Il grande esegeta italiano Vittorio Fusco dinanzi alla pericope del giovane ricco. Dobbiamo lasciare tutto per diventare cristiani? Ma allora Zaccheo e le donne che aiutavano Gesù con i loro beni? Breve nota di Andrea Lonardo (Brani di difficile interpretazione della Bibbia XXVIII)
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Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, cfr. la sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (19/3/2017)
La questione che viene affrontata da Fusco nello studio sul giovane ricco[1] ha una posta in gioco di alto valore: per essere cristiani bisogna lasciare tutto? Nulla cambia, quanto a tale decisiva problematica, nelle varianti dei diversi sinottici.
Vale la pena presentarla a partire da un’esperienza vissuta che prescinde dall’esegesi di Fusco a cui subito si giungerà. Mi raccontò una volta un amico frate francescano - che aveva accolto per anni i giovani e le giovani coppie che si recavano ad Assisi per esperienze di preghiera e di formazione cristiana - di essersi reso conto, una volta trasferito in un santuario lontano dalla cittadina umbra, della pericolosità di un modo semplificatorio di annunciare il messaggio francescano.
Stando a contatto lontano da Assisi con i giovani ormai sposati, che aveva incontrato anni prima nei luoghi santi francescani ad Assisi, si era dovuto misurare con i sensi di colpa di costoro che desideravano dare ai poveri quel poco che avevano guadagnato faticosamente, per essere fedeli all’invito a “vendere tutto”, ma non se la sentivano perché la loro famiglia - il coniuge e i bambini - avevano bisogno di un minimo di garanzie anche per il futuro.
Vedendo Assisi lontano da Assisi aveva capito che era ingiusto chiedere ai giovani di donare tutto ciò che avevano, a meno di farsi frati. Chi aveva una vocazione ad entrare in convento era giusto che lasciasse ogni cosa, ma ciò non era secondo il disegno di Dio se invece erano chiamati a costruire una famiglia. Questa, infatti, aveva invece bisogno di una casa, per quanto sobria, e di un minimo di denaro per gli studi e le eventuali malattie dei figli, così come per la loro crescita e il loro futuro.
Gli era apparso evidente che non era evangelico - e nemmeno francescano - predicare indistintamente l’abbandono di ogni risparmio e di ogni forma di proprietà nella vita di chi era chiamato alla vita laicale o sacerdotale. Predicare ai giovani il rifiuto di ogni bene come se fosse un’esigenza per essere veri cristiani era fuorviante e generava solo sensi di colpa.
Perché i laici e gli sposati - e a modo suo anche il clero - avevano bisogno del denaro, ma non per goderne egoisticamente, bensì per svolgere la propria missione. La povertà nella vita laicale era data dall’utilizzare il denaro a favore dei propri cari e per donarlo in elemosina: ma il denaro in quanto tale ed i beni non erano da rifiutare.
Mentre una famiglia cristiana compie il suo dovere cristiano di carità, con le sue offerte ai bisognosi, d’altro canto vive una vera carità e una vera misericordia, accogliendo un figlio in più, mettendo da parte il denaro e non sprecandolo per poterlo utilizzare per gli studi e la crescita dei bambini, spendendolo per le esigenze della famiglia e così via.
Fusco affronta questo problema dal punto di vista esegetico giungendo alle stesse conclusioni dell’amico frate, ma in via più scientifica:
«Appare chiaro […] il problema di fondo per la coerenza complessiva della pericope: nell'episodio del ricco le ricchezze ostacolano la risposta alla chiamata, in quanto quella chiamata esigeva la completa rinunzia ad esse; com'è possibile allora che un caso così particolare illustri l’ostacolo che la ricchezza costituisce non soltanto per chi riceve quella chiamata, ma per tutti, in ordine alla vita eterna?
Va esclusa subito la risposta dell’interpretazione rigoristica […], secondo la quale il ricco potrà salvarsi unicamente cessando di essere tale, spogliandosi di tutto. Essa risulta in contrasto non solo con l’insieme del materiale evangelico […] ma anche con il contesto immediato: quel «lasciare tutto» che il ricco non volle accettare e che Pietro e i discepoli invece hanno accettato, non è richiesto a tutti; il ricco pur restando in una condizione assai pericolosa non è assolutamente escluso dalla salvezza. Diventa più comprensibile anche l’interrogativo di Pietro come problema complementare: perché allora ad alcuni è chiesto di farsi poveri?
D’altra parte, un'interpretazione imperniata sulla povertà come mero «consiglio» […] non riesce a spiegare come il caso di quel ricco esemplifichi l’ostacolo che la ricchezza interpone non solo sul cammino di una speciale vocazione, ma sul cammino della salvezza.
Insufficiente si rivela anche l’interpretazione che punta esclusivamente sull’allargamento post-pasquale del concetto di «sequela» (Légasse: […]). La pericope infatti, mentre esclude che il «lasciare tutto» sia obbligatorio per tutti, presuppone chiaramente che per alcuni è una realtà ben concreta. Certamente gioca un suo ruolo il fenomeno semantico-teologico dell’universalizzazione e spiritualizzazione della terminologia della sequela: il presupposto che tutti siamo chiamati a «seguire Gesù» rende più facile vedere nel caso di quel ricco un ammonimento per tutti. Questo però non basta; l’episodio non vuole illustrare genericamente il radicalismo evangelico, o il pericolo costituito dalla incredulità o dalla disobbedienza in genere, ma precisamente il pericolo costituito dalle ricchezze.
La difficoltà si può risolvere, a nostro avviso, se si tiene presente che la pericope vuole illustrare non tanto qualcosa di positivo quanto qualcosa di negativo: la potenza negativa della ricchezza, la schiavitù che crea, il condizionamento che finisce per esercitare sui suoi detentori, e quindi l’ostacolo che crea in loro nei confronti delle esigenze di Gesù, del regno. Per mettere in luce questa potenza negativa, non è necessario che ci sia assoluta identità tra la richiesta fatta a quell’uomo in quell’occasione e quelle che potranno essere fatte ad altri cristiani; è sufficiente che ci sia un’affinità, un’analogia. Come ha creato ostacolo in quella situazione, così tende a creare ostacolo anche in altre situazioni simili, ogni volta che per Gesù e per il regno si rende necessaria una scelta radicale, una rinunzia alle cose di questo mondo. Si presuppone dunque che per qualsiasi cristiano situazioni del genere non siano soltanto un’eventualità remota, ma qualcosa che è all’ordine del giorno; si presuppone che nel fatto stesso di credere in Gesù, di convertirsi e accogliere il regno come realtà decisiva ormai irrompente, sia insita l'esigenza di scelte radicali: rinnegare se stesso e prendere la propria croce, perdere la propria vita per poterla ritrovare (8,34-9,1; cfr. anche 1,14s.; 9,42-50; 10,13-16; 13,2-13)»[2].
Si noti bene come Fusco ricordi che la disponibilità a lasciare ogni cosa non è opzionale. A tutti i cristiani è chiesta questa disponibilità, ma in forme diverse. È facile capirlo tornando all’esempio sopra citato. Una mamma di famiglia sarà pronta a rinunciare ad una vacanza se la salute dei suoi bambini renderà necessario che lei resti vicino al figlio malato. Un papà sarà pronto a rinunciare all’acquisto di qualcosa che desidera se ciò sarà necessari per permettere a tutta la famiglia di fare una vacanza insieme. Non sarebbero cristiani se non fossero pronti a tali rinunce. Ma resteranno poi cristiani - e veri cristiani - faranno una vacanza tutti insieme e se spenderanno dei soldi per questo. Così saranno cristiani - e splendidi cristiani - se acquisteranno qualcosa per rendere più bella la casa dove accogliere i loro amici: non dovranno sentirsi in colpa per questo, perché la loro casa sarà un luogo disponibile e caldo per tutti. Mentre la renderanno bella, si ricorderanno al contempo dell’elemosina per i poveri e per le missioni della Chiesa. Ma non sono frati e “debbono” pensare alla loro casa, altrimenti non saranno persone di “misericordia”.
Se si assolutizzasse la chiamata del giovane ricco prendendola a modello tout court del cristiano non si comprenderebbe più perché allora i sinottici ricordano che le donne aiutavano Gesù con i loro beni, così come non si comprenderebbe più la vicenda di Zaccheo:
«Tenendo conto sia della dinamica complessiva dell’episodio, sia dei tanti testi lucani sul discepolato e sulla povertà e la ricchezza, appare chiaro che anche nella versione lucana la chiamata del ricco è considerata una chiamata speciale, come quella rivolta a suo tempo ai discepoli. Il valore paradigmatico dell’episodio per tutti i cristiani consiste nell’illustrare il potere negativo della ricchezza: il pericolo insito in essa, anche se non per un’intrinseca malizia delle cose in se stesse, ma per l’atteggiamento del cuore umano nei loro confronti. In positivo, come si realizza per Luca la salvezza del ricco? La risposta sarà data nelle pagine seguenti con l’episodio di Zaccheo (19,1-10). Alla luce di esso, e nel contesto generale del tema in Lc-At,è evidente che per Luca il ricco - con l’intervento dell'onnipotenza di Dio - si salva non necessariamente col disfarsi di tutto in un solo colpo, ma attraverso il retto uso delle ricchezze, assumendo un atteggiamento nuovo di condivisione»[3].
La richiesta di Gesù al giovane ricco, insomma, non è un modello rigido dell’esistenza cristiana, bensì un pungolo continuo che ricorda il pericolo reale delle ricchezze, pur non demonizzando mai i beni. La richiesta di Gesù non deve mai essere dimenticata nella vita della Chiesa, ma nemmeno applicata alla lettera, quasi fosse l’unica forma di vita e tutti i cristiani dovessero farsi frati e monaci. Mai deve cessare un’attenzione ai diversi stati di vita. Una cosa sono i monaci, un’altra i frati, un’altra il clero secolare ed un’altra ancora i laici e gli sposati. Tutti camminano con il Signore, tutti vivono nel dono di sé , ma tale dono ha forme diverse nelle diverse esigenze di vita:
«Indubbiamente quest’esperienza dei primi discepoli non è considerata un rigido «modello» vincolante, ma ciò non vuol dire che sia considerata irripetibile, appartenente ormai solo a una fase del passato ormai non più attuale. Anche Luca dunque non opera certo un restringimento del radicalismo evangelico a un gruppo limitato, ma neppure un livellamento delle diverse forme di vita in cui esso può realizzarsi»[4].
Post scriptum: per approfondimenti, cfr.
-Chi non rinuncia a tutto, non può essere discepolo, di Andrea Lonardo
Note al testo
[1] V. Fusco, Povertà e sequela, Brescia, Paideia, 1991.
[2] V. Fusco, Povertà e sequela, Brescia, Paideia, 1991, pp. 83-85.
[3] V. Fusco, Povertà e sequela, Brescia, Paideia, 1991, p. 112.
[4] V. Fusco, Povertà e sequela, Brescia, Paideia, 1991, pp. 113-114.