I miei mai inutili regali a papà. San Giuseppe. La tenerezza di una festa e dei legami, di Giacomo Poretti
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Il Centro culturale Gli scritti (19/3/2017)
È la festa del papà. Per tutta una vita gli ho regalato inutili cravatte e trousse per la barba da viaggio. Forse speravo che portasse la mamma a vedere qualche posto del mondo che non fosse l’Alto milanese. La cravatta portava solo quella azzurra che gli aveva regalato la mamma a un Natale appena sposati, per il resto quelle poche volte che si muoveva dal paese faceva in modo di essere a casa al mattino per radersi davanti al suo specchio. Non ho mai azzeccato i regali per papà, non era facile fargli regali. Come del resto a tutti i papà.
Il mio, di papà, se n’è andato 13 anni fa, il 13.3 del 2003. Quanti 3!
L’ultimo sguardo ce lo siamo scambiati mentre io ero seduto in un corridoio dell’ospedale, in quel mentre si è aperta una porta di una saletta medica, è uscito un infermiere indaffarato dimenticandosi di chiudere. Papà sarà stato a 9-10 metri, si era messo seduto sul lettino perché respirava male, aveva indosso uno di quei grembiuli bianchi allacciati dietro con due fiocchi che ti lasciano le gambe scoperte. Si è girato verso lo squarcio della porta e i suoi occhi mi hanno detto che non poteva sorridermi come faceva di solito quando mi vedeva perché doveva cercare di respirare, gli occhi hanno aggiunto che aveva bisogno di aiuto, la serietà del suo viso mi diceva quanto si imbarazzava a mostrarmi, forse per l’ultima volta, la sua fragilità.
Non l’ho più visto, e fin da allora mi è rimasto un senso di colpa per non essermi alzato da quella sedia e per non esser corso a raggiungerlo e sorreggerlo per fargli prendere aria.
Forse entrambi, quando si è chiusa la porta, abbiamo pensato che non era il caso di preoccuparsi troppo, che ne saremmo usciti anche quella volta. Noi maschi a volte siamo stupidi così.
Non l’ho più visto. Lo rivedrò.
Non so a chi manca di più: alla mamma, a mia sorella, a me, ai suoi amici, alle sue nipoti, a sua nuora e al suo genero. Ogni tanto si intrufola nella mia vita, viene a farmi visita nei sogni, talvolta per sgridarmi, altre volte per dirmi che per le decisioni importanti della mia vita forse dovrei interpellare ancora lui; una volta, sempre in sogno, mi ha perfino detto «basta rasoi e cravatte!, se vuoi farmi un bel regalo comprami una cassetta di legno con 6 bottiglie di Bonarda, e senza che ti vergogni fatti stringere la mano».
Periodicamente alla sera verso le 20 mi dico che devo telefonare a papà... poi mi ricordo che da quelle parti forse non c’è il telefono.
Il mio amico Giampaolo dice che loro se ne sono andati solo apparentemente, che non si sono scordati di noi – siamo noi che a volte ci scordiamo di loro –, e che amano comunicare con noi per telepatia, un po’ come fa Dio. Dice che è impossibile che ci si perda di vista. Giampaolo di mestiere non ho capito se cura i matti o se sono i matti che si curano di lui.
Io però ci credo. Che i nostri padri non ci dimenticano. E nemmeno Dio.
Del resto, come fanno le mamme e i papà a dimenticarci? Siamo stati là dentro, in quella pancia, per quasi un anno, è un po’ come avere un taglio in faccia che non va più via, anche se vai dal chirurgo plastico più bravo dell’universo. Come fanno a dimenticarci, le mamme?
Ma anche i papà, anche se non hanno un taglio sulla faccia non ci scordano, perché anche se per tutta la vita sembrano forti e noncuranti, i papà hanno in fondo a loro una delicatezza insospettabile; quella delicatezza che sorge in loro appena comprendono che dal loro sangue è uscita un’altra vita. E che a quella vita bisogna tendere la mano, e che da quella vita si cerca la sua mano quando il respiro viene meno.
Ohhhh, quanto la facciamo difficile a volte! Che la vita sia un semplice, sublime darsi la mano?
Quanto è stato bello entrare nel mondo dando la mano a mamma e papà. Quanto sarebbe bello ridare la mano a papà. La ridarò. In fondo è solo in viaggio, e magari con una trousse che gli ho regalato.
Fidatevi di Giampaolo.