I padri desiderano esserci, a volte non sanno come, di Giovanni Salonia
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Riprendiamo sul nostro sito la trascrizione, da noi rivista, di una relazione tenuta da padre Giovanni Salonia il 25/9/2013 a Ragusa. Il testo non è stato rivisto dal relatore e conserva tutti i tratti di una relazione orale. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sotto-sezioni Educazione e famiglia e Psicoanalisi e psicologia.
Il Centro culturale Gli scritti (17/4/2017)
Buonasera a tutti voi! È un piacere essere qui riuniti a celebrare un periodo “storico” molto bello, molto inedito, quello del “ritorno del padre”. Il “ritorno del padre” - è stato detto - che non è soltanto il ritorno sociologico del padre, vedremo in che senso, ma è anche il ritorno del padre dentro di noi.
Quello di stasera vuole essere un itinerario che va più sul versante dell’accorgersi che “i padri desiderano esserci”, mentre la seconda parte, nella discussione, la condivideremo assieme: “come vivere questa paternità oggi”. Se, però, sapremo riscoprire attraverso questo itinerario la nostra voglia di esserci, assieme potremo trovare come vivere la paternità in questo dono che la post-modernità ci offre.
L’itinerario che ho pensato è una sorta di grande volo su figure paterne significative per arrivare poi alla crisi, al cambiamento che dobbiamo affrontare oggi sulla paternità oggi.
Quando noi diciamo che siamo dinanzi ad un trend non significa che siamo dinanzi ad un dato di fatto. Ci sono situazioni difficili, ci sono situazioni nelle quali i padri, ancora, hanno difficoltà a tornare. È chiaro che la situazione è complessa.
Quello che voglio dire è che quando parliamo di trend noi parliamo di dove sta andando in generale la nostra società ed è importante per questo guardare al “luogo” verso cui stiamo andando e al “luogo” dal quale siamo partiti.
Vedremo sia sul versante dell’esperienza umana, sia sul versante della “Paternità di tutte le paternità”, vedremo in che modo abbiamo vissuto l’essere padri.
Cominciamo con il capitolo sesto dell’Iliade, per intuire che cosa avviene già secoli e secoli orsono. Omero ci ha lasciato un brano che - qualcuno ha detto - sembra fuori posto nei suoi poemi. Sembra quasi che una pagina della cultura ebraica e della mentalità cristiana sia stata scritta in anticipo talmente è originale e inedita questa pagina che ascolteremo.
Così parlò Ettore, bello e forte e tese le braccia verso suo figlio, ma il bambino si mise a gridare e si girò verso il petto della balia perché era terrorizzato dall’aspetto del padre, lo spaventavano l’armatura e il terrificante cimiero di crini di cavallo che vedeva oscillare sull’elmo di Ettore. Allora Ettore e Andromaca sorrisero ed Ettore si tolse subito l’elmo dalla testa e lo poggiò a terra, rilucente sopra la terra, baciò suo figlio e lo prese tra le braccia, facendolo saltare, facendolo saltare, poi rivolse una preghiera a Zeus e agli altri dèi: «Zeus e voi altri dèi, lasciate che questo mio figlio come me possa essere il primo tra i Troiani, che sia forte e che regni su Troia, e [fate che] un giorno, quando lui tornerà dalla guerra, qualcuno possa dire “è molto più glorioso di suo padre e sua madre ne sia felice».
Dopo aver detto queste parole, diede suo figlio in braccio alla moglie, che lo strinse al petto profumato, sorridendo e piangendo allo stesso tempo. Così parlò Ettore, bello e forte, e riprese da terra l’elmo con il cimiero di crini di cavallo; Andromaca ritornò a casa, voltandosi indietro [per guardare Ettore] e piangendo mille lacrime.
Questa immagine di Ettore che non può abbracciare il figlio perché è troppo armato, deve togliersi le armi, è come una fessura che propone una prima apertura sul mondo del legame tra padre e figlio. Perché il padre possa essere riconosciuto dal figlio deve togliersi l’armatura e cosa fa Ettore prende Astianatte sulle braccia e fa quel gesto che è il gesto che attraversa la storia dei padri. Non c'è padre che non abbia fatto saltare prima su e poi giù il proprio figlio quasi a dire la bellezza dell’essere padre, la bellezza più la forza che viene trasmessa. È bello quando i padri ti buttano su, avere il brivido del vuoto, è molto più bello ricadere su quelle braccia che sai che ti tengono. Non tutti i padri che descrive Omero sono in questo modo è ovvio però in Ettore c’è un’apertura ad una paternità che dicevamo in anticipo di ciò che sarà. Ed è bello anche nel testo quando di fronte allo spavento di Astianatte di fronte all’armatura Omero sottolinea un aspetto che abbiamo ascoltato magico: “Allora Ettore e Andromaca sorrisero”.
C’è una co-genitorialità che permette al bambino di aprirsi al padre nel momento in cui toglierà l’elmetto.
E poi un'altra perla di questa pagina, direi inesplorata per secoli, vedremo perché è tuttora difficile da esplorare: “Zeus lasciate che questo mio figlio, un giorno, quando tornerà dalla guerra, qualcuno possa dire è più glorioso di suo padre”.
Tutta la summa sulla pedagogia educativa del padre è racchiusa in questo verbo: essere più grandi del padre.
Quello che gli ebrei chiamavano lo zim zum di Dio che si ritira per far nascere il mondo. Lo zim zum di un padre che desidera che il figlio sia più forte, più glorioso.
La lezione di Omero, veramente ci dice, che è nelle viscere dell’umanità che è scritto il DNA della paternità.
Poi questo DNA sembrerebbe essersi perso. E perché si è perso? Brevemente ne riparleremo quando tratteremo dei cambiamenti culturali.
Perché si perde? Per un motivo molto semplice, perché la paternità è forte ed è fragile. È forte perché senza un padre non c’è vita. Pensate al fatto che anticamente si pensava che il corpo della donna fosse un terreno che riceve il seme e lo fa fruttificare. Non c’era l’idea, direi recente nella storia dell’umanità, che il corpo della donna contribuisce in modo pieno alla nascita.
Ma è fragile e la fragilità è in quel detto che sempre si ripete e che è diventato anche un principio giuridico “Mater semper certa est, pater numquam” e questa incertezza di fondo che crea la fragilità del padre sia sul versante di una necessaria, direi, fiducia nel mistero della nascita, sia nello stesso tempo nella necessaria, direi, fatica per creare il legame. Perché il legame va creato dentro questa fiducia.
Un altro padre ha una storia importante e di questo padre voglio sottolineare un aspetto. Uno dei libri che attualmente ha avuto un grosso giro di lettori è “Il Complesso di Telemaco” di Recalcati nel quale questo famoso psicoanalista lacaniano fa la storia del padre.
Però più che la storia del padre lui fa la storia del figlio. Da Edipo arrabbiato contro il padre da ucciderlo, all’antiEdipo che invece ne fa a meno, al narciso autosufficiente e poi fino a Telemaco che è quello che dice a un certo punto: “Se gli dei potessero ascoltare gli uomini, una cosa sola chiederei: il ritorno del padre!”
Quello che io dico, facendo il contrappunto a Recalcati, è che il problema non è Edipo, lo vedremo, il problema non è Telemaco: semmai il punto di partenza più che il problema sono i padri.
Edipo non ha avuto un padre accogliente per niente. Telemaco ha avuto un padre meraviglioso.
Costui era sposo felice di Penelope e padre di un Telemaco. Perché mai si sarebbe dovuto imbarcare per una spedizione di oltremare, che certamente sarebbe stata lunga, difficile e rischiosa? Per evitare di andarci, si finse pazzo. Ma Agamennone non ci credette e mandò il cugino Palamede a Itaca a vedere come stavano le cose. Ulisse si fece trovare ad arare la sabbia del mare e a seminarvi il sale. Poteva esserci infatti pazzia maggiore? Ma Palamede non la bevve e, per andare a fondo, mise il piccolo Telemaco sul solco, proprio davanti ai buoi che tiravano l'aratro paterno. Ulisse frenò i buoi di colpo, e Palamede capì da quel gesto istintivo che Ulisse ragionava bene. E lo costrinse perciò a seguirlo. Senonché, strada facendo, il furbo re di Itaca pensò che, se lui doveva andare alla guerra, avrebbe dovuto andarci anche Achille, il quale evidentemente si era nascosto; e perciò si propose di stanarlo dal suo nascondiglio.
Siamo in un periodo storico in cui i padri hanno paura dei figli. I padri uccidono i figli; i padri - se pensiamo alle origini del mito - si mangiano i figli. Perché? Perché , in fondo, il padre vede nel figlio il proprio limite e il figlio vede nel padre il limite. Ma quale limite? Il figlio vede nel padre il limite della più grande ambizione che vede l’uomo. Ci torneremo. L’ambizione delle ambizioni è darsi la vita da soli. Un padre ti ricorda che non te la sei data tu la vita e quindi devi fare i conti con una paternità che ti precede. L’orgoglio, l'Hýbris famosa che per i greci ,è all’origine di tutti i guai, nasce proprio dal voler negare il limite. Io mi sono autogenerato.
È falso e tutte le cose false creano danno a se e agli altri. Ma anche il padre si sente limitato dal figlio perché il figlio gli dice: “Non sei immortale”. Il figlio gli dice che se la natura seguirà il corso normale: “Tu dovrai morire e lasciare l’eredità”. Lasciare qualcosa che tu hai creato, costruito, lasciarla a un altro che magari avrà premura di prendersi l’eredità e il trono.
Ed ecco che il racconto di Ulisse, spiega Telemaco, non è Telemaco che deve essere contrapposto a Ulisse, è Ulisse che deve essere, se vogliamo, contrapposto a Laio.
Perché Ulisse è padre. Ulisse ha un senso molto forte dell’astuzia che serve per il mondo, ma a casa non è così - pensate al modo in cui uccide i proci (li uccide tutti), ma non uccide i servi, no.
Ai servi comincia a fare il processo perché dentro di sé, fondamentalmente, è un padre. E il padre che emerge è un padre che sacrifica il proprio sogno di restare a casa con la propria moglie, con la propria terra, col proprio regno, lo sacrifica perché riconosce che non può uccidere il proprio figlio. È un gesto di grande paternità.
Tra i padri più belli che abbiamo avuto nella storia del mito, abbiamo l’icona di Enea, che è quella che stasera ci può accompagnare perché vive ambedue le direzioni, verso il padre e verso il figlio.
Ma adesso passiamo ai figli. Ma adesso iniziamo un altro percorso. Come vogliono i figli il padre? Cosa succede quando il padre delude il figlio?
E partiamo da colui che su questa esperienza - secondo quanto affermano grandi studiosi - ha fondato il suo metodo analitico. Ha fondato tutta la sua voglia di rivedere il rapporto con il padre.
Jacob era un commerciante di tessuti, passato alla storia perché padre di Sigmund Freud. Un sabato stava passeggiando per Freiberg, era ben vestito e portava un berretto di pelliccia nuovo. Ad una svolta, si trovò davanti un uomo. La situazione era imbarazzante, i marciapiedi, a quei tempi, erano spesso uno stretto camminamento, tanto per evitare la superficie fangosa della strada. Jakob accennò a un nuovo passo, ma con timidezza perché non ne faceva una questione di principio. L’invasore fu più veloce e, animato evidentemente da una certezza di superiorità, gli buttò il berretto nel fango gridando: “Giù dal marciapiede, ebreo!”
Raccontando l’episodio al figlio, Jacob a questo punto si fermò. Ma il piccolo Sigmund lo incalzava, perché per lui proprio qui veniva la parte più interessante: “E tu che cosa hai fatto?”
Con calma il padre rispose: “Sono sceso dal marciapiede e ho raccolto il berretto”.
Questa storia ha segnato Freud profondamente, perché Freud, direi, da grande esperto di umanità, sa che i figli vogliono, in questa logica che ci precede - vedremo poi come questo si modifica nella post-modernità con la metanoia delle prospettive paterne -, in questa logica che ci precede desiderano un padre forte, un padre che è capace di custodire, di proteggere. Freud ci dice che la prima grande crisi è vedere il proprio padre umiliato. Credo che sia una delle esperienze più laceranti per un figlio: vedere il proprio padre umiliato. Il padre su cui ha costruito il suo senso di forza, vederlo umiliato, vederlo travolto dall’angoscia. Che sia un esperienza necessaria, lo vedremo, ma certamente è un esperienza lacerante.
Freud sentì questa umiliazione. Abbiamo ascoltato anche nella lettura quel momento di pausa: “Che cosa hai fatto tu quando il tedesco agguerrito e violento ti ha imposto l’umiliazione”. Il padre rispose: “Mi sono lasciato umiliare”. Soltanto il Freud cresciuto, il Freud con gli anni dirà: “Allora ho capito che un padre a volte deve decidere e scegliere tra la dignità e la protezione dei figli”.
In quel momento Jacob è stato costretto a fare una scelta. La propria dignità avrebbe aperto le possibilità di una morte, di un abbandono dei figli.
Pensate a Ettore in che modo la madre e Andromaca gli dicono: “Trova strategie per non morire”, ma Ettore dice: “No!” È nobile, è forte, deve andare. Invece il padre di Freud dice: “No!” Preferisce essere umiliato per salvare e custodire quello che verrà.
A questo punto c’è un'altra storia di padri, una storia che ricalca la storia di Freud. Mi ha colpito leggere nella vita di Freud degli ultimi anni le stesse frasi che Francesco d’Assisi pronunciò negli ultimi anni della sua vita proprio nel rapporto con i propri seguaci. È come se la paternità zigzagando attraverso le varie esperienze poi si ritrova su temi di fondo. Il padre, il figlio, cosa decidere? Il padre deve decidere tra la dignità e i figli. I figli devono decidere tra l’amore al padre e la propria strada. Qui Francesco offre qualche alternativa.
Quando il padre lo vide perseverare nelle opere di bontà, cominciò a perseguitarlo ed a straziarlo, ovunque lo incontrasse, con maledizioni. Allora il servo di Dio chiamò un uomo di umile condizione e semplice assai, e lo pregò che, facendo le veci del padre, quando questi moltiplicava le sue maledizioni egli di rimando lo benedicesse. Così tradusse in pratica e dimostrò con i fatti cosa significhi la parola del Salmista: Essi malediranno e tu benedirai.
Dietro consiglio del vescovo della città, uomo molto pio che non riteneva giusto utilizzare per usi sacri denaro di male acquisto, l’uomo di Dio restituì al padre la somma, che voleva spendere per il restauro della chiesa. E davanti a molti che si erano lì riuniti e in ascolto: “D’ora in poi, – esclamò – potrò dire liberamente: Padre nostro, che sei nei cieli, non padre Pietro di Bernardone. Ecco, non solo gli restituisco il denaro, ma gli rendo pure tutte le vesti. Così, andrò nudo incontro al Signore” (FF 596-597).
Anche qui abbiamo una delusione. Anche qui abbiamo una scelta che un padre deve fare. Pietro di Bernardone deve scegliere. Avere i soldi? Lui ormai mercante che ha fatto dei soldi, non ha un titolo. Infatti il grande tema di Francesco giovane è di andare a cercare un titolo per suo padre. Vuole diventare cavaliere. E sull’altro fronte il figlio che ha pensieri diversi. A un certo punto Pietro di Bernardone sceglie di tenersi la sua roba e Francesco, attenti, non fa quello che un ribelle farebbe. Un ribelle direbbe: “Pietro di Bernardone non serve, mi rivolgo a Dio”. Stiamo parlando ovviamente della scena in cui Francesco si spoglia nudo di fronte a tutta Assisi.
Francesco da le vesti al padre e non è una scena di protesta. È una scena che appartiene a tutti. Anche un non credente deve vivere questa scena, perché sulla terra non ci sono padri, se intendiamo per padri coloro che ci possono salvare dalla morte e dalla sofferenza. Sui temi grandi dell’esistenza Francesco capisce che siamo tutti uniti e da questa nudità Francesco riemerge avendo un rapporto diverso col padre.
Ad Assisi appositamente hanno fatto la statua dei genitori di Francesco per evitare l’equivoco di un Francesco contro suo padre. Francesco non è capace di essere contro il padre. Francesco fa un salto di cambiamento che diventerà più forte in lui, quando lui padre di tanti frati dovrà scegliere fra il suo sogno e i frati che fanno altre scelte: allora Francesco capirà suo padre, perché i padri hanno questo dramma. Le cose che hanno conquistato, l’eredità, la cultura, il progetto, da un lato, e il figlio, dall’altra, che ha la sua irriducibile unicità.
E adesso arriviamo alle porte della modernità e troviamo la storia di colui che ha segnato la storia degli ultimi secoli sulla paternità: Edipo. Brevemente vediamo come siamo legati a questo schema che è entrato in crisi con la postmodernità. Stiamo arrivando ai nostri tempi. In fondo lo stesso Freud, nel momento in cui prende la figura di Edipo - direbbe Jean Paul Vernant -, trasforma e un po’ tradisce il racconto di Sofocle: presenta uno schema che è fuorviante.
Edipo è colui che di fatto uccide il padre, ma - per questo dicevo all'inizio che l'impostazione di un confronto tra Edipo e Telemaco non ha molto senso - il problema è un altro: è Laio che vuole uccidere il figlio. Edipo è vittima e non è carnefice. È vittima di un padre che ha paura del figlio. La dea ha detto: "Tuo figlio ti ucciderà!". Se non è la dea sono gli inferi che ognuno di noi porta dentro di se, che ogni padre sente nel momento in cui diventa padre, sente il cielo e sente gli inferi.
E gli inferi dicono: "Sta attento, ma cosa vuole questo? E se poi ti domina, e se poi diventa più forte di te? E se poi…, e se poi…, e se poi?" E Laio cede e lo consegna! E noi siamo cresciuti con questa mentalità, con questa impostazione nella quale il problema nasce nei bimbi.
Hanno scelto come titolo di una conferenza che dovrò fare a Palermo: L'inganno affettivo del complesso di Edipo. Il "complesso di Edipo" è stato il grande inganno della nostra concezione nei rapporti familiari. Nessun figlio vuole uccidere il padre e nessun padre vuole uccidere il figlio, se non si sente travolto dai propri inferi.
Ma aver dato ad Edipo questa responsabilità –cioè che il bambino nasce col desiderio di far fuori il padre, perché vorrebbe la madre - questa impostazione ha creato quella specie di sospetto sulla natura umana che è il più grave: si nasce con la voglia omicida, si nasce con la voglia di godimento.
Qui stiamo entrando nella crisi del ‘68, il padre visto come colui che limita il godimento. Non puoi godere perché c’è un padre. Anzi qualcuno dirà: soltanto il padre può salvare dalla diade madre-figlio. Se non arriva il padre a separare questa diade, madre e figlio impazziscono. Il sociale nasce col padre, il sociale nasce quando verso i tre anni il padre si presenta e quasi presenta il conto: "In questi tre anni ci sono stato poco però il figlio mi appartiene". A quel punto la diade che rischiava di essere una diade perversa diventerebbe un'apertura alla triade.
In realtà le cose non stanno così, in realtà quello a cui fa riferimento questa impostazione che paga un prezzo alto a un contesto depressivo.
In realtà la madre non ha bisogno di un padre per legarsi col figlio in un modo nutriente, non possessivo. La madre è presente al figlio all'inizio e il padre è presente con la madre fin dall'inizio perché la triade padre-madre-figlio è una triade costitutiva della condizione umana. Ecco allora che, a poco a poco, ci siamo accorti che il padre non può essere messo da parte perché ogni padre, se ascolta se stesso, ha voglia di essere coinvolto nell'educazione dei figli.
Io dico sempre ai miei allievi quando si presenta il problema di un ragazzo e viene la madre: "Voi cercate sempre il padre". La risposta sarà spesso: "Ma mio marito, il padre, è distratto, ha tante cose...". E io dico, scherzando: “Non credete a questo! Prendete il telefono e dite: Lei è il padre? Io ho bisogno di lei, per, tra virgolette, aiutare suo figlio".
Perché se va l'altro partner, gli dirà: "Anche il dottore ha capito che la colpa è tua e ti vuole vedere!" Ma a quel punto diventa problematico ritrovarsi! Ma certamente quello che in questi anni è maturato, direi come uno dei doni più belli della post-modernità, è proprio questa doppia novità: la co-genitorialità. Si educa assieme non è vero che l'ordo degli affetti avviene nel nome del padre, non abbiamo bisogno della legge per regolare gli affetti, abbiamo bisogno della relazione.
Qui è il punto di svolta. Il godimento non è limitato dal padre, il godimento è limitato da se stesso, perché il godimento che diventa eccessivo fa impazzire. Non c'è una legge del piacere che deve essere contrastata da una legge del dovere: c'è un ascoltare se stessi e un accorgersi che dentro il godimento c'è la legge della relazione.
È la relazione che regola ed è questo mettere insieme padre e madre che non implica, già si diceva, la coniugalità. Uno dei principi, molti di voi ne sono profondamente a conoscenza, della relazione familiare è questo: la vita coniugale può finire, la vita è complicata, mille cose! La vita come co-genitori non può finire.
C'è un amore che non deve mai finire perché il figlio ha bisogno di ambedue. E la figura del padre, lo vedremo, è una figura che dà certamente un elemento indispensabile. Il padre può essere duro, può essere fragile non ha importanza, ma il figlio per crescere ha bisogno del corpo del padre oltre che del corpo della madre .
È in questa novità che si inserisce, dicevamo, l'altro grande dono della postmodernità che è la bellezza di questi padri che sono padri sin dall'inizio. Prima i padri aspettavano che parlasse un pochino per darci una mano se usciva, al lavoro ecc. È una meraviglia, oggi, come i padri giocano con i figli, con la figlie. E' uno spettacolo inedito, non sappiamo ancora i frutti belli che porterà, ma certamente porterà frutti belli: non ci sarà la scissione tra violenza e tenerezza, tra forza e debolezza, tra casa e città.
Ed è in questa logica che abbiamo bisogno di fare delle riflessioni che ci dicono che ci troviamo di fronte a una situazione inedita dal punto di vista storico, non è un ritorno del padre inteso come una volta: è il ritorno di una paternità nella relazione, è il ritorno di una paternità che insieme alla maternità fanno la struttura affettiva che ci permette di crescere.
Chi è il rigido a casa? Non si sa più! Mi ricordo una tavola rotonda in cui erano presenti gli adolescenti, la maggior parte erano ragazzi. Chiesero: "Chi a casa è il più rigido?". Gli adolescenti con un sorriso scontato e ovvio risposerò: "La mamma!". Ma non è importante questo: è importante che la coppia si ritrovi in questa comune intesa. Siamo diversi per apprendere l'uno dall'altra.
Abbiamo consumato e consumiamo energie, fatiche, direi anche disperazioni, perché pensiamo che la diversità ci sia nel mondo, cominciando da quella iniziale, ci sia, per un continuo gioco a qual è la migliore? Le diversità ci sono nel mondo perché chi è diverso dall'altro in qualsiasi modo - a me piace questo, a te piace un altro - si ponga con atteggiamento di apprendimento.
Allora, se la logica paterna è su un versante e la logica materna su un altro, il punto non è chi è più bravo, il punto non è chi è più bravo come genitore, chi protegge il figlio, chi no: il punto è che cosa posso apprendere dalla logica dell'altro. La diversità, da quella dell'intimità sessuale a quella della co-genitorialità si supera non etichettando l'altro, ma mettendosi, addirittura - noi diciamo – in un atteggiamento di gratitudine, di apprendimento, perché è bello che l'altro con cui condividi la crescita del figlio, con cui condividi l'intimità sessuale, è bello che l'altro ti insegni delle cose e tu a lui. In questo apprendimento le diversità diventano ricchezze, dialogo.
Qui c'è un punto che secondo me è molto importante e cioè: quali sono le grandi sfide che la paternità, oggi, deve affrontare? Non sappiamo le risposte, però le sfide ci sono.
Una sfida è la sfida del dovere. Due anni fa a Berlino psico-neurologi si sono riuniti per dire c'è troppo Es in giro, c'è troppa libertà. Dobbiamo ritornare a mettere i confini? Questo ci dice che dobbiamo tornare a qualcosa. Io non penso che i problemi siano i confini, io penso che il problema sia stare di più nella propria Funzione-Personalità diciamo in Gestalt.
Vi faccio un esempio molto semplice. Storie di vite familiare. Alla mamma non piace come sei seduto. Risponde il bambino: "A me piace!" Chi deve vincere? In base a quale principio vince l'uno o vince l'altro? Non può essere il principio del piacere in quel momento perché questo contraddirebbe un altro principio che è il principio della Funzione-genitoriale. Se una mamma dice alla figlia di 11 anni: "Mi sento trascurata sessualmente da tuo padre" Fa una condivisione ma è un errore educativo non perché le cose che dice sono false. Però non le deve dire alla figlia di 11 anni.
E questo in base a che cosa? In base alla funzione genitoriale. Allora il problema non è tra “a me piace”, “a te non piace”. Il problema è: “Sono il tuo genitore, ti voglio bene, ti dico che cosa è utile per te”.
È un ritornare alla figura genitoriale ma non sul versante del dover - qui è molto importante il discorso che fa uno dei fondatori della Gestalt, un certo Goodman -, qui il problema non è tornare agli introietti, ai doveri o al Super-io, no, no! È tornare al proprio corpo, perché il corpo di un papà cambia quando diventa papà; il corpo di una madre, una donna che partorisce, dopo vedrà tutti i bambini in modo diverso. Non ha studiato un testo sui bambini, li sentirà.
Allora l'essere genitori non è qualcosa che uno deve pensare, ma ce l'ha nel corpo. Se ascolta il proprio corpo saprà che quello che educa è la chiarezza delle funzioni genitoriali perché nella chiarezza delle funzioni genitoriali si apprende un piacere “altro”. Al bambino piace stare seduto in quel modo, ma quando si può affidare alla madre impara un piacere più grande, il piacere della relazione. Il vero problema è che molte volte è che noi vogliamo poco dalla vita, molte volte gli smarrimenti sono volere poco dalla vita: dovremmo volere di più, perché il gioco del godimento è il gioco del bivio. Il godimento a un certo punto vuole relazione altrimenti diventa solo smarrimento. Insegnare, educare piuttosto a vivere la relazione è il godimento che i figli cercano ed è quello di cui noi abbiamo bisogno.
E un altro aspetto direi molto importante è il rapporto dei corpi. Prima di arrivare a quest'ultimo punto ascoltiamo una delle più belle poesie che siano state scritte secondo molti letterati, sul padre ed è di Camillo Sbarbaro.
Padre, se anche tu non fossi il mio
Padre, se anche tu non fossi il mio
Padre se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t'amerei.
Ché mi ricordo d'un mattin d'inverno
Che la prima viola sull'opposto
Muro scopristi dalla tua finestra
E ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
Di casa uscisti e l'appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.
E di quell'altra volta mi ricordo
Che la sorella mia piccola ancora
Per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia aveva fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
Dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l'attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l'avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo che eri il tu di prima.
Padre, se anche tu non fossi il mio
Padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t'amerei.
Qui abbiamo introdotto un elemento importante ed è la differenza di rapporto. Chi scrive la poesia è Camillo ricorda di quella volta in cui "la sorella mia piccola ancora inseguivi minacciando". Certamente il rapporto tra genitori e figli, tra padre e figli acquista percorsi differenti col figlio o con la figlia. Sono rapporti intensi, ma di colori diversi. Un figlio ha bisogno di giocare col padre, di sentirlo vicino, che può diventare, torno a Ettore, più forte del padre. Fino a quando sono piccoli i ragazzi vogliono dire: "Che bello, mio papà è bravo!". Appena crescono vogliono dire: "Io sono bravo!"
Ed è questo, Ettore lo ha intuito, ciò di cui ha bisogno Astianatte, ciò di cui ha bisogno ogni figlio, sapere che la strada della propria crescita, della propria “autorizzazione” per quanto riguarda il padre, sarà sempre una strada aperta.
L'altro versante è sulla strada della figlia: è chiaro che padre e figlia come madre e figlia rappresentano dei rapporti particolari,nella stessa capacità d'amore hanno delle sfumature diverse. Ultimamente stiamo vedendo che le figlie difendono i padri perché in effetti acquista un significato particolare e io credo che sia importante questo ritorno proprio perché è la storia che ci racconta Antigone.
Antigone è una donna forte - dice Hegel che è la tragedia più bella che sia stata scritta perché Antigone sfida la morte, Antigone lo fa per salvare il corpo del fratello. Per insegnare a Creonte che la legge della pace è diversa dalla legge della guerra Antigone muore.
Ma da dove prende questa forza? Qui giochiamo su un velo sottile che è quello del rapporto padre-figlia. Antigone, in fondo è figlia di un incesto. Suo padre è anche suo fratello. Questo non deve essere dimenticato. Antigone ha con Edipo un rapporto particolare perché non è soltanto padre, è l'anticipo di quel padre fratello che oggi noi cerchiamo. Non è solo padre, non è solo fratello. È un padre “modello” - diceva Nietzsche – in che senso? Ci sarà un motivo perché la tradizione antica abbia detto: "Il grande, il saggio nasce da un incesto". È un modo, se volete forte, per dire che le figlie che hanno avuto un padre che le ha fatte crescere nella pienezza della corporeità propria e altrui, con la serenità di un rapporto da lui vissuto con la propria partner, tali figlie vanno nel mondo sicure.
Quando questo è mancato, vanno nel mondo alla ricerca di sicurezza. Questo penso sia stato il dramma di tanto “femminile” in questi ultimi 40 anni: andare nel mondo alla ricerca di sicurezza, perché la sicurezza non poteva venire da una struttura mentale, da una paternità imbarazzata, da una paternità che la figlia, arrivata a un certo punto, sentiva come una novità che non sapeva gestire.
Ed è proprio su questa linea della fiducia nei corpi, in questa linea di fiducia di un padre che gioca con i propri figli, che si consegna ai propri figli nella certezza che ha le spalle coperte, nel senso che questo consegnarsi ai figli nasce da un rapporto pieno con la propria co-genitrice con la sicurezza di restare padre. Nel fondo quello che ognuno cerca è proprio questo: una paternità che dia il senso di potere andare nel mondo perché casa e mondo poi noi li giochiamo in queste diverse modalità con cui il padre si rapporta con la casa e con il mondo.
Non abbiamo parlato della madre però questo era il tema e pare che sia emersa una paternità sempre in relazione con la madre.
Ci avviamo alla conclusione ascoltando la lettera di un padre, Riccardo Rossi, alla propria figlia:
Oggi parliamo bene di un uomo che non viene considerato molto, ma che a un certo punto della sua vita NON ha preso una decisione e ha fatto comunque un figlio, o magari meglio per lui, una figlia, ed è a questa ragazza che vorrei parlare...
Quando parliamo di quest'uomo che ci conosce un po' meglio solo da grandi dobbiamo considerare sempre il fatto che parliamo di un bambino che diventa ragazzo e poi uomo suo malgrado, ma non diventa mai adulto e tutte le cose della vita gli cadono addosso anche se lui non vorrebbe, perché sa di doverle affrontare senza sapere come.
È quell'uomo che a volte non ha un posto dove stare a casa, perché torna sempre per ultimo, e solo da vecchio lo trovi sempre sulla poltrona con un giornale e ti farà finalmente tenerezza: perché tuo padre è quell'uomo che ti ha insegnato ad andare in bicicletta tenendoti il sellino da dietro per non farti cadere.
È quell'uomo del quale ti ricordi solo all'ultimo momento di farti una foto con lui ai tuoi compleanni e se invece al suo ti scordi di fargli gli auguri non ci rimarrà male, perché lui lo sa che non l'hai fatto apposta.
Sappi che quell'uomo, quando uscirai per la prima volta con un ragazzo, non dormirà tutta la notte aspettando il tuo ritorno, e il giorno dopo non ti chiederà come è andata, non perché non gli interessa, ma perché ha paura che tu ti sia trovata bene con un ragazzo che con te non c'entra niente.
È quell'uomo che quando trovi una sua foto da giovane, ti sembra sempre fichissimo e ti dispiace di non averlo conosciuto allora, quando faceva lo scemo con tua madre.
È un uomo che ogni volta che esce con la macchina spera che piova per incontrarti e darti un passaggio.
Tuo padre è quell'uomo che quando tornavi troppo tardi ti sgridava, ma dentro ti voleva solo abbracciare.
È quell'uomo che può litigare con chiunque per tutta la vita ma con te vorrà sempre fare pace in un attimo, perché è quell'uomo che ti amerà come non ha mai amato niente nella sua vita.
Tuo padre è quell'uomo che quando ti sposerai compirà l'ultimo sacrificio che la vita gli chiede: portarti all'altare e guardarti da dietro mentre ti lascia la mano...
E ricordati, cara figlia mia, che se una volta, quando sarai una donna, dovessi attraversare un momento difficile in cui ti sentirai sola come mai ti è successo e non troverai nessuno accanto, dovrai girare la testa per guardare dietro di te. E troverai un uomo solo. Tuo padre.
E infine vi propongo di ascoltare, prima di dibattere insieme, una canzone di Laura Pausini: “Viaggio con te”.
Ci svegliavi con un bacio e poi te ne andavi a letto, mentre noi correvamo in quella scuola che ci dicevi: insegna a vivere. Ma la vita l'hai insegnata tu ogni giorno un po' di più con quegli occhi innamorati tuoi di due figlie matte come noi. Cosa non darei perché il tempo non ci invecchi mai.
Ho imparato a cantare insieme a te nelle sere d'estate, nei caffè ho imparato il mio coraggio e ho diviso la strada e l'allegria, la tua forza e la tua malinconia, ogni istante, ogni miraggio. Per le feste tu non c'eri mai, mamma apriva i pacchi insieme a noi, il lavoro ti portava via, la tua solitudine era mia.
Cosa non farei per ridarti il tempo perso ormai. Ho imparato ad amare come te questa vita, rischiando tutta me ho imparato il tuo coraggio e ho capito la timida follia del tuo essere unico, perché sei la meta del mio viaggio per me. E così sempre di più somiglio a te nei tuoi sorrisi e nelle lacrime. Ho imparato il tuo coraggio e ho imparato ad amare e credere nella vita, rischiando tutta me e ho diviso questo viaggio con te, io con te ho imparato il mio coraggio.
Mi risveglio in questa casa mia, penso a quando te ne andavi via e anche adesso cosa non farei per ridarci il tempo perso ormai.