Il mondo arabo ha lasciato un ciclo storico legato in modo indiretto alla fase di decolonizzazione per entrare in un nuovo ciclo, di cui non riusciamo a comprendere la complessità. Il tentativo dei “fratelli musulmani” di creare un homo islamicus, rifiutando l’idea di nazione. L’Islam contemporaneo che accetta la laicità, ma non la secolarizzazione. La questione decisiva del trattamento delle minoranze. La differenza fra Tunisia e Algeria, in un audizione di Khaled Fouad Allam
Riprendiamo su nostro sito il resoconto stenografico dell’Audizione del professor Khaled Fouad Allam, docente di Sociologia del mondo musulmano all'Università di Trieste, presso la Commissione esteri della Camera dei Deputati il 24/7/2012, sul tema Indagine conoscitiva sugli obiettivi della politica mediterranea dell'Italia nei nuovi equilibri regionali, con la presidenza del vicepresidente Fiamma Nirenstein. I neretti sono nostri ed hanno l’unico fine di facilitare la lettura on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la messa a disposizione non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritti. Per approfondimenti. cfr la sezione Islam.
Il Centro culturale Gli scritti (19/2/2017)
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sugli obiettivi della politica mediterranea dell'Italia nei nuovi equilibri regionali, l'audizione del professor Khaled Fouad Allam, docente di Sociologia del mondo musulmano all'Università di Trieste.
Saluto e ringrazio il nostro ospite, che è stato deputato nella scorsa legislatura. La sua presenza mi è davvero gradita per le posizioni di straordinaria cultura e la grande vivacità di tutto ciò che il professor Khaled Fouad Allam, di cui mi pregio essere amica, ha detto e scritto nel corso di questi anni. È importante che nel momento in cui ci adoperiamo per capire che cosa sta succedendo nel mondo arabo e islamico ci rivolgiamo alla sua competenza, che sono sicura ci illuminerà.
Do, quindi, la parola al professor Allam affinché svolga la sua relazione.
KHALED FOUAD ALLAM, Docente di Sociologia del mondo musulmano all'Università di Trieste.
Buongiorno, ringrazio l'onorevole Fiamma Nirenstein di cui anch'io mi vanto di essere amico di lunga data. Condividiamo anche talune vedute e posizioni su problematiche estremamente complesse. Ricordo che quando il generale De Gaulle parlava dell'Oriente utilizzava sempre la famosa frase «in Oriente tutto è complicato». Non è una boutade, ma qualcosa di reale e di vero.
Siamo in presenza di un fenomeno di cui l'Europa in generale non ha ancora misurato le conseguenze non soltanto geopolitiche e strategiche, ma anche culturali. È un nuovo ciclo nella storia del mondo arabo e nella storia dell'Islam. Come affermano moltissimi storici esperti di Medio Oriente, Maghreb e Nord Africa, l'unica certezza scientifica che possiamo avere è quella di affermare che il mondo arabo ha lasciato un ciclo storico legato in modo indiretto alla fase di decolonizzazione per entrare in un nuovo ciclo, di cui non riusciamo a misurare e a comprendere né la densità né la complessità né le conseguenze a livello strategico e a livello di nuovi assetti e nuovi equilibri o squilibri mondiali.
La mia non sarà una relazione vera e propria perché preferisco lanciare alcuni spunti di riflessione, ma è comunque frutto di un lavoro di due anni che ho raccolto in un saggio che uscirà alla fine di ottobre presso Marsilio e che si intitola Avere vent'anni a Tunisi e al Cairo. Letture delle rivoluzione arabe. Ho voluto che il sottotitolo fosse rivolte/rivoluzioni perché è scientificamente molto più probante per me.
Le questioni linguistiche sono estremamente importanti e il dramma dell'expertise europea, contrariamente a ciò che succedeva settanta anni fa, è che le persone che conoscono la lingua araba, non soltanto l'arabo classico, il fussah, ma soprattutto i dialetti (derja), sono pochissime. Nelle nostre università ci sono ragazzi italiani che parlano perfettamente l'arabo e anche i dialetti arabi, ma o non sono utilizzati o sono sottoutilizzati. Questo fa parte di una problematica nella quale non entrerò, ma rappresenta un handicap dal punto di vista della costruzione di una politica di relazione con il mondo mediorientale.
I diplomatici americani che vengono inviati nel mondo arabo sono tutti arabizzati e conoscono sia il fussah che i dialetti. Noi purtroppo abbiamo perso un capitale intellettuale, che oggi fa default di fronte a una situazione inedita dal punto di vista storico. Definire la complessità linguistica è utile perché la terminologia che noi utilizziamo per descrivere situazioni storiche inedite spesso non quadra totalmente. Anche se tutto è traducibile, non sempre la traduzione ha la stessa valenza semantica.
La parola rivoluzione è interessante perché nella lingua araba si utilizza il termine thaura per dire sia rivoluzione che rivolta. La sua valenza non è esattamente simmetrica alla parola che si usa in francese, in inglese o nelle altre lingue di origine indoeuropea. La radice triletterale sulla quale si forma la parola thaura ha il significato di ribellione, ma ha anche un altro significato legato all'eccitazione.
Negli anni Ottanta, ad esempio, ci fu una grande polemica fra gli orientalisti Edward Saïd e Bernard Lewis sull'origine etimologica e sul significato semantico della parola araba per rivoluzione. Bernard Lewis si posizionava molto più a favore del significato di eccitarsi perché nei dialetti arabi c'è anche questo uso della parola thaura. Questo è importate perché il significato indoeuropeo di rivoluzione come rovesciamento temporale, come nel caso della rivoluzione copernicana, in arabo non esiste.
Non possiamo pertanto applicare a queste situazioni storiche la stessa valenza che ha avuto, ad esempio, la rivoluzione francese. Un grande storico marxista negli anni Sessanta intitolò il suo libro sulla rivoluzione francese L'an un de la révolution. Egli aveva capito che si trattava di una vera rivoluzione poiché la dimensione temporale aveva sovvertito il sistema di aggregazione sociologica e il sistema politico.
A ben guardare, nel rapporto fra lingua e religione, nel mondo arabo e islamico l'unica rivoluzione che potrebbe essere accettata dal punto di vista della valenza semantica è la rivoluzione portata dall'Islam. La penetrazione dell'Islam all'interno delle strutture segmentarie delle società arabe pre-islamiche, infatti, inaugura un nuovo arco temporale. C'è una visione psicologica di un tempo che scorre e che non può essere sovvertito da altre azioni storiche e culturali. Nel linguaggio coranico troviamo la parola jahilyya che è difficilmente traducibile e indica il tempo del prima, un tempo negativo, dell'oscurità in opposizione al tempo inaugurato dall'Islam.
Appare quindi chiaro perché nel linguaggio politico dell'Islam contemporaneo dei salafiti o dei Fratelli musulmani, ad esempio, i punti di riferimento linguistici legati alla rivoluzione possano essere essenzialmente veicolati attraverso le istanze e i paradigmi sui quali si fonda il mondo islamico sia dal punto di vista culturale che teologico e politico.
Le questioni del linguaggio non sono disquisizioni intellettuali, ma hanno ripercussioni sulla capacità di metabolizzare cosa sia la politica, cosa sia la democrazia, cosa significhi governare e quali sono i rapporti fra maggioranza e minoranza a partire dal paradigma del linguaggio politico-religioso legato al mondo arabo e all'Islam. Entriamo in un quadro molto complesso e in parte questo spiega ciò che è avvenuto dieci mesi fa, cioè il «cortocircuito» dei movimenti legati alla fratellanza musulmana.
Ricordo che tale movimento non nasce negli anni Settanta, ma nel 1929, in un periodo di crisi e in un momento in cui il mondo arabo si stava trasformando con la fine del califfato e l'ingresso del vecchio impero califfale nella dimensione degli Stati nazione. Le politiche mandatarie e gli accordi Sykes-Picot del 1916 trasformarono totalmente l'assetto e l'architettura politica dei Paesi arabi e islamici attraverso il mandato britannico e francese.
Nel mondo arabo nasce la nazione, ma nasce con dei buchi neri che continuano tuttora a esistere nello schema politico di questi Paesi. Uno di essi è la grande questione del posto occupato dalla religione dinanzi all'architettura politica. Ciò riguarda il rapporto fra Stato e sharia e il significato stesso della nozione di democrazia, laddove la nostra democrazia si basa sul paradigma dell'eguaglianza in funzione della diversità culturale, di genere o etnica.
Le rivolte o «rivoluzioni» arabe mandano tutto questo in frantumi. La vecchia architettura che ha trasferito nel mondo arabo lo schema nazionale è entrata in una zona di turbolenza, che probabilmente è appena iniziata e determina degli sconvolgimenti di tipo geopolitico che gli europei non devono assolutamente sottovalutare.
Sta nascendo una nuova classe dirigente totalmente diversa da quella che, all'epoca dei miei genitori, era legata ai rapporti con l'Occidente e alla decolonizzazione e credeva in una trasformazione e in un'emancipazione politica e sociale in parte radicate in ciò che la cultura europea, tramite il colonialismo e la politica mandataria, aveva innescato nei processi di trasformazione delle società arabe fra Ottocento e Novecento. Come in una clessidra, tutto questo sta finendo e qualcosa di nuovo sta sorgendo.
Questa Commissione ha avuto modo di ospitare il mio amico e collega Olivier Roy, che è forse il maggior specialista di Afghanistan al mondo perché conosce quel Paese come le sue tasche. Da vecchio sessantottino, faceva l'autostop ma, invece di fermarsi a Kathmandu, si fermò a Kabul. Condivido molte delle cose che ha scritto negli ultimi anni sulle trasformazioni dell'Islam, ma non sono completamente d'accordo con lui sulla questione della fratellanza islamica e sul ruolo di questo partito come iniziatore di un nuovo processo di socializzazione e di modernizzazione.
In uno dei suoi ultimi articoli sulle rivoluzioni arabe Roy - pubblicato da Esprit - verifica che negli slogan utilizzati dalle rivolte arabe dallo Yemen fino alla Tunisia, passando per l'Egitto, le giovani generazioni usano la parola karama, che in arabo significa dignità, e nota a ragione che negli anni Settanta, Ottanta e Novanta la parola più utilizzata invece era murawa, che si riferisce al codice d'onore.
Analizzando sul piano sociologico la valenza di questi due slogan politici utilizzati dalla contestazione nel mondo arabo, afferma che la parola murawa ha per riferimento una visione sociologica legata alla comunità e al gruppo di appartenenza, mentre la parola dignità rimanda all'individualità. Secondo me, però, corre troppo veloce quando sostiene che il mondo arabo-islamico sta entrando in una fase di individualizzazione dell'ambito politico, proponendo la stessa opposizione tra comunitarismo e individualismo che le culture occidentali hanno conosciuto dal Settecento in poi.
È vero che la parola dignità è stata molto utilizzata, ma è relativamente presto per affermare che questo mondo si stia avvicinando a una trasformazione radicale tale per cui l'assetto democratico si baserà sull'autonomia dell'individuo. Io non ho nemmeno la certezza che sia politicamente traducibile quel rapporto fra individuo e democrazia che è fondamentale nella costruzione dello spazio democratico per qualunque cultura, Stato o nazione.
Dubito molto di questo perché ogni giorno vediamo il «cortocircuito» dei movimenti e dei gruppi legati alla fratellanza islamica. I partiti hanno un nome diverso da Paese a Paese, ma rappresentano l'unica identità della fratellanza islamica, che è una struttura molto complessa. Sono uscite decine e decine di libri che affermano che la fratellanza islamica tra poco sarà l'equivalente della Democrazia cristiana. Non è così.
In primo luogo, come gli storici e gli esperti del mondo islamico sanno benissimo, non bisogna dimenticare che la fratellanza islamica non nasce dalla piccola borghesia egiziana islamica, ma nasce nell'ambito delle turuq (al singolare tariqa), cioè le confraternite, i gruppi mistici islamici. Il fondatore dei Fratelli musulmani, Hasan al-Banna, porta con sé questa cultura, ma con un valenza unica che non è quella della ricerca spirituale, dell'escatologia islamica e del misticismo, ma la segretezza, la taqqya, il nascondimento, aspetti fondamentali in qualunque gruppo mistico.
Molti pensano di conoscere tutto della fratellanza islamica. È vero che c'è un volto molto aperto, ma c'è anche un volto nascosto che noi non conosciamo perché sarebbe necessario stare all'interno. Quello della fratellanza islamica è anche un processo di acculturazione. Essa presenta, infatti, un aspetto esterno estremamente moderno e strutturato e una strategia e un metodo politico che non hanno niente da invidiare ad altri partiti strutturati, anche nel mondo occidentale.
Esiste, però, anche una struttura nascosta, che in realtà è la più importante perché definisce il progetto di base, la linea guida che fa sì che il progetto politico della fratellanza occupi non un perimetro unicamente nazionale, ma esteso a tutta la koinè, a tutte le società del mondo arabo e islamico.
Quando l'Algeria lanciò le proprie politiche di arabizzazione, fece arrivare insegnanti siriani ed egiziani che finirono nelle scuole, nei licei e nelle università. Questo spiega anche la questione algerina degli anni Novanta perché questi docenti facevano propaganda dalle scuole fino alle università, attivando quello che io chiamo il militantismo dell'Islam contemporaneo.
Il progetto dei Fratelli musulmani può essere intuito da certi comportamenti, da frasi che escono dalle interviste, dall'uso di una parola piuttosto di un'altra. Questi elementi ci fanno capire dove vogliano andare.
C'è però anche un altro aspetto che, dal punto di vista scientifico, dovrebbe aiutarci a non mettere questi partiti e movimenti sullo stesso piano, ad esempio, della Democrazia cristiana. Non dimentichiamo che nei partiti di ispirazione cristiana il lavoro intellettuale e politico sulla relazione, che è sempre in tensione, tra politica e religione è intervenuto in una cultura secolarizzata. La cultura secolarizzata nel mondo arabo e islamico è inesistente. Ciò non vuol dire che non ci siano arabi e musulmani secolarizzati, ma essi non fanno massa critica. Non è questo l'ambito nel quale si definiscono, si aggregano e si strutturano le società.
Ho sempre affermato che la laicità non è un problema nel mondo musulmano. Infatti, essa rappresenta una tecnica di governance della relazione fra politica e religione. La secolarizzazione, invece, lo è. La secolarizzazione, da una parte, implica un divorzio interiore tra la sfera religiosa e la sfera non religiosa, cosa che impedisce di uccidere chi è ateo o cambia religione. Dall'altra parte, implica la soggettivizzazione della sfera religiosa. Questo in democrazia è importante perché pone la religione, nello schema dello Stato nazione, alla pari di altri ambiti. L'attuale assenza dello schema dello Stato nazione dovrebbe aiutarci a capire che il tentativo di modernizzazione di questi movimenti e partiti a un certo punto si ferma.
Un altro fattore che merita una riflessione è l'ideologia o la filosofia politica che fonda la visione societaria di questi gruppi, dall'Egitto alla Tunisia, allo Yemen, allo stesso Marocco, e che appare senza apparire. Quando Rachid Ghannouchi è arrivato all'aeroporto di Tunisi, un giornalista gli ha chiesto a quale ministero avrebbe ambito se avesse avuto la possibilità di formare un governo. Ghannouchi non ha risposto, come ci si potrebbe aspettare, il ministero degli interni o degli esteri, ma il ministero dell'educazione nazionale.
La sua risposta è stata interessante anche dal punto di vista linguistico. In Tunisia come in gran parte dei Paesi del Nord Africa c'è il fenomeno della diglossia, cioè l'uso di un doppio registro linguistico, il francese e l'arabo. Ghannouchi ha detto che poco a poco la pubblica amministrazione e la gente dovranno utilizzare sempre di più la lingua araba fino a eliminare l'uso della lingua francese.
Tutti i linguisti, da Ferdinand de Saussure a Noam Chomsky, sanno che la lingua forma la coscienza. L'utilizzo della lingua araba è evidentemente consono a un progetto politico, alla fine perdente, di costruzione di quello che io chiamo l'homo islamicus, cioè di una personalità di base che sia conforme ai paradigmi sui quali si costruisce l'identità individuale e di gruppo.
C'è una personalità politica italiana che ha intuito tutto questo. Mi riferisco a Giuliano Amato. In un'intervista a Radio Radicale durante un suo seminario a Istanbul sulla questione turca ha dato prova di aver capito perfettamente la relazione che si è instaurata fra democrazia e Islam, pur senza conoscere la lingua turca. Amato ha capito che poco a poco l'uso esponenziale di una specie di islamismo edulcorato - questo è vero -, che per il momento non si contraddice con la democrazia, tende a creare un rapporto di forza fra l'Islam politico e la democrazia stessa. Come ha detto bene lui, se tutti si adeguano al progetto dell'Islam nella versione di Erdogan, è evidente che la democrazia non ha più senso. Un sociologo nota questo, ad esempio, attraverso le tecniche della censura o il rapporto fra l'arte e la politica. Il progetto è quello di costruire un homo islamicus.
Come ho già detto, è difficile parlare di rivoluzione perché linguisticamente la parola rivoluzione come noi la intendiamo in Occidente è assente dal codice linguistico del mondo arabo e islamico. Qualunque tipo di rivoluzione, inoltre, ha bisogno di un elemento fondativo, quello che le scienze politiche chiamano controcultura. Nel segmento storico che viviamo da due anni qual è la controcultura portata da queste rivoluzioni? Il progetto politico alternativo è essenzialmente di matrice islamista e non è nato due anni fa: è nato nel 1929 a opera di pensatori, teologi, giuristi e filosofi. È un progetto concreto, che si è poi adattato alle situazioni storiche e conflittuali che si sono trovati di fronte.
Sappiamo quali sono i rapporti tra il nasserismo e la fratellanza islamica. Si sono combattuti e ciò che sta succedendo dimostra che l'esercito egiziano e la fratellanza islamica si conoscono molto bene. La controcultura, il progetto alternativo passano attraverso qualcosa di vecchio, che solo gli esperti potevano conoscere.
Quando analizziamo questo processo di modernizzazione, dobbiamo fare attenzione alla differenza, anche linguistica, che esiste fra modernizzazione e modernità. Il banco di prova per queste nuove democrazie sarà l'assunzione di responsabilità sul piano legislativo in tanti campi, come ad esempio il rapporto fra sharia e Stato o la questione delle minoranze. Come sapete, in Egitto un arabo cristiano non ha il diritto di insegnare l'arabo nelle scuole pubbliche perché l'arabo è la lingua coranica e soltanto un musulmano la può insegnare. Una donna non può essere magistrato perché non può giudicare un uomo. Si tratta di discriminazioni che ledono l'assunzione stessa del paradigma sul quale sono stati costruiti i sistemi democratici nel mondo occidentale.
La grande questione della democrazia dall'Indonesia a Parigi è l'eguaglianza, trattare allo stesso modo persone di diversa nazionalità, religione, etnia eccetera. In un certo senso è la fine della società comunitarista e segmentaria.
Altro banco di prova sarà quello delle relazioni con il sistema mondo. Per la politologia americana il Mediterraneo in quanto tale non esiste perché è sempre stata una zona di conflitti. Gli americani non hanno la stessa visione che del Mediterraneo ha l'Europa, anche se è abbastanza retorica. Questo non significa che non sia una zona geopolitica e strategica di grande importanza. Da lì passano tutti gli equilibri mondiali. Nel momento in cui questi equilibri prenderanno la direzione dell'Asia-Pacifico, il ruolo del Mediterraneo sarà ancora più importante, anche nelle parole.
Quando in italiano diciamo Vicino Oriente ci riferiamo a Paesi come Egitto e Iraq, che non sono l'Oriente. Tuttavia, essere vicino all'Oriente significa essere vicino alla Cina. Da Baghdad, se voglio, posso prendere la bicicletta e arrivare fino a Pechino. Il Mediterraneo è una zona di passaggio e di incrocio di popoli e culture estremamente importante, una specie di laboratorio della globalizzazione. Per questo è estremamente fragile, soprattutto in questo momento.
Il problema è delicato. Da una parte è evidente che le rivolte arabe sono anche il prodotto del fallimento del Processo di Barcellona del 1995 e di tutto ciò che è venuto dopo, cioè la creazione di una regione Euro-mediterranea che non ha mai visto la luce a causa degli errori commessi. Questo fallimento si traduce in una perdita di posizione da parte dell'Europa, a cui subentrano nuovi attori, che però sono attori storici.
Il rapporto tra Tunisia e Turchia è un piccolo caso. Vorrei ricordare che l'Impero ottomano è stato presente in Tunisia dal 1547 fino al 1881. Tre secoli e più non lasciano neutra una comunità. Lasciano dei segni. Se prendete l'elenco telefonico di Tunisi, vedrete che tanti cognomi sono di derivazione turco-ottomana. La Turchia tenderà sempre di più a diventare una potenza regionale.
Sul piano sociologico, per i ragazzi che frequentano le università il modello vincente non è quello iraniano, ma la Turchia perché risolve quella che per loro è una contraddizione psicologica, cioè il rapporto tra Oriente e Occidente. È retorica, ma psicologicamente il problema è presente. Questo è un vettore importante della penetrazione della Turchia. Qualcuno la chiama «neo-ottomanizzazione»: ci sarebbe da ridere, ma c'è anche qualcosa di vero.
L'Europa arretra, ma arretra anche l'America. La popolarità di Obama tra le popolazioni arabe, secondo i sondaggi, è al ribasso. Di fronte a questo, emergono due potenze regionali. La prima è la Turchia, che ha denaro e risolve il rapporto con l'Occidente verso cui il disagio psicologico è ancora molto forte nel mondo arabo. Nella situazione europea le società arabe e islamiche vedono l'impossibilità di costruire questo spazio euro-mediterraneo, allorché secondo me ci sarebbero tutte le ragioni per cominciare a ripensarlo con un altro metodo e un'altra visione del sistema mondo.
L'altra potenza è l'Iran, ma la sua situazione geopolitica è molto complicata. Mi riferisco ovviamente alla questione siriana, ma anche all'Egitto. Non è un caso che Morsi abbia cominciato a ristabilire le relazioni fra Egitto e Iran. In Siria sta riemergendo il flusso storico della storia del Novecento. La Siria è il cuore battente del Medio Oriente perché lì convergono tutte le linee di frattura del mondo arabo, fratture etniche, fatture religiose, fratture ideologiche eccetera. L'esplosione della Siria avrebbe un effetto domino estremamente pericoloso per tutto il Medio Oriente e non solo.
Come sapete, in Siria gli alauiti rappresentano il 10 per cento della popolazione. Si tratta di un gruppo religioso di origine sciita, ma c'è un contenzioso che voi occidentali non arrivate a capire, forse perché non lo conoscete, che è ben presente nella psiche degli arabi sunniti. Sto parlando del famoso furto della pietra nera avvenuto nell'Ottocento. Gli alauiti rubarono la pietra nera e per ottant'anni il sunnismo perse il suo riferimento teologico fondamentale.
Il conflitto che in Siria divide i Fratelli musulmani dagli alauiti riguarda questo furto, che per di più si è tradotto in un elemento di successo perché gli alauiti sono al potere. Negli anni Settanta c'è stato un processo di acculturazione. Da contadini sono passati a essere i più brillanti a scuola. Sono penetrati nel partito Baath, nelle grandi sfere dello Stato, nell'esercito e governano il Paese dalla fine degli anni Sessanta. Per i Fratelli musulmani è una situazione che bisogna assolutamente rovesciare.
Questo pericolo di frantumazione etnica è molto contraddittorio. Mercoledì scorso ero a una riunione dei siriani per la democrazia, dove c'era di tutto. Lo slogan che andava per la maggiore era però «Uno, uno, uno, il popolo siriano è uno». A livello di slogan sì, ma tra i presenti c'erano anche alauiti dissidenti. Una cosa è la contestazione politica, altra cosa è il peso che le fratture etnico-religiose hanno nella costruzione di uno schema politico e di un governo in esilio. Il problema è che questo governo in esilio per il momento non esiste, anche se sarebbe necessario.
Per quanto riguarda la violenza inedita in Siria, solo gli esperti sanno che negli anni Ottanta un mio collega francese, Michel Seurat, sociologo e arabista nato in Tunisia, fece un dottorato di ricerca, all'epoca della guerra civile libanese, su un quartiere di Tripoli, Bab el-Tibane, dove già cominciavano le prime prediche fondamentaliste, e analizzò quello che più tardi sarebbe divenuto Hezbollah. Questo ragazzo di appena 27 anni scrisse per le più grandi riviste orientaliste, ma fu catturato dal partito Hezbollah e fu uno dei famosi ostaggi francesi. Morì dopo due anni di prigionia in Libano, incatenato a un termosifone, a causa dell'asma di cui soffriva.
Esce postumo un suo libro dal titolo Syrie. L'Etat de barbarie, cioè lo stato di barbarie. È un libro sulla Siria in cui Seurat è tra i primi a utilizzare i concetti della sociologia araba che molti politologi che si interessano al mondo arabo dovrebbero studiare. L'analisi si concentra su produzione e ruolo della violenza. Quando la legittimità politica è bassa a causa della debolezza numerica, come nel caso degli alauiti in Siria, si fa un uso sistematico della violenza, che diventa consustanziale alla struttura dello Stato. I siriani avevano scoperto i suoi manoscritti e lo fecero assassinare. La situazione che vediamo oggi in Siria è la stessa. La bassa legittimità implica l'uso della forza.
C'è un'apparente contraddizione strategica tra la fratellanza islamica e i movimenti salafiti. A dicembre ero a Tunisi per una serie di conferenze e sono andato a una manifestazione di fronte al Parlamento. Il gruppo era diviso in due: da una parte i salafiti e dall'altra i tunisini laici. Ho potuto avere il progetto di costituzione dei salafiti e l'ho tradotto dall'arabo. Si capisce subito dove vogliano arrivare. Fondamentalisti e salafiti sono entrambi finanziati dal Qatar. Il sultano del Qatar, o chi per lui, può sfruttare i salafiti. Ho, quindi, cercato di capire quale sia la strategia nascosta che mira a usare salafiti e fondamentalisti per creare un conflitto tra loro.
Bisogna guardare al ruolo dell'Iran. I salafiti sono entrati nel Parlamento in Egitto, anche se non si sa cosa succederà. Non sono presenti nelle istituzioni in Tunisia, però sono presenti sul terreno. Mi sono chiesto come mai i due movimenti vengano utilizzati in modo strategico e ho concluso che ciò serve semplicemente a mantenere alta la tensione sul rapporto fra sharia e Stato, sull'islamizzazione dello Stato. La concorrenza fondamentale è tra l'Iran, che si richiama alla sharia ed estremizza il rapporto fra religione e politica, e il sunnismo, che non ha ancora definito, attraverso questa grande turbolenza, gli elementi del rapporto che si instaurerà fra politica e religione all'interno dei Parlamenti, delle strutture e delle culture di queste società.
Il salafismo aiuta strategicamente a mantenere forte questa tensione. Due settimane fa a Tunisi hanno incendiato una mostra di pittura dove erano esposti dei corpi nudi. C'è stato un morto e una settimana di coprifuoco, ma non è stato un episodio casuale.
C'è una strategia che metabolizzerà la questione dell'Islam politico nei prossimi anni.
PRESIDENTE. Ringrazio il professor Allam e do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
RICCARDO MIGLIORI. Ringrazio il professor Allam perché, come al solito, è stato di una grande chiarezza.
Recentemente abbiamo partecipato insieme a una conferenza a Palermo e lei ha espresso una visione particolare sull'evoluzione tunisina. A marzo ci saranno le elezioni e pare riconfermato il divieto alla partecipazione per i gruppi salafiti, forse anche perché Ennahda teme di perdere voti. A differenza dell'Egitto, in Tunisia abbiamo una situazione politico-istituzionale che prevede una demarcazione netta e una frontiera precisa fra il partito attualmente al governo, Ennahda, e i movimenti oltranzisti, che contestano anzi la scarsa religiosità e uniformità di pensiero dei Fratelli mussulmani. Del resto, Ennahda ha molte correnti interne ed è particolarmente diviso su una serie di questioni.
Il fatto nuovo e clamoroso, a mio avviso, è che nella costituzione tunisina che si sta approvando vi è un disegno di separazione laica tra un Paese musulmano - e si ribadisce questo elemento - e la concretezza dei diritti e delle istituzioni di tipo occidentale. C'è un elemento di speranza oppure no? Io penso che ci sia e che noi occidentali abbiamo tutto l'interesse a coltivarlo per farne un modello. Probabilmente i salafiti in quel Paese non riusciranno a sfondare, come invece temo stia succedendo in altri Paesi.
Vorrei sapere se ha cambiato opinione rispetto a questi elementi di prospettiva.
FRANCO FRATTINI. Ringrazio Khaled Fouad Allam per la sua relazione. La presenza e l'evoluzione di quello che è stato definito giustamente l'Islam politico come momento emergente in queste rivolte arabe è sembrata mettere in secondo piano il principio comune ai Paesi del Medio Oriente secondo cui la questione principale che impediva la pacificazione e la riconciliazione dell'intera regione era il conflitto irrisolto tra israeliani e palestinesi.
Questo punto è apparso in secondo piano. Secondo la sua valutazione ciò dipende dal fatto che, di fronte alla dimensione politica dell'Islam e alla modernizzazione, appare ormai chiaro che vi sono altri problemi egualmente se non più delicati e cruciali, quali l'interferenza e la dominanza pericolosa dell'Iran sulla regione, o dal fatto che i problemi interni agli Stati hanno fatto uscire dal radar la questione?
L'insistenza con cui questa bandiera era sventolata da regimi certo non democratici non la si vede più nei regimi che stanno attraversando la transizione verso la democrazia. Tutto sommato, il sostegno fraterno al popolo palestinese si percepisce persino di meno, anche se ieri il Segretario generale della Lega araba ha ripetuto da Doha che i Paesi membri si batteranno perché a New York nasca lo Stato palestinese.
È sembrata più la riaffermazione di un principio già affermato nel 2011 che non un nuovo impulso verso il rilancio della causa palestinese.
PRESIDENTE. Vorrei porre una domanda sulla contrapposizione tra sunniti e sciiti per come si lega oggi, dopo le rivoluzioni, al tema del terrorismo e della guerra.
A proposito del termine thaura, rivoluzione, ho letto un'elaborazione particolarmente interessante che riproponeva il termine intifada, sottolineando che queste rivoluzioni, proprio perché non sanno dove vanno, hanno la caratteristica di una rivolta naturale piuttosto che di una rivoluzione ideologica. L'elemento ideologico, che è sempre e comunque l'Islam, è sottinteso.
Io penso che i sunniti abbiano vinto. Mi sembra che siamo in presenza di una gigantesca rivoluzione sunnita che dà vita a una specie di internazionale sunnita, così come prima avevamo un'internazionale pan-araba. Mi pare che, tramontato il disegno pan-arabista, sia rifiorito quello islamico sotto un profilo prettamente sunnita. Mi domando come potranno convivere, per esempio, l'Egitto e l'Arabia Saudita.
Prima lei accennava al rapporto che Morsi cerca di creare con l'Iran. Si vide fin dall'inizio, da quando il canale di Suez fu aperto alle navi iraniane. Mi domando se l'Egitto giocherà la carta degli sciiti.
Non so se sia in condizioni di poterlo fare perché è un Paese fortemente sunnita e la fratellanza musulmana in Egitto ha questa caratteristica molto evidente. Mi chiedo, quindi, se un rapporto tra sunniti e sciiti sia in generale possibile in questa nuova dimensione.
Mi domando anche quanto terrorismo e quanta guerra ci saranno adesso. Io li vedo moltiplicati all'ennesima potenza. Mi pare che nell'ultimo mese siano stati evitati circa trenta attentati terroristici, tutti di matrice sciita per la verità, ispirati prevalentemente da Hezbollah; dall'Azerbaigian alle Filippine. C'è stato, per esempio, il tentativo di Hezbollah di colpire l'ambasciatore saudita a New York.
Che cosa stanno facendo gli sciiti e dove vogliono arrivare? C'è molta paura di un attentato alle Olimpiadi, ma è una delle tante minacce. Israele teme che l'attentato a Burgas diventi un trend generale, così come si è visto in questo periodo. È realistico? Gli sciiti cercano di salvarsi da questa sconfitta per cui l'Iran è al centro dell'antipatia mondiale, gli Hezbollah, braccio armato dell'Iran, lo seguono in questa rovina, così come Assad, che si trova in uno stato comatoso.
Mi domando dove vada questo asse basato su tre gambe. Pensa di puntare tutto sul terrorismo ed eventualmente su una guerra chimica? È vero che Assad vuole passare le armi agli Hezbollah e in questo caso non dovremmo muoverci tutti perché, come Hamas, siano finalmente inseriti nella lista delle organizzazioni terroriste? Mi pare che ce ne sarebbe ben donde dopo quanto hanno fatto in questo periodo.
Noi siamo un Parlamento, un'istituzione politica. La direzione politica, di fronte a tutto questo, quale deve essere?
ENRICO PIANETTA. Lei ha detto che la cultura secolarizzata nel mondo arabo è inesistente.
KHALED FOUAD ALLAM, Docente di Sociologia del mondo musulmano all'Università di Trieste. Come massa critica.
ENRICO PIANETTA. Esatto, rappresenta una massa critica debole. Ha anche detto che una serie di valutazioni fanno pensare che si voglia costruire un homo islamicus. Questo mondo così caratterizzato è conciliabile o non è conciliabile con la democrazia occidentale?
Il collega Migliori ha legato questo elemento al tema specifico della Tunisia. Io vorrei approfondirlo in termini più ampi e in relazione alle prospettive, ai punti di attrito e di valutazione per una coesistenza oppure per un dinamismo che può essere considerato espansivo.
Come immagina un futuro di coesistenza in questa dimensione che sembra conciliabile o non conciliabile?
FRANCESCO TEMPESTINI. Il professor Allam ci ha esposto una serie di ipotesi. Nemmeno lui ha certezze. L'uscita di sicurezza per noi è, però, quella di stabilire un dialogo e approfondirlo, cercando ogni forma di collaborazione. Credo che inevitabilmente dall'altra parte si pongano il problema del rapporto con noi. È vero che tutte le volte che parliamo con loro in questi mesi turbolenti cogliamo una riserva. Il rapporto è diverso da quello che si aveva con il mondo arabo di ieri. Immagino, però, che anche questo mondo arabo si ponga il problema di come dialogare con noi.
Quali sono, secondo lei, le linee da seguire? Tolleranza, convivenza pacifica, moderazione, riconoscimento dei nostri errori: le cose da mettere in campo sono tante, ma dov'è, secondo lei, che questo rapporto può diventare fruttuoso?
Da dove possiamo ricavare qualcosa di positivo?
PRESIDENTE. Do la parola al professor Allam per la replica.
KHALED FOUAD ALLAM, Docente di Sociologia del mondo musulmano all'Università di Trieste.
È vero che nel progetto della Costituzione tunisina c'è il divieto di rappresentanza politica del salafismo, ma il problema non è lì. Alla manifestazione di cui parlavo ho considerato l'aspetto generazionale. Per la maggior parte si trattava di ragazzi e ragazze, coperte dal burqa, tra i venti e i trent'anni. In società in cui il 70 per cento della popolazione ha meno di venticinque anni, si può estendere a macchia d'olio.
Non tutte le società arabe sono però uguali. La Tunisia è diversa dall'Egitto per un motivo storico e sociale. La società civile tunisina è molto più forte di quella egiziana. Salta all'occhio anche di chi non è arabista o islamologo. La ragione è da legare ai rapporti con l'Occidente. La Tunisia è stata un protettorato francese e intelligentemente questo protettorato ha cercato di creare un rapporto non conflittuale tra la tradizione islamica e quella che alla fine dell'Ottocento era la nozione di modernità e modernizzazione.
I francesi inventarono il College Sadiki, che tutti gli esperti di Tunisia conoscono e che era l'equivalente di un importante liceo classico. Questo istituto fu la sorgente da cui è uscita tutta la classe dirigente post-coloniale, dal presidente Bourguiba a Mahmoud Messadi, che fu Presidente del Parlamento tunisino ed è uno dei grandi scrittori tunisini. La denominazione della scuola era istituto franco-musulmano e si insegnavano sia discipline in lingua francese che in lingua araba. Questo ha permesso a un'intera generazione di vivere in modo non conflittuale il rapporto tra l'identità islamica e l'aspetto modernizzante che passava attraverso la presenza francese. In seguito la società si è strutturata sulla base di un modello non conflittuale. La nascita dei sindacati e la segmentazione sociale hanno rafforzato la società civile.
Lo schema algerino è diverso. Il colonialismo francese in Algeria fa l'esatto contrario. Il sistema politico e di governo è diverso come diversa è la classe dirigente, tutta formata da militari, e militari non illuminati. I rapporti fra l'Islam e la cultura francese e occidentale confliggono a tal punto che, ad esempio, nel 1882 il decreto Cremieux vieta l'insegnamento dell'arabo. Il risultato è un bisogno quasi psicopatologico, legato all'identità algerina, di ritornare alle radici.
Ricordo che la Carta nazionale algerina del 1976, quando era ancora presidente Boumedienne, citava in modo ridondante la personalità musulmana. Il conflitto è continuato di generazione in generazione finché una generazione che non era né carne né pesce ha abbracciato il terrorismo. Io ho lavorato sul terrorismo di matrice islamica. Gran parte dei leader terroristici conoscevano scarsamente la lingua araba ed erano personalità in conflitto, border line.
Lo schema tunisino è diverso, così come è diverso quello egiziano. La storia dell'Egitto è quella di uno Stato che parte dai faraoni e passa attraverso il nazionalismo e un'enorme burocrazia, che tende ad assorbire tutte le potenzialità insite in ogni società civile e a rendere la società civile molto debole. Non è un caso, ad esempio, che nel 1956 la Tunisia fu il primo Paese arabo a vietare il matrimonio poligamico. Al Pontificio istituto di studi arabi e d'islamistica (PISAI) Maurice Borrmans svolse il suo dottorato con Henri Laoust sul codice di statuto personale tunisino. Tutto questo è il prodotto di una storia completamente diversa.
Come ho detto, non sappiamo tutto perché non tutto appare e si vede a occhio nudo, sia dentro la fratellanza islamica sia nei rapporti fra il fondamentalismo della fratellanza e il salafismo. La nostra idea delle trasformazioni politiche occidentali è basata sull'arco temporale e l'arco temporale si misura sul tempo delle elezioni. A loro questo non importa molto. Possono vincere come possono perdere: il progetto è a più lunga scadenza e contempla la trasformazione o il ritorno - nemmeno io ho questa certezza scientifica - a questa immagine retorica dell'homo islamicus, in cui convivranno sia la fratellanza islamica sia il salafismo.
Ricordo, però, che mantenere la tensione fra il fondamentalismo «classico» e l'eversione salafita serve unicamente a delineare una strategia che va ben oltre la Tunisia e riguarda la competizione esistente tra sunnismo e sciismo e l'equazione iraniana. È un messaggio di propaganda che serve alla loro strategia politica.
Rachid Ghannouchi fu arrestato negli anni Ottanta, pochi anni dopo la rivoluzione iraniana. È un uomo brillante, professore di filosofia, parla correntemente tre o quattro lingue e pubblica una rivista che dopo le prime uscite viene censurata. Il titolo è interessante: XV/21. Questo titolo rappresenta l'arco temporale che entra a far parte della retorica e del progetto politico della fratellanza islamica e dell'Islam politico tout-court e significa che il quindicesimo secolo dell'egira, corrispondente al Ventunesimo secolo occidentale, sarà il secolo dell'Islam. Un giornalista può misurare questo progetto in superficie, ma talvolta la realtà sta sul fondo.
Il governo tunisino vieterà il salafismo anche perché ha bisogno dell'Occidente a livello economico eccetera, ma non è questo che canalizza il progetto in quella direzione. Hanno tempo per trasformare l'intera società. Possono servire anche cinquanta, sessanta o settanta anni. Va in questa direzione anche la nascita di un'opinione pubblica araba monopolizzata da una televisione satellitare che si chiama Al Jazeera, all'apparenza molto democratica. Ho assistito a dibattiti teologici davvero all'avanguardia, ma non è questa la chiave di lettura. Nel linguaggio politico ci sono dei trompe-l'oeil. Bisogna fare molta attenzione alle sfumature. Torna il tema della conoscenza della lingua e delle culture, sul quale dovremmo fare di più.
Per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese, è vero che dagli anni Settanta è servito come base per la legittimazione del nazionalismo arabo ed è vero che Israele non è apparso molto nella contestazione della primavera araba. Ciò non vuol dire che sia scomparso. Nelle scienze sociali e politiche non tutto è visibile a occhio nudo. Talvolta bisogna guardare al microscopio come i biologi.
Caduti Egitto e Siria, Israele ha perso la sua interfaccia e questo lo rende molto più fragile e ovviamente molto più esposto ai pericoli. Dal punto di vista geopolitico questo mi sembra evidente. Ciò che sta succedendo nel deserto del Sinai, dove passano le pipeline del petrolio, fa tremare. Esplode una bomba ogni settimana. Gruppi neo-fondamentalisti inventano Stati che durano quarantotto ore. È una situazione anarchica estremamente instabile che mette in pericolo l'esistenza dello Stato di Israele. Non parlare può essere anche una strategia politica, una strategia molto più silenziosa che non dice ma agisce, col terrorismo e altre cose. La classe dirigente in Egitto può sempre ricorrere al doppio linguaggio. Il problema è che oggi questa situazione di caos si può estendere anche alla Siria e al Libano.
Il rapporto tra sciismo e sunnismo è davvero una questione complessa. Apparentemente possiamo dire che la strategia sunnita sembra essere vincente, anche perché il sunnismo è numericamente prevalente. Il 90 per cento dei musulmani è sunnita, mentre solo il 10 per cento è sciita. Il problema è che lo sciismo è esteso a macchia di leopardo in tutto il Medio Oriente. Vorrei ricordare che l'Egitto è stato sciita con i fatimidi. L'Università di Al-Azhar, attualmente tempio della conoscenza teologica e intellettuale egiziana, è stata fondata dagli sciiti.
In Tunisia gli sciiti sono stati presenti per più di novant'anni e hanno fondato la città di Mahdia, che è termine propriamente sciita che significa «il salvatore». Essendo stati cacciati dall'Egitto, gli sciiti fatimidi si spostarono in Tunisia e cercarono di riconquistare l'Egitto usando la Tunisia come avamposto, un disegno politico e militare che non è mai riuscito.
All'interno dell'Islam è mancato l'ecumenismo con cui invece il cristianesimo ha saputo sanare prima il contenzioso tra cattolici e protestanti e ora, in parte, con la religione ebraica. All'interno dell'Islam non c'è alcun ecumenismo. Tra i siriani con cui ero a Milano c'erano sunniti e alauiti, ma i primi nulla sapevano della dottrina alauita, che è molto complessa perché si tratta di una specie di sincretismo tra lo sciismo e zoroastrismo, dato il loro culto della luce eccetera.
Il sunnismo sembra vincente perché è più esteso, più potente e soprattutto più ricco. Inoltre, per le giovani generazioni lo schema iraniano è perdente. Fa più gola il modello turco, che viene considerato come uno modello sunnita. Questo non diminuisce l'intensità del pericolo, può anzi aumentarla. Quando parliamo di Iran, parliamo di pasdaran, un gruppo di pazzi scatenati che potrebbero lanciare guerre, guerre che in quella parte del mondo non finiscono mai.
Sulla secolarizzazione; se vincesse il progetto dell'homo islamicus, anche se allacciato a uno schema che può definirsi democratico, rimarrebbe una cosa diversa. La grande novità nel rapporto tra politica e religione in Occidente è stata la soggettivazione dell'identità religiosa dell'individuo e del gruppo. Si può essere credenti o non credenti, ma si è sempre cittadini. La democrazia è questo. Costruire la democrazia su modelli culturalisti o etnici sarebbe lesivo del concetto di democrazia, che a mio avviso non può che essere universale.
Da ciò scaturiranno le future battaglie per le donne, gli omosessuali, le questioni etniche. Non tutto, però, è politico. La politica è il punto di arrivo di qualcosa che sta a monte. È interessante, ad esempio, il modo in cui il mondo ebraico si è relazionato con la democrazia attraverso lo Stato di Israele. Servono scrittori, filosofi, persone in grado di ripensare il loro mondo per poi tradurlo politicamente e costruire uno spazio democratico. Non voglio dire che nel mondo islamico non esistano filosofi o scrittori, ma quando affermo che non c'è massa critica intendo dire che siamo in presenza di una società civile o di società civili che non sono in grado di accettarlo perché rimangono chiuse all'interno di vari segmenti.
Qualche anno fa fui invitato in Iran dall'ambasciata italiana per tenere delle conferenze. Ahmadinejad non c'era ancora, ma era proprio il maggio del 2005, il mese delle elezioni. Una sera ero insieme a un'amica, una femminista che aveva una casa editrice a Teheran, che ora non ha più, e parlavamo del rapporto fra uomini e donne nelle nostre culture. Lei mi diceva giustamente che la politica può ben poco. Può essere completamente depotenziata se a monte è presente un certo schema antropologico. Finché le madri continueranno, ad esempio, a trasmettere uno schema di tipo patriarcale, è evidente che la presenza femminile nelle istituzioni verrà sminuita.
Lo schema giuridico e politico è impotente di fronte a tradizioni culturali che devono essere ripensate e riformulate dall'interno della società. La società è responsabile. La parola magica è educazione. Educare non significa soltanto trasferire saperi, significa anche trasformare sul piano etico, e su questo c'è molto da lavorare.
Mi si chiedeva come si devono posizionare l'Europa e l'Occidente di fronte a questo. C'è anche uno schema realistico. Io ho fatto anche il consulente del sindaco di Mazara del Vallo, dove risiede la più grande comunità tunisina in Italia. Credo che siano 12.000. Bisogna lavorare con loro, ma occorre anche innestare nuovi profili di diritto internazionale, come ad esempio la condizionalità. Quando ero deputato ho discusso di questo, poi le cose sono andate come sappiamo o forse come dovevano andare.
Penso che sia necessario inventare quella che io chiamo una grammatica delle relazioni internazionali. Il mondo non può continuare a essere questa specie di «mozzarella» completamente decentrata che non sa dove sta andando. Credo che le organizzazioni internazionali servano a qualcosa, ma probabilmente le Nazioni Unite hanno esaurito il loro tempo in questa situazione inedita dal punto di vista storico. Forse corrispondono di più all'epoca della Guerra fredda.
I padri dell'Europa, Schuman, De Gasperi e gli altri, avevano sofferto la guerra e hanno riformulato l'identità dell'Europa, che era stata in guerra per secoli, sulla base del Consiglio d'Europa. Il Consiglio d'Europa era nato per mettere fine alle guerre in Europa e creare una specie di koiné europea attraverso la cultura e il diritto. Questo forse manca nel Mediterraneo.
Io sogno, ma probabilmente non lo vedrò mai, un consiglio dei Paesi europei e mediterranei in grado di riunire le tre fasce del Mediterraneo, la fascia balcanica, la fascia latina e la sponda meridionale, nel quale la condizionalità sui diritti dell'uomo o sul trattamento delle minoranze sia politicamente effettiva. Occorre un organismo internazionale che sia in grado di elaborare questi stessi criteri.
Attualmente però non c'è la volontà politica.