[63] Un’affinità tra queste parole e il Sal 118,21 («Ti rendo grazie, perché mi hai esaudito»).28 («Sei tu il mio Dio e ti rendo grazie, sei il mio Dio e ti esalto») è stata richiamata da M. Wilcox, “The ‘Prayer’ of Jesus in John 1 l,41b-42”, NTS 24 (1977) 128-132.
[64] «Egli offre una opportunità ai discepoli (cf. vv. 15.42), ai “Giudei” (cf. v. 42), e a Marta (cf. w. 21-22.26-27.39.42) e Maria (cf. vv. 33.42) per credere che Dio viene fatto conoscere attraverso le parole e le azioni del suo Inviato, Gesù» (F.J. Moloney, The Gospel of John [SP 4], Collegeville 1998, 333).
[65] Cf. G. Ferraro, L’“ora” di Cristo nel quarto Vangelo (Aloisiana 10), Roma 1974.
[66] G. Segalla, La preghiera di Gesù al Padre (Gv 17) (SB 63), Brescia 1983, 100.
[67] Per uno status quaestionis, cf. G. Schelbert, “Abba, Vater! Stand der Frage”, FreibZeitPhilTheol 40 (1993) 259-281. Vedi anche R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria - I. Gli inizi (SBA 1), ediz. riv., Cinisello Balsamo 2010, 118-124.
[68] Cf. W. Marchel, Abba, Père!, 129-145; J. Jeremias, “Abba” in: GLNT Suppl. 1, Brescia 1968, 57-59.
[69] Vedi la discussione in J. Schlösser, Le Dieu de Jésus (LD 129), Paris 1987, 153- 155: e G. Rossé, Il Vangelo di Luca, Roma 1992, 974-975, nota 127.
[70] Cf. D. Flusser, “«Sie wissen nicht, was sie tun». Geschichte eines Herrenwortes”, in: P.G. Müller - W. Stenger (edd.), Kontinuität und Einheit. Für Franz Mussner, Freiburg-Basel-Wien 1981, 393-410, qui 396 e 399 (cit. in J. Schlösser, Le Dieu de Jésus, 155).
[71] Notiamo qui che non c’è alcun testo evangelico in cui Gesù si accomuni ai suoi discepoli nel dire insieme “Padre nostro”; egli, al contrario, mantiene sempre ben distinte le attribuzioni (cf. il caso più evidente in Gv 20,17).
[72] Così S. Schulz, Q. Die Spruchquelle der Evangelisten, Zurich 1972, 331. Un’altra soluzione sarebbe di considerare parallelo al solo Lc 22,30a («perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno») il passo di Mt 26,29 («... fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio»).
[73] Cf. C.M. Tuckett, Q and the History of Early Christianity, Edinburgh 1996, 139-163 (“Eschatology”).
[74] Esso riapparirà soltanto in Ap 2,27;3,5.21 ma pronunciato unicamente da Gesù. Solo Mt impiega alcune volte il sintagma “Padre tuo” riferito al discepolo (cf. 6,4.6bis.l8bis); altrimenti si parla sempre di “Padre nostro” (cf. Mt 6,9; Rm 1,7; 1Cor 1,3; 8,6; ecc.) oppure si conia l’espressione “Padre del Signore nostro Gesù Cristo” (solo paolina: cf. sotto); inoltre, si impiega la forma assoluta “il Padre” o “Dio Padre” (cf. At 1,4; 1Cor 15,24; Fil 2,11; 1Tes 1,1; Gc 1,27; 1Gv 1,2; frequentissimo in Gv) per designare un rapporto che riguarda però o il solo Gesù Cristo o tutti i battezzati insieme.
[75] Bisognerebbe fare una analisi separata per Mt e per Gv. Sommariamente si può dire che per Mt essi vanno dall’etica (cf. Mt 7,21: «Colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli») all’escatologia (cf. Mt 10,33: «Lo rinnegherò davanti al Padre mio»), dalla rivelazione celeste (cf. Mt 16,17: «Te lo ha rivelato il Padre mio che è nei cieli») alla supplica nell’angoscia (cf. Mt 26,39: «Padre mio, se è possibile passi da me...»). Per Gv i contesti preferiti sono quelli della fedeltà alla missione ricevuta (cf. Gv 10,25: «Le opere che compio le faccio nel nome del Padre mio»), della identità cristologica (cf. Gv 8,19: «Se conosceste me conoscereste anche il Padre mio») e del dono celeste (cf. Gv 6,32: «Il Padre mio vi dà il pane dal cielo»).
[76] Qui su 118 impieghi della qualifica di “Padre” in rapporto a Dio, ben 94 sono in forma assoluta. Fuori di Gv, questa prassi è presente solo una volta in Q (cf. Lc 10,22 / Mt 11,27: vedi sopra), una volta in Mc-Mt (cf. Mc 13,32 / Mt 24,36: «Quanto a quel giorno e a quell’ora nessuno lo sa... se non il Padre solo»), una volta nel solo Mt (cf. 28,19: «...battezzandole nel nome del Padre...»), e una volta nel solo Lc (cf. 9,26: «Quando verrà nella gloria sua e del Padre e dei santi angeli»; qui i testi paralleli di Mc-Mt hanno “Padre suo”: cf. sopra).
[77] Se in Gv 14,28 Gesù dice: «II Padre è più grande di me», nella storia dell’esegesi a queste parole è stata data un’interpretazione che salva comunque la divinità di Cristo, intendendole variamente come allusione o alla generazione divina (cf. Origene, Crisostomo) o alla natura umana (cf. Ambrogio, Agostino) o all’incarnazione e alla morte (cf. C.K. Barrett) o allo stadio della glorificazione (cf. R. Schnackenburg) o semplicemente al fatto che egli è un inviato (cf. R.E. Brown, X. Léon-Dufour; cf. il midrash Ber.Rab. 78,1: «Colui che invia è maggiore dell’inviato»).
[78] Oltre i commenti, cf. J.-N. Aletti, Il racconto come teologia. Studio narrativo del terzo Vangelo e del libro degli Atti degli Apostoli, Roma 1996, 167-205.
[79] È vero tuttavia che la parabola termina con un velo di amarezza o almeno lascia il lettore in sospeso, poiché non solo non dice quale sia stata la reazione ultima del fratello maggiore (se di accettazione dell’invito paterno o di riaffermata ostinazione), ma lascia intendere che l’invito sia stato inascoltato, mentre invece risalta ancora nella conclusione l’accogliente bontà del padre che ripete le parole: «Bisognava fare festa e rallegrarsi...». Il racconto, del resto, trova il suo vero centro d’interesse (la pointe) non tanto nel sottolineare il ritorno del figlio minore (che, tutto sommato, sembra avvenuto più per un calcolo interessato che per un sincero pentimento), quanto piuttosto nella necessità di convincere il figlio maggiore ad accettare il comportamento “eccessivo” del padre e quindi a partecipare con convinzione alla festa da lui imbandita. La parabola perciò finisce col suggerire che il dispiacere più grande è venuto al padre meno dal più giovane, riaccolto nella sua comunione, quanto invece dal più vecchio, ostinato nella chiusura del suo orgoglio.
[80] V. Fusco, Oltre la parabola. Introduzione alle parabole di Gesù, Roma 1983, 144-168, qui 160-161.
[81] Questo giudizio non toglie nulla alle eventuali pretese soteriologiche di altre religioni, ma le relega al loro posto specifico, che è e rimane comunque diverso dalla rivendicazione cristiana. Se per ipotesi altre religioni affermassero sincretisticamente che Gesù è figlio di Dio alla maniera di altri “fondatori”, un cristiano non potrà certamente condividere un simile assunto, pur essendo pronto a riconoscere la specificità religiosa altrui. L’importante è non fare confusioni.
[82] Vale la pena ricordare che nel celebre dipinto di Rembrandt, Il figlio prodigo, conservato all’Ermitage di San Pietroburgo, il padre abbraccia il figlio tornato a casa con due mani che risultano chiaramente l’una maschile (la sinistra) e l’altra femminile (la destra); cf. H.J.M. Nouwen, L’abbraccio benedicente, Brescia 1994, 199810, 144-149.
[83] Qui gioca lo schema giudaico della consegna sofferta ma pronta del figlio Isacco da parte di Abramo in Gn 22. Cf. in proposito R. Penna, “Il motivo della aqedah sullo sfondo di Rm 8,32” in: Id., L’apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Cinisello Balsamo 1991, 171-199.
[84] Analogamente in Gal 1,1 si legge di «Dio Padre che lo [= Gesù Cristo] ha risuscitato dai morti».
[85] Oltre ai commenti, cf. W. von Martitz-E. Schweizer, hyiothesía, in: GLNT XIV, 268-274.
[86] Cf. W. Marchel, Abba, Père!, 181-243. L’autore ritiene giustamente che l’invocazione “Abbà!” come preghiera dei battezzati non derivi né da uno specifico invito da parte del Gesù terreno né da una successiva preghiera estatica propria dei glossòlali, ma da una progressiva presa di coscienza da parte dei primi cristiani: «La coscienza viva e operante che essi avevano di essere uniti a Cristo e la convinzione di possedere in qualche modo un Padre comune. Padre di Gesù e dei suoi discepoli (cf. Gv 20,17), permise loro di riprendere in proprio, sotto la mozione dello Spirito, la preghiera personale di Gesù. Quanto più la chiesa primitiva prende vivamente coscienza della sua unione a Cristo e, nel Cristo, della sua unione al Padre, tanto più essa comprende di poter fare propria la preghiera di Gesù» (185).
[87] Cf. in sintesi R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo, I, 150-160.
[88] Che egli non sia un angelo è fin troppo chiaro. Che poi non sia etichettabile come “eroe” risulta da varie considerazioni: in generale, egli è connotato da una dimensione storica ben precisa (quindi non tiene il paragone per esempio con Ercole, di cui pur si legge in Ovidio che era «illustre prole di Giove» [Metamor. IX,229] e che alla sua morte sulla pira «il Padre onnipotente lo rapì tra le profonde nubi e lo portò tra gli astri radiosi» [ib. 271s]): in particolare, va detto che il concepimento verginale di Gesù né è proclamato da tutti gli scrittori neotestamentari (per es. Paolo lo ignora; ma cf. anche Gv) né è inteso da chi lo tramanda (Mt 1 e Lc 1 ) come un intercorso sessuale tra un dio e una donna mortale (visto che si tratta semplicemente di Dio stesso).
[89] Vedi i casi di Empedocle, Pitagora, Platone. Quanto al più recente Apollonio di Tiana (seconda metà del secolo I d.C.), vedi ciò che ne scrive Filostrato, Vita di Apoll. 1,6: «I suoi conterranei dicono bensì che Apollonio è figlio di Zeus, ma l’interessato si dice figlio di Apollonio» (tr. D. Del Corno). Cf. R. Penna, «Gesù di Nazaret, “uomo divino»? Verifica critica di una categoria ermeneutica», in Id., Gesù di Nazaret nelle culture del suo tempo. Alcuni aspetti del Gesù storico, EDB, Bologna 2012, 131-152.
[90] Infatti, da una parte, i racconti di miracolo che lo riguardano non solo non esprimono tutta la sua identità, ma forse neanche quella più tipica (cf. R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo, I, 60-69), e d’altronde l’appellativo theós a lui attribuito è tardivo e raro e comunque implica una partecipazione all’unico Theós (cf. Ibid., II, passim); dall’altra, egli dimostra una notevole libertà nei confronti della Legge mosaica, tanto da non poter apparire tout court come un semplice giusto (cf. Ibid., 74-86).
[91] Cf. R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo, I, rispettivamente 128-139 e 150-160.
[92] Ben lo aveva capito già nel secolo II il filosofo pagano Celso quando scrive contro i cristiani: «Se tu ti metti ad insegnare loro che questi [= Gesù] non è figlio di Dio, ma che Dio è padre di tutti, e che lui solo bisogna veramente onorare, essi non vogliono ascoltare, se non si aggiunge anche costui, che è il capo della loro sedizione» (in Origene, Contra Celsum 8,14; tr. A. Colonna).
[93] In effetti, secondo il celebre linguista Émil Benveniste, l’indoeuropeo con il termine pater indica non direttamente la relazione di paternità fisica individuale (presente invece nel termine átta testimoniato dall’ittita, dal greco, dal gotico e dallo slavo), ma quella di una relazione collettiva e universale. Il termine infatti «è pregnante nell’uso mitologico. È la qualifica permanente del dio supremo degli Indoeuropei. Figura al vocativo nel nome divino di Jupiter. la forma lat. Jápiter è nata da una formula di invocazione: dyeu pater “Cielo padre”, che corrisponde esattamente al vocativo greco Zeû pater. Ora, in questa figurazione originaria, la relazione di paternità fisica è esclusa..., e pater non può designare il “padre” in senso personale» (E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee - I. Economia, parentela, società, Torino 1976, 162).
[94] Ma sul valore positivo della metafora nel linguaggio teologico e sul suo rapporto con l’analogia, cf. G. Lorizio, “Analogia e/o metafora nel linguaggio teologico su Dio Padre”, in Lateranum 66 (2000) 43-64.