Dalla disobbedienza di Giona alla relazione con Dio. Il libro di Giona, di suor Pina Ester De Prisco
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Riprendiamo sul nostro sito un contributo di suor Pina Ester De Prisco. I neretti sono nostri ed hanno l’unica finalità di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (19/3/2017)
Il libro di Giona è letto dagli ebrei nel giorno di Yom Kippur - giorno dell’Espiazione -, è un libro molto piccolo, solo quattro capitoli, e il genere letterario è quello del racconto o della parabola; un libro ricco di ironia, che viene letto per istruire e per piacere.
Il nome “Giona” significa colomba, con un richiamo alla colomba che Noè manda in perlustrazione dopo la fine del diluvio per verificare se le acque si erano ritirate. Un richiamo alla colomba del Cantico dei Cantici, alla colomba del libro di Osea in cui è indicata come ingenua e priva di intelligenza e infine alla colomba immagine del popolo dei profeti.
La struttura del libro può aiutarci a cogliere vari passaggi presenti in esso.
Dividiamo il primo capitolo in due parti:
- vv. 1-3 La chiamata di Dio rivolta a Giona e la sua fuga;
- vv. 4-16 Giona sulla nave con i marinai e in balia delle onde.
A Giona, come a tutti i profeti, viene rivolta una Parola dal Signore, che sintetizza e sottolinea il fulcro della sua missione: «Alzati, vai a Ninive la grande città e in essa proclama che la loro malizia è salita fino a me». Ma Giona non obbedisce e si allontana dalla missione che Dio gli ha affidato, per mettersi in cammino nella direzione opposta e imbarcarsi verso Tarsis, pagando anche un prezzo per il trasporto. Giona vuole allontanarsi dal Signore e a differenza degli altri profeti non apre con il Signore nessuna resistenza e non avanza inadeguatezza alla missione ricevuta (cfr. Mosè, Isaia, Geremia), ma semplicemente si distacca. Scende a Giaffa e sulla nave si scatena una grossa tempesta, tanto che la nave sta per sfasciarsi, e tutti i marinai cominciano a pregare ciascuno il proprio dio, tranne Giona, che sceso nella parte più riposta della nave, si addormenta profondamente. Il capo dell’equipaggio lo raggiunge e lo sveglia e gli racconta quanto sta accadendo e chiede anche a lui di pregare perché siano liberati dalla sciagura, perché sperano che “Dio si darà pensiero di noi e non periremo”.
I marinai per capire chi sia il movente della disgrazia, gettano la sorte, che cade su Giona, e lo interrogano sulla sua storia, e sulle motivazioni che lo hanno portato su quella nave. Giona, che non aveva accettato la missione di andare a Ninive ad annunciare, si ritrova a dover raccontare quanto gli è accaduto e svelare la sua identità.
Quegli uomini, allora, furono presi da grande timore, perché Giona stava fuggendo proprio dal Dio che ha fatto il mare e la terra! E il posto scelto per la sua fuga non era stato strategico! Allora, i marinai capiscono che bisogna intervenire e chiedono a Giona cosa possono fare per placare il mare e quest’ultimo ha ormai chiaro che l’unica cosa da fare è scendere da quella nave: solo così la tempesta si placherà. I marinai cercano di avvicinarsi quanto più possibile alla spiaggia, perché non vogliono gettare Giona in mare aperto, ma il mare andava crescendo sempre di più e impediva loro il raggiungimento della spiaggia e così sono costretti a liberarsi di Giona in mare, ma prima di farlo invocano il Signore - e non più i loro dèi - e chiedono che non ricada su di loro il sangue innocente di quest’uomo. Un’espressione che ci rimanda al racconto della passione, quando Pilato, prima di condannare a morte Gesù, disse al popolo: «Non sono responsabile di questo sangue; vedetevela voi» (cfr. Gv 27,24-26).
Nel primo capitolo ci sono due verbi contrapposti tra loro, il primo è rivolto a Giona da Dio e in seguito dal capo dell’equipaggio: “Alzati” (vv. 1.6). Il secondo verbo sottolinea il cammino di Giona: “scese” a Giaffa, “scese” nella nave, “scese” in mare. Non solo Giona si allontana dal Signore, ma opera anche il cammino contrario, all’invito ad alzarsi, a mettersi in piedi dinanzi a Dio e agli uomini, Giona fa il percorso inverso, sceglie l’isolamento sempre più radicale, che è la lontananza da Dio e dagli uomini.
Il chiedere ai marinai di essere gettato in mare è il primo atto di resa di Giona, egli accetta di morire, perché capisce che in nessun modo può sfuggire al Signore, ed è forse anche la sua prima presa di coscienza di accorgersi che intorno a lui c’è altra gente, che rischia di morire a causa sua.
Una parola anche sulla figura dei marinai - pagani - che dimostrano grande rispetto e timore verso Jhwh e nei confronti di Giona; sembra descritto in loro un processo di conversione. All’inizio del viaggio pregano ognuno il loro dio, ma cercano di aiutare Giona - che neanche conoscono -avvicinando la nave alla spiaggia, e prima di gettarlo in mare, pregano Jhwh e, infine, nei loro cuori cresce un grande timore. Sono i pagani che con il segno di Giona si convertono al «Signore del cielo, che ha fatto il mare e la terra» (Gn 1,10).
Il secondo capitolo fa da cerniera nello svolgimento della storia e infatti troviamo un salmo di ringraziamento. Quasi certamente si tratta di materiale estraneo al libro.
Anche il secondo capitolo segue la divisione in due parti come il primo:
- vv. 1-3 Descrizione della permanenza di Giona nel ventre del pesce;
- vv. 4-10 Preghiera di Giona.
Il Signore “prepara” a Giona un grosso pesce che lo inghiotte, salvandolo dalla morte e Giona rimane nel ventre del pesce per tre giorni e tre notti.
Un midrash molto simpatico racconta il sostare di Giona nel pesce, sostenendo che all’inizio fu inghiottito da un pesce maschio e il profeta continuava a starsene da solo, in silenzio, senza entrare in contatto con Dio, ma il Signore, per metterlo alle strette, decise di farlo ingerire da un pesce femmina, gravida di tantissimi pesciolini e Giona cominciando a soffocare, e a stare troppo stretto in un ventre con così tanti pesciolini, cominciò a supplicare il Signore.
Stretto dall’angustia, dal buio e dall’angoscia, Giona si rivolge al Signore, ed è l’esperienza che facciamo ciascuno di noi, lì entriamo in contatto vero con Dio. Nel pesce Giona prega e lo fa con un salmo, che è un mosaico di salmi di diverso genere letterario, ma la predominanza è quello del ringraziamento, dopo il pericolo scampato. È interessante che in questo salmo, Giona usi due verbi chiave per descrivere la sua esperienza, che abbiamo trovato e osservato nel primo capitolo: «Sono sceso alle radici dei monti… Ma tu mi hai fatto risalire…» (v. 7). Giona cercava di scendere sempre di più, ma in realtà è il Signore che l’ha riportato in alto.
Un’altra condizione che Giona vive, è quella dell’espulsione: è espulso dalla sua città per la chiamata ricevuta da Jhwh; è espulso dalla nave, perché la sua permanenza metterebbe in pericolo tutte le persone presenti in essa; è espulso dal pesce, perché Dio per una seconda volta decide ancora di parlargli; è espulso dalla città di Ninive, perché gli sembra che per la conversione dei pagani non ci sia più spazio per i figli; è espulso dal ricino, perché Dio vuole insegnargli la sua misericordia. La sua vita è all’insegna di tale esclusione. Ma non un’esclusione dal rapporto con il Signore, come vedremo alla fine del libro.
Il secondo capitolo ha una pregnanza cristologica molto forte.
Gesù stesso riferisce a sé l’esperienza di Giona nei vangeli di Matteo e Luca, quando i farisei, gli scribi (Mt 12,38-42) e la folla (Lc 11,29-32) chiedono a Gesù un segno e Lui risponde che non sarà dato alcun segno se non quello di Giona. Come Giona rimase nel ventre del pesce per tre giorni e tre notti, così il Figlio dell’uomo rimarrà tre giorni e tre notti nel cuore della terra. I tre giorni rappresentano lo spazio del tempo aldilà del quale la morte è definitiva e irreversibile. Come Giona fu un segno per i marinai e per quelli di Ninive, così Gesù lo sarà per ogni uomo. Gesù è il segno unico ed inequivocabile della vittoria sulla morte.
Anche il riferimento al pesce è carico di simbologia, perché esso rappresenta il mostro marino, il Leviathan, la morte e, dunque, come Giona riesce a vivere dopo l’esperienza di essere inghiottito dal pesce, così sarà, in modo più definitivo, per il Cristo e per quanti gli appartengono. È il segno e il mistero della morte e resurrezione di Gesù.
Dopo l’intensa preghiera il Signore comandò al pesce di rigettare Giona sull’asciutto della terra.
Siamo arrivati al terzo capitolo, che dividiamo anch’esso in due parti:
- vv. 1-3 Missione affidata da Dio a Giona;
- vv. 4-10 Rapporto di Giona con la grande città di Ninive.
Ecco che una seconda volta il Signore rivolge a Giona la sua Parola, ma a differenza della prima volta, qui Giona non oppone resistenza e obbedisce.
Ninive è una grande città, e per attraversarla c’era bisogno di tre giornate di cammino.
Giona comincia a percorrere la città per un giorno di cammino e predica che tra quaranta giorni, Ninive sarà distrutta. Subito i cittadini di Ninive credettero al Signore e tutti, anche gli animali, cominciano a fare penitenza. Anche il re si spoglia delle sue vesti regali e veste il sacco e si siede sulla cenere e invita tutti a fare penitenza. Per Ninive basta solo un giorno di cammino, solo un annuncio e si converte; a Giona è servito un lungo cammino per aderire alla parola del Signore. Traspare un Dio da un cuore magnanimo, che aspettava solo un segno di conversione e che si ritrae rispetto al male pensato, perché Dio non vive per fare del male all’uomo, bensì per fare il suo bene.
Giunti al capitolo quarto ci aspetteremmo un epilogo della storia ormai conclusa e invece ecco aprirsi un nuovo scorcio. Probabilmente siamo di fronte a una delle pagine più affascinanti della Scrittura, perché racchiude in pochi versetti e in tre domande il rapporto che Dio costantemente viene a creare con l’uomo. Tre domande che rimangono aperte per Giona, ma soprattutto per il lettore.
Per facilità dividiamo anche qui il capitolo in due parti, anche se il dialogo descritto è un tutt’uno:
- vv. 1-4 Indignazione di Giona per la salvezza dei niniviti – nella città;
- vv. 5-11 Dio cerca di far ragionare Giona attraverso alcune domande – fuori la città.
Giona al cambiamento di Dio nei confronti di Ninive si indispettisce e si rattrista, e accusa Dio per la sua misericordia e sostiene che non c’era motivo di farlo andare a Ninive, se poi il suo è un atteggiamento benevolo nei confronti del popolo. E dinanzi allo stato delle cose invoca per sé la morte. Dio gli rivolge la prima delle tre domande: «Ti sembra giusto essere sdegnato così?».
Ma Giona, non solo non risponde, ma esce da Ninive, va ad oriente della città e si mette sotto un albero, per vedere cosa sarebbe avvenuto in città. Si mette al riparo delle frasche e Dio gli fa crescere sulla testa una pianta di ricino, per ripararlo dal sole e liberarlo dal suo male: Giona, tranquillo al riparo dell’albero, si addormenta e prova gioia per quella pianta sulla sua testa.
Ma al mattino, Dio, che aveva fatto crescere la pianta di ricino, manda un verme a rodere il ricino e questi si secca: Allo spuntare del sole fa soffiare un vento di oriente afoso e Giona si sente venire meno e comincia per la seconda volta ad invocare la morte. E qui, Dio, per la seconda volta, rivolge a Giona una domanda: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di ricino?». Giona, questa volta, risponde e ammette la sua rabbia e il suo desiderio di morire per quel ricino seccato, che gli aveva procurato tanta gioia.
Dio rivolge a Giona un’ultima e grande domanda, che le racchiude tutte e che è la questione di ogni tempo, che fa leva sull’egoismo dell’uomo. Dio racconta a Giona di Ninive: un popolo numeroso, in cui non c’è nessuno che istruisca o guidi e per il quale Lui ha avuto pietà, ma per Giona è una misericordia fuori posto, illogica, senza misura.
Il libro si chiude con questa drammatica domanda: ci sono popoli senza pastore, popoli abbandonati a loro stessi, popoli di cui nessuno ha cura, che non hanno la capacità di distinguere tra il bene e il male, ma Giona – come ognuno di noi - è troppo preoccupato per sé, per il ricino, per il suo male e non riesce a vedere il male degli altri. Giona vuole dormire nel ventre del pesce, vuole riposare al riparo della pianta, mentre il Signore vuole coinvolgerlo nella sua opera di salvezza e misericordia. È una domanda scomoda quella di Dio che fa tremare ogni uomo. È la domanda che ci sentiremo rivolgere alla fine dei tempi: “Sei riuscito a vedere tuo fratello?”.
L’atteggiamento di Giona ci ricorda quello del fratello maggiore nella parabola del Padre misericordioso (cfr. Lc 15,11-32). Il fratello maggiore fa resistenza ad accettare il perdono dato al fratello minore per aver dissipato tutti i beni. E dinanzi a tale resistenza il padre della parabola non disdegna di uscire dalla casa, ove sono in corso i festeggiamenti per il ritorno del figlio minore e infatti leggiamo: «Il padre allora uscì a pregarlo» (Lc 15,28), così come ora Dio non lascia Giona alla sua rabbia, al suo desiderio di morte, non lo lascia allontanarsi da solo, ma con lui cerca di ricucire una relazione. È l’immagine di una madre, che nonostante il figlio faccia capricci, è disposta a spendere tempo ed energia, perché il figlio sperimenti che il suo è un amore unico e irripetibile e perché nel cuore di una madre, come nel cuore di Dio, c’è posto per ciascun figlio, senza che nessuno si senta defraudato o negato dell’affetto che vorrebbe per sé.
L’ultimo capitolo è forse la parte più forte del racconto, perché cogliamo come il Signore cerchi di “agganciarci” nel suo abbraccio e nella sua presa, non vuole che gli scappiamo, ma ci dice anche che il bene che lui prova per gli altri nulla toglie alla pienezza del suo amore per noi.
Noi fondamentalmente abbiamo paura degli altri, di aprirci alla diversità, perché pensiamo di rimanere fuori, e che nella casa non ci sia più spazio per noi, che non ci siano più rivolte parole; il libro di Giona ci insegna che anche se siamo costretti a stare ad oriente della città, ad andare fuori, Dio rimane con noi fuori dalle mura della città. Ed è lì che Dio non lascia “perdere” Giona, ma lo insegue con le sue domande.
Giona non risponde all’ultima domanda, perché è quella più angosciosa che l’uomo porta dentro di sé per tutta l’esistenza: l’amore di Dio per me è unico e irripetibile? Giona è un personaggio molto solo, e forse lo sentiamo vicino nel vortice dei suoi dubbi, delle sue impulsive ribellioni, della sua schiettezza e testardaggine. Forse il silenzio di Giona rispecchia quello di tanti di noi che facciamo fatica ad annunciare. Ma il libro è strettamente teocentrico, perché il vero attore è Dio, che entra in contatto con gli uomini, e Lui non molla la presa di questo profeta ribelle, ma neanche si arrende alla distruzione di Ninive e sempre cerca vie nuove per raggiungerci, dovunque noi siamo.