Ecumenismo: crisi o svolta? [Cosa significa “unità nella pluriformità” per un ecumenismo pensato non in termini politici, bensì teologici e spirituali. La responsabilità prioritaria di testimoniare insieme il Dio vivente], di J. Ratzinger

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 26 /02 /2017 - 21:29 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo l’intervento dell’allora cardinal J. Ratzinger nell’incontro “Ecumenismo: crisi o svolta? Dialogo tra il cardinal Joseph Ratzinger e il pastore Paolo Ricca”, Roma, Facoltà valdese di teologia, 29 gennaio 1993, pubblicato in NEV Dossier/2, supplemento al numero 7 del 17 febbraio 1993 del settimanale NEV. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Ecumenismo.

Il Centro culturale Gli scritti (26/2/2017)

Unità delle chiese e papato

Cari colleghi, signore e signori, vorrei esprimere gratitudine per questo invito e per questa possibilità di un dialogo fraterno e franco con la Facoltà Valdese di Roma. Era prevista come prima questione quella del papato e chiedo scusa se da parte mia vorrei invertire le due questioni perché io penso che il papato è, senza dubbio, il sintomo più palpabile dei nostri problemi, ma è ben interpretato solo se viene inquadrato in un contesto più ampio. Perciò penso che, affrontato immediatamente, non conceda facilmente una strada d'uscita. Si dovrebbe, mi sembra, prima vedere la prospettiva più ampia dell'unità della chiesa e delle chiese, per poi trovare anche il punto dove possono formarsi dei consensi o dei nuovi modelli per un consenso su questo problema. Comincio quindi col problema dei modelli di unità e generalmente dalla questione dell' ecumenismo e dei passi da fare, da immaginare.

È per me importante distinguere due tempi, o due fasi dell’ecumenismo: la finalità ultima, lo scopo ultimo al quale tendiamo, che deve essere sempre il vero dinamismo e il movente principale del nostro impegno ecumenico e, diciamo, il tempo intermedio, con soluzioni intermedie.

Finalità ultima è, ovviamente, l’unità delle chiese nella chiesa unica, ma questa ultima finalità non implica uniformità, ma unità nella pluriformità. Mi sembra che la chiesa antica ci offra un po’ un modello.

La chiesa antica era unita nei tre elementi fondamentali: Sacra Scrittura, regula fidei, struttura sacramentale della chiesa; per il resto era una chiesa molto pluriforme, come sappiamo tutti. C’erano le chiese di area o di lingua semitica, la chiesa Copta nell’Egitto, c’erano le chiese greche dell’impero bizantino, le altre chiese greche, le chiese latine, con grande diversità tra la chiesa d’Irlanda, per esempio, e la chiesa di Roma. Con altre parole, troviamo una chiesa unita nell’essenziale, ma una chiesa con grande pluriformità.

Naturalmente non possiamo ripristinare le forme della chiesa antica, ma possiamo ispirarci ad esse per vedere come sia possibile comporre unità e pluriformità. Questo quindi è lo scopo, la finalità ultima di ogni lavoro ecumenico: arrivare all’unità reale della chiesa, la quale implica pluriformità in forme che adesso non possiamo ancora definire.

Ma dobbiamo anche tener presente che questa unità, questo ultimo scopo dell’ecumenismo, non è una cosa che possiamo semplicemente fare noi. Noi dobbiamo impegnarci con tutte le nostre forze, ma dobbiamo anche riconoscere che in ultima analisi questa unità è un dono di Dio, perché è la sua chiesa, e non la nostra. Una unità costruita tutta da noi, in modo politico o intellettuale, potrebbe creare solo una unità, una chiesa nostra e non sarebbe quindi quella unità della chiesa di Dio alla quale tendiamo.

Perciò, dato che ultimamente non sta nelle nostre mani creare questa unità, dobbiamo trovare anche dei modelli per il tempo intermedio. Questo modello sarebbe, per me, da esprimere con la formula ben conosciuta della “diversità riconciliata”, e su questo punto mi sento molto vicino alle idee formulate dal caro collega Oscar Cullmann.

Ma per spiegare cosa intendo dire con queste parole, mi sia concesso di citare un brano di una conferenza che ho tenuto nell’autunno scorso davanti a giovani vescovi europei su diversi problemi, tra cui anche sull’ecumenismo. Secondo me, molti problemi derivano dal fatto che l’ecumenismo spesso viene inteso secondo un modello politico e considerato come le negoziazioni tra stati o anche fra le parti del mondo economico. Tutto dipende qui dalla prudenza e dalla buona volontà dei partners che, dopo un certo tempo, devono arrivare ad un contratto con compromessi accettabili da tutti. Così, si pensa, le negoziazioni tra le diverse chiese dovrebbero man mano produrre dei compromessi e tramite questi pervenire a “contratti” sui diversi elementi della separazione: dottrina della giustificazione, ministero, primato del papa, intercomunione ecc. e, finalmente, sfociare in un “contratto di riunificazione”.

Questo modello è costruito senza tener conto della specificità della realtà chiesa. Si mette tra parentesi la dipendenza radicale della chiesa da Dio e si dimentica che il vero soggetto agente nella chiesa è Dio. Solo Dio può creare l’ultima vera unità ecclesiale; le unificazioni solamente fatte da noi non arriverebbero all’altezza dell’unità sacramentale e dottrinale.

Per un vero ecumenismo è importante, quindi, riconoscere il primato dell’azione divina e trarre le conseguenze di un tale atteggiamento. Anzitutto: l’ecumenismo esige pazienza; il vero successo dell’ecumenismo non consiste in sempre nuovi contratti, ma consiste nella perseveranza dell’andare insieme, dell’umiltà che rispetta l’altro, anche dove la compatibilità in dottrina o prassi della chiesa non è ancora ottenuta; consiste nella disponibilità ad imparare dall’altro e a lasciarsi correggere dall’altro, in gioia e gratitudine per le ricchezze spirituali dell’altro, in una permanente essenzializzazione della propria fede, dottrina e prassi, sempre di nuovo da purificare e da nutrire alla Scrittura, tenendo fisso lo sguardo al Signore e, nello Spirito Santo, col Signore al Padre. Consiste nella disponibilità di perdonare e di cominciare sempre di nuovo nella ricerca dell’unità e, finalmente, nella collaborazione nelle opere di carità e nella testimonianza per il Dio rivelato davanti al mondo.

Se Dio è il primo agente della causa ecumenica, il comune avvicinarsi al Signore è la condizione fondamentale di ogni vero avvicinamento delle chiese. Con altre parole, ecumenismo è innanzitutto un atteggiamento fondamentale, un modo di vivere il cristianesimo. Non è un settore particolare, accanto ad altri settori. Il desiderio dell’unità, l’impegno per l’unità appartiene alla struttura dello stesso atto di fede, perché Cristo è venuto per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi.

La caratteristica fondamentale di un ecumenismo teologico e non politico è dunque la disponibilità di stare e di camminare insieme anche nella diversità non superata; la regola pratica è fare tutto ciò che possiamo fare noi per l’unità e lasciare al Signore quanto può fare soltanto il Signore. “Oportet et haereses esse”, dice san Paolo.

Forse non siamo tutti maturi per l’unità e abbiamo bisogno della spina nella carne, che è l’altro nella sua alterità, per risvegliarci da un cristianesimo dimezzato, riduttivo. Forse il nostro dovere è essere spina l’uno per l’altro. Ed esiste un dovere di lasciarsi purificare ed arricchire dall’altro. Forse ci aiuta più l’ascolto umile, reciproco nella diversità che non una unità superficiale.

Tutti questi atteggiamenti devono sempre essere collegati con la volontà ferma di diventare maturi per il momento dell’unità. Il modello della diversità riconciliata è da interpretarsi in questo senso dinamico e processuale. Questo è per me molto importante: diversità riconciliata non vuol dire essere contenti della situazione che abbiamo, ma è un processo dinamico; è un ecumenismo positivo se interpretato in questo senso.

Anche nel momento storico nel quale Dio ancora non ci dà l’unità perfetta, riconosciamo l’altro, il fratello cristiano, riconosciamo le chiese sorelle, amiamo la comunità dell’altro, ci vediamo insieme in un processo di educazione divina nella quale il Signore usa le diverse comunità l’una per l’altra, per farci capaci e degni dell’unità definitiva.

Detto ciò, posso ora brevemente passare al problema del papato. In questo modello si inserisce anche una visione dinamica dello sviluppo, non solo dell’unità, ma anche degli organi dell’unità. Dalla storia sappiamo bene che il ministero dell’unità, che secondo la nostra fede è affidato a Pietro e ai suoi successori, si può realizzare in modi molto diversi. La storia ci offre dei modelli, ma la storia naturalmente non è ripetibile; ci ispira, ma dobbiamo rispondere alle situazioni nuove. Io non oserei, per il momento, suggerire per il futuro realizzazioni concrete possibili e pensabili. Vorrei dire solo due cose, e così finire.

La prima: negli anni settanta ero in contatto con un gruppo di luterani della Germania e dei paesi Scandinavi ed abbiamo un po’ riflettuto su come dovrebbe presentarsi una “ecclesia catholica confessionis augustanae”; abbiamo formulato diverse ipotesi. Lo ricordo solo per dire che in situazioni concrete si possono pensare possibilità concrete, sebbene non osi presentare un modello astratto per un futuro che non è ancora presente.

La seconda cosa: io ripeto anche oggi quanto ho detto venti anni fa in una conferenza a Graz in Austria circa le chiese ortodosse. Dissi che non dovrebbero cambiare al loro interno molto, anzi quasi niente, nel caso di una unità con Roma. Due osservazioni concrete. Gli ortodossi hanno un modo diverso di garantire l’unità e la stabilità della comune fede, diverso da come lo abbiamo noi nella Chiesa cattolica dell’occidente. Non hanno una Congregazione per la dottrina della fede. Ma nella Chiesa ortodossa la liturgia e il monachesimo sono due fattori molto forti che garantiscono una fermezza e una coerenza della fede. La storia mostra che sono mezzi adeguati e sicuri, in questo contesto storico ed ecclesiale, per servire all’unità fondamentale.

In secondo luogo mi ha molto illuminato un contributo del teologo ortodosso Meyendorf, il quale, con una franchezza rara, direi, compie sia un’autocritica del problema dell’unità nelle chiese ortodosse, sia una critica della chiesa romana, e così apre strade per pensare al futuro (senza di nuovo indicare già modelli concreti). Meyendorf critica l’universalismo nella sua forma romana, ma critica anche, come dice, il regionalismo come si è formato nella storia delle chiese ortodosse. Rileva che anche le chiese ortodosse (le quali probabilmente non avrebbero intenzione di definire il ministero dell’unità in termini di “jus divinum”, ma piuttosto di “jus ecclesiasticum”), devono necessariamente proporre delle forme istituzionali per garantire ed esprimere in modo reale la dimensione universale della chiesa. Inoltre afferma che tre livelli sono necessari, e devono penetrarsi reciprocamente perché sia realizzata la chiesa nella sua pienezza. Primo livello: la chiesa locale è chiesa reale nella celebrazione dell’eucaristia. Secondo, la chiesa deve poi anche implicare e realizzarsi nella dimensione regionale, cioè culturale, nazionale, sociale. Ma infine la chiesa deve anche realizzarsi nella dimensione universale. Il regionalismo, dice il teologo ortodosso, deve sempre riconciliarsi anche coll’universalismo. Solo così siamo nella chiesa voluta dal Signore e tutti insieme dobbiamo trovare come queste tre dimensioni possano riconciliarsi.

Mi sembra che questa non sia ancora una risposta concreta, ma l’indicazione di un cammino, un’autocritica sincera, insieme con una critica oggettiva degli altri, nella quale possiamo incontrarci e che, nella sostanza, vale non solo per le chiese ortodosse, ma anche per quelle nate dalla Riforma. Mi fermo per il momento.

[Il testo integrale con la relazione del prof. Paolo Ricca è disponibile al link https://www.cittanuova.it/cn-download/10730/10731 ]

Testimonianza ed ecumenismo oggi

Quando ho un po’ riflettuto, nel tempo molto limitato a mia disposizione, sulla risposta da dare a questa domanda, mi è venuta in mente (e qui il mio pensiero coincide con quello del professor Ricca), la “essenzializzazione”.

Dobbiamo realmente ritornare al centro, all’essenziale o, in altre parole: il problema centrale del nostro tempo è l’assenza di Dio e perciò il dovere prioritario dei cristiani è testimoniare il Dio vivente. Mi sembra che prima di tutti i moralismi, di tutti quei doveri che abbiamo, noi con forza e con chiarezza dobbiamo testimoniare il centro della nostra fede. Dobbiamo rendere presente nella nostra fede, nella nostra speranza e nella nostra carità la realtà del Dio vivente.

Se oggi esiste un problema di moralità, di ricomposizione morale nella società, mi sembra che risulti dall’assenza di Dio nel nostro pensiero, nella nostra vita. Risulta ancora, per essere più concreti, dall’assenza della fede nella vita eterna, che è vita con Dio. Io sono convinto che oggi il deismo - cioè l’idea che Dio può esistere, ma non entra finalmente nella nostra vita - è presente non solo nel mondo cosiddetto secolarizzato, ma è determinante fino a una misura pericolosa, direi, all’interno delle chiese e della nostra vita di cristiani.

Non abbiamo più osato parlare sulla vita eterna e sul giudizio. Dio è divenuto per noi un Dio lontano, un Dio astratto. Non abbiamo più il coraggio di credere che questa creatura, l’uomo, sia così importante agli occhi di Dio che Dio si occupa e preoccupa con noi e per noi. Pensiamo che tutte queste cose che facciamo siano finalmente cose nostre e per Dio, se esiste, non possano avere molta importanza. Così abbiamo deciso di costruire da noi stessi, di ricostruire il mondo, e non contiamo realmente sulla realtà di Dio, la realtà del giudizio e della vita eterna.

Ma se prescindiamo nella nostra vita di oggi e di domani dalla vita eterna, cambia tutto: perché l’essere umano perde il suo grande onore, la sua grande dignità, e tutto diventa finalmente manipolabile. Perde la sua dignità, questa creatura immagine di Dio, e perciò la conseguenza inevitabile è una decomposizione morale, un cercare se stesso nel breve tempo di questa vita; dobbiamo inventare noi quale sarebbe il migliore modo di costruire la nostra vita e la vita in questo mondo.

Perciò il nostro compito fondamentale, proprio se vogliamo contribuire alla vita umana e alla umanizzazione della vita in questo mondo, è rendere presente, e per così dire quasi tangibile, questa realtà di un Dio che vive, di un Dio che ci conosce e ci ama, nel cui sguardo viviamo, un Dio che riconosce la nostra responsabilità e aspetta da essa la risposta del nostro amore realizzato e concretizzato nella nostra vita di ogni giorno.

A me sembra che il più grande pericolo delle chiese, dei cristiani, è rifugiarsi in un certo moralismo per essere più accettabili, più comprensibili nel mondo secolarizzato, lasciando da parte l’essenziale. E questo moralismo può avere, ha spesso degli scopi realmente validi, buoni, ma se diventa moralismo puro e non è animato dalla fede nel Dio vivente, alla fine non ha forza e non può realmente cambiare la vita umana.

Perciò questa priorità per la testimonianza del Dio vivente mi sembra l’imperativo più urgente per tutti i cristiani, e mi sembra anche l’imperativo che ci unisce, perché tutti i cristiani siamo uniti nella fede in questo Dio che si è rivelato, incarnato in Gesù Cristo. Rendere questa testimonianza essenziale per il mondo di oggi, il mondo cristiano e il mondo non cristiano, ci unisce proprio se non intendiamo immediatamente le cose ecclesiastiche, ecumeniche, ma se intendiamo (senza guardare a noi stessi) la testimonianza essenziale per Dio. E mi sembra che tutto il resto segua. Se viviamo sotto gli occhi di Dio e se Dio è la priorità della nostra vita, del nostro pensiero e della nostra testimonianza, il resto segue. Segue cioè l’impegno per la pace, segue necessariamente l’impegno per la creatura, segue la protezione e l’impegno per i deboli, segue l’impegno per la giustizia e l’amore. Quindi sono d’accordo con tutte le sfide di cui ha parlato il collega Ricca. Vorrei sottolineare che tutte sono unite e "centralizzate" in questa prima sfida: di credere realmente e testimoniare il Dio vivente.