1/ La spiritualità del presente dove l'istante è in un clic, di Fabrice Hadjadj 2/ Il coraggio di dover prendere una decisione, di Fabrice Hadjadj 3/ La scommessa dell'uomo? Avere immaginazione, di Fabrice Hadjadj
- Tag usati: fabrice_hadjadj
- Segnala questo articolo:
1/ La spiritualità del presente dove l'istante è in un clic, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 19/3/2017 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (26/3/2017)
Quasi nessuno legge più Orazio ma tutti ripetono continuamente un frammento dell'ultimo verso della sua XI ode: Carpe diem, «cogli l'attimo», parola d'ordine elaborata e smerciata in migliaia di libri sul “benessere” e sulla “spiritualità”, dove la finezza poetica è stata vantaggiosamente sostituita dai criteri ben più solidi del marketing operativo.
Così troviamo in libreria Il potere di adesso (bestseller nella categoria «Salute e benessere» di Amazon), La serenità dell'istante di Trich Nhat Hanh, Il processo della presenza di Michael Brown o ancora Il metodo danese per vivere felici di Hygge - i danesi sono, secondo la quarta di copertina «le persone più felici del mondo» (ormai non c'è più niente di marcio in Danimarca).
Ci si domanda come mai questi autori tanto soddisfatti dall'istante presente si diano la pena di pensare ai lettori futuri. Probabilmente mirano al bestseller solo per spirito di sacrificio. Nella sua ode a Leuconoe, prima di parlare dell'attimo da cogliere, Orazio parla degli dei e ci mette in guardia contro l'astrologia come rappresentativa di ogni tecnica finalizzata ad avere un controllo sul futuro: «Tu non chiedere - è sacrilego sapere - quale fine a me e quale fine a te gli Dèi abbiano concesso, o Leuconoe, e non consultare i calcoli babilonesi. È meglio patire ciò che sarà».
Cogliere l'attimo, è innanzitutto superare ogni calcolo e ogni pianificazione, anche quando tale pianificazione riguardasse soltanto il minuto successivo, perché concentrarsi sull'istante presente può anche essere al solo scopo di emanciparsi dal passato e dal futuro, dimenticare l'irreversibilità del primo e trascurare l'imprevedibilità del secondo, mantenere il proprio self-control…
Poi, secondo Orazio, il Carpe diem si fonda su un rapporto con la provvidenza divina: bisogna non essere sacrileghi al punto di preferire la sofferenza per ciò che sarà piuttosto che godere o lamentarsi di ciò che avremo saputo in anticipo.
Questo rapporto è chiarito in una frase dell'ottava ode che riequilibra il Carpe Diem fin troppo famoso: Permitte divis cetera, «Rimetti tutto il resto agli dei». Di conseguenza, cogliere l'attimo non si riduce al solo momento presente: suppone una promessa e una speranza, la memoria che nel passato gli dei furono favorevoli e la coscienza che i mali che permetteranno saranno solo delle prove.
Al contrario, la molto postmoderna spiritualità dell'istante si allinea perfettamente ai «calcoli babilonesi» rievocati dal poeta. Oggi quei calcoli si sono evoluti. Sono gli algoritmi di Google, gli standard del 5G... Ecco 145.000.000 risultati in 0,54 secondi. Ecco che tutto è subito reso presente dal più piccolo comando vocale, secondo un'unità di misura che supera la nostra immaginazione (gli orologi atomici riescono a suddividere l'istante fino al miliardesimo di secondo).
La nostra è l'epoca dell'istantaneità. Le nuove tecnologie perfezionano la nostra impazienza. Abbiamo tutte le ragioni di darci a una push-button spirituality.
Da una parte, la tela mondiale nella quale siamo intrappolati è così complessa, dipende di calcoli così disumani, è presagio di tali catastrofi, che ci sentiamo inadeguati alla nostra responsabilità nei suoi confronti: una tale impotenza davanti al Titano ci incita a non considerare più l'avvenire e a rifugiarci in un presente senza presenza, fuori dal mondo concreto, il mondo storico (i venditori di Carpe diem non smettono di parlare di «stato di risonanza armoniosa col mondo» mentre, nelle miniere del Congo, schiavi negri crepano per estrarre i minerali che servono al funzionamento dei nostri apparecchi social).
D'altra parte, l'impulsività aggressiva del sistema ci spinge a reagire, a fare marcia indietro, ma senza scendere dalla macchina: si resta nell'impulsività, ma un'impulsività pacifica, quella di una pace interiore che sarebbe possibile avere immediatamente – la scorciatoia del clic è certamente preferibile alla via crucis.
Sbaglieremmo, tuttavia, ad accusare i poveri adepti del Consumer Electronics Show. Questo movimento viene da lontano. Temo che Orazio stesso non fosse così chiaro. Anche dei bravi cristiani hanno interpretato il comando evangelico di non preoccuparsi dell'indomani (Mt 6 34) come un appello di Cristo a vivere istante per istante, con la profondità di un pesce rosso nella sua boccia (leggono «A ogni giorno basta la sua pena», e capiscono «A ogni giorno basta il suo benessere»).
A dire il vero, la religione dell'istantaneità è il risultato di tutta una storia della metafisica dove si è affermato il primato del presente. Secondo questa metafisica, l'essere che è pienamente è l'essere attuale, interamente dato, senza nessuna riserva, senza nessuna potenzialità, e l'avvenire è percepito come il segno di una mancanza e la necessità di un supplemento.
Tommaso d'Aquino non afferma forse l'essere innanzitutto come atto? Certo, ma attenzione al controsenso: l'atto per lui non è la semplice attualità. È potere attivo, bontà, fecondità, e dunque gravido di avvenire. Così anche, per eccellenza, la presenza sostanziale di Cristo nell'Eucarestia: porta con sé tutto uno slancio di missione e di visione futura.
La vera presenza è attenzione e l'attenzione apre sempre un orizzonte di attesa operosa. Essere attento a qualcosa o a qualcuno è vegliare su di lui e accompagnare la sua crescita. Ma anche, reciprocamente, quando qualcuno mi è vicino, quando appare per ciò che veramente è e cioè il mio prossimo, la sua presenza stessa sfugge al presente, perché impegna l'avventura dell'incontro, della giustizia e dell'amore.
Lévinas ha detto: «La relazione con un altro è l'assenza dell'altro; non assenza pura e semplice, non l'assenza del puro nulla, ma assenza nell'orizzonte di un avvenire». La spiritualità dell'istante presente è fatta su misura per l'era tecnologica. I suoi adepti non hanno figli a cui trasmettere, non hanno moglie alla quale restar fedeli (sarebbe troppo avvenire o troppo passato) e scaricano la preoccupazione di assicurare la loro sussistenza sul grande macchinario globale.
2/ Il coraggio di dover prendere una decisione, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 12/3/2017 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (26/3/2017)
«Della necessità forza maggior non c'è», dice Menelao nell'Elena di Euripide. Non ascolta le nostre preghiere. Non ha altari per renderle grazie. «Di necessità virtù» afferma un proverbio; «La necessità non conosce legge» recita un altro.
Queste affermazioni contrarie esprimono la stessa cosa: l'inevitabile, l'irreparabile, l'indiscutibile… Ecco perché, imprendibile nella sua durezza più di un bunker, la necessità può diventare una facile scappatoia, giacché se non ci si può fare niente ci si sente liberi da ogni responsabilità, si ignora l'angoscia ma anche il coraggio di dover prendere una decisione.
Dice Kierkegaard: la «categoria più pesante» non è il necessario ma il «possibile». Lo slogan della campagna presidenziale del 2007 di Nicolas Sarkozy, «Insieme tutto diventa possibile», vorrebbe spalancare orizzonti e invece impone un fardello schiacciante.
Questa frase non solo implica la possibilità del meglio come del peggio, ma fa soprattutto l'elogio di un'indeterminazione totale che disorienta e finisce solamente per deludere (e in questo senso fu abbastanza profetica di ciò che sarebbe stato il quinquennio del futuro presidente).
L'innovazione tecnologica si nasconde molto spesso sotto questo gonfalone: allarga il campo del possibile. E rende così impossibile ogni contestazione. Quale rimprovero si potrebbe farle, visto che restiamo liberi di accettare o di rifiutare le novità che ci propone?
È questo infatti il significato stesso della parola “virtuale”. Il virtuale si oppone all'attuale, è una possibilità che resta a portata di mano e che rimane tale finché non la si afferra. Del resto, non si tratta più di afferrare né di prendere con le mani, ma di accarezzare un vetro, sfiorare uno schermo tattile.
Questa affascinante virtù del virtuale - proporci il mondo intero in una bottiglia - corrisponde a dire il vero a un vizio molto antico: l'avarizia. L'avaro sta seduto sul suo mucchio d'oro, o piuttosto, disteso sul suo estratto conto, senza mai diminuirne il saldo comprando un bene materiale. Acquistare qualcosa, con i suoi contorni, la sua fisicità, con il suo peso, equivarrebbe a diminuire il suo potere di acquisto che è innanzitutto un potere fantasmatico: procurarsi l'ultima Maserati sarebbe rinunciare a una vecchia Jaguar o a un camper Mercedes. Occorre all'avaro mantenere questo potere assolutamente intatto per proiettare all'infinito tutte le traiettorie immaginabili e non realizzarne mai nessuna.
Così, l'innovazione costante non permette nessun progresso reale della persona: questa viene spinta sempre più rapidamente in un movimento rotatorio sempre più ampio, dove le uscite si moltiplicano senza sosta ma dove non si deve mai prenderne nessuna perché questo sarebbe rinunciare alle altre. Per fare un passo avanti in questa riflessione, conviene operare una distinzione tra due generi di possibili: il possibile come potenzialità, o potere, e il possibile come “possibilitazione” (o aggiunta).
Ci sono dei possibili che sono relativi a un potenziale, ovvero a un potere iscritto in una natura che si tratta di fare passare all'atto: la rosa è una potenzialità del ramo del rosaio; l'agricoltura, l'ebanisteria o la poesia, sono potenzialità delle nostre mani di uomini. La possibilitazione, al contrario, consiste nell'aggiunta di una possibilità nuova, certo, ma posticcia, impiantata, senza legame diretto con una potenza naturale. Là dove la potenzialità fa fiorire, la possibilitazione, sovraccarica o sovrappone. Il fiore è sostituito dalla fioritura. Il rosaio è munito di un transistor e permette oramai di ascoltare i talk show con i parlamentari e le star televisive.
Sotto questo aspetto, si può dire che la forza dell'innovazione tecnologica è quella di una possibilità senza potenzialità o di un potere senza potere. I possibili che ci offre ci impediscono di realizzare le nostre tendenze più essenziali, e la frustrazione che ne deriva ci rende ancora più dipendenti da essa, suscitando in noi il desiderio di altri gadget: la protesi bionica serve a nascondere la miseria alla nostra mano privata di ogni arte. L'innovazione tecnologica non apre il campo dei possibili perché non si tratta più di un campo da coltivare; continua ad annettersi nuovi deserti, lasciando il campo incolto.
3/ La scommessa dell'uomo? Avere immaginazione, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 5/3/2017 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (26/3/2017)
Ne La morte di Ivan Il'ic Tolstoj non si accontenta di descrivere l'incapacità di un uomo di accettare la propria morte, giacché è consigliere di corte d'appello, mondano e abituato a giudicare piuttosto che essere giudicato; Tolstoj mostra anche l'incapacità della pura logica di giungere a un'evidenza. Il ben noto sillogismo conserva la sua pertinenza sillogistica ma la conclusione astratta non riesce ad afferrarci nel vivo della carne: «Il'ic aveva imparato nel trattato di Logica di Kizeveter questo esempio di sillogismo: “Caio è un uomo; tutti gli uomini sono mortali; dunque Caio è mortale”.
Questo ragionamento gli pareva completamente giusto quando si trattava di Caio ma non quando si trattava di se stesso. Era in questione di Caio o l'uomo in generale, e allora era naturale, ma lui non era né Caio né l'uomo in generale, lui era un essere diverso: era Vania, con mamma e papà, con Mitia e Volodia, con i suoi giocattoli, il cocchiere, la serva, poi con Katenka, con tutte le gioie, tutti i dispiaceri e tutti gli entusiasmi della sua infanzia, della sua adolescenza e della sua gioventù. Era Caio che era stato innamorato? Era lui a dirigere così magistralmente i dibattimenti del tribunale?».
Nel Viaggio al termine della notte Céline dice qualcosa che completa bene il giudizio di Tolstoj: «Quando non si ha immaginazione, morire è poca cosa, quando se ne ha, morire è troppo». Un ragionamento ci colpisce concretamente solo mediante un corteo di immagini. Il linguaggio biblico lo dimostra: Dio non si rivela attraverso sillogismi, ma attingendo alla sua prima parola, quella della Creazione, fuoco, vento, roccia e acqua, sfogliando le pagine di un album rurale, con le sue greggi da condurre e i suoi campi da arare.
Anche il digitale si sottomette a questo ordine: i suoi bit ci seducono solamente perché producono un turbine di effetti visuali e sonori. Attraverso gli schermi, l'informatica è costretta a rendere omaggio al sensibile, sebbene lo faccia controvoglia, rifiutandogli il primato e pretendendo di ricostruirlo con un codice binario.
Noi non siamo angeli e neppure dei sistemi-esperti. Per il logos l'analogia è più fondamentale della stessa logica. L'immaginazione non è il contrario della ragione, ma ciò che rende la ragione umana, che fa passare di un assenso nozionale a un assenso reale (J. H. Newman)… Questo non vale soltanto per la morte (perché si potrebbero ridurre le due precedenti citazioni a quest'unico oggetto fuggitivo).
Questo vale anche per mia moglie e per tutto ciò che esiste e mi deve toccare… Posso sapere cosa sia il matrimonio attraverso le nozioni di unità, di fedeltà, di fecondità, ma se intorno non ho figure, avventure, esempi, questo è "poca cosa"; e se ne ho di tutti i colori allora "è troppo", posso intravedere la storia inesauribile che promettono queste due parole.
L'immaginario che da carne ai nostri concetti non è tuttavia lo stesso attraverso le epoche. Dipende dal nostro ambiente. In questo senso, la questione della verità si sposta della logica a una eco-logica. L'ambiente per noi non è mai quello della pura natura, ma di una natura mediata da una cultura. Il nostro "mondo primordiale" è quello dell'uso, come osserva Heidegger.
Un fiume ci appare differentemente a seconda che sia luogo di pesca, di ponte, di passeggiata o di centrale idroelettrica. E se, attraverso la poesia, mi ricorda la metamorfosi di una ninfa, lo concepisco con un freschezza ancor diversa.
Abbiamo così modi, o meglio "maniere di vedere", vale a dire che la nostra visione è condizionata da quello che facciamo con le nostre mani. Ora e labora, dice il motto benedettino. Oltre a una complementarità tra elevazione spirituale e lavoro manuale, il motto afferma che in noi la ragione contemplativa non può essere separata dalla ragione strumentale, e che queste si condizionano reciprocamente.
Allora, quelli che criticano la tecnologia in quanto regno della "ragione strumentale" e gli oppongono una "ragione contemplativa" sbagliano. Dimenticano che la contemplazione dipende da una certa strumentalità e abbandonano di conseguenza la strumentalità e i modi di produzione al dominio del potere in carica. È così che la "contemplazione", la "meditazione" non sono più attività "borghesi" (Marx).
Per denunciare il "virtuale" essi diranno: «Bisogna riconnettersi al reale» senza accorgersi che la modalità di ritorno al reale che propongono è ancora quella della tecnologia. Se la parola nexus rimandasse all'opera minuziosa del tappezziere, o al nodo di un intrigo la cui soluzione ci sfugge, la "riconnessione" potrebbe avere un senso critico. Ma siccome questo termine resta attaccato all'immagine internautica del legame istantaneo e pulsionale, il loro sforzo concettuale è rovinato dalla miseria delle loro mani.
È questa l'affermazione centrale dei lavori di Matthew Crawford: «Il senso del "problema della tecnologia" è praticamente il contrario di ciò che generalmente si dice: ciò che pone problema, non è la "razionalità strumentale", ma il fatto che viviamo in un mondo che, infatti, non sollecita la strumentalità incarnata che è consustanziale al nostro essere». Non ci si oppone al macchinario disincarnato con bei discorsi né con la
mindfulness, ma con una lotta sociale per ristabilire una "strumentalità incarnata". Si resiste alla
digitalizzazione mondializzata soltanto opponendogli una vera digitalizzazione (e qui l'immagine può di nuovo rovesciare il concetto) e cioè reimparando con le dita la pazienza di un saper fare.
Se l'ambiente del mio matrimonio non è più quello di una coltura col suo lento germogliare e le sue mietiture precarie, con i suoi strumenti musicali che aprono, attraverso corde e pezzi di legno e fatica, l'infinito delle sonate e delle canzoni; se si riduce a "navigazione" e "apps" ultrarapide, allora le nozioni stesse di fedeltà e di fecondità mutano: la fedeltà diventa l'esattezza di un orologio, priva di dramma e dunque chiusa al perdono; la fecondità si trasforma in esperimenti innovativi, dove un bambino ci sembra meno nuovo di una blockchain.