Il business della carità. Ottanta euro su 100 bruciati in stipendi e corruzione. L’Italia ha donato 3 miliardi per la cooperazione tra il 2008 e il 2013. Esperienza Burkina: “L’unico aiuto utile è quello che uccide l’aiuto”, di Sandro Cappelletto
Riprendiamo da La Stampa del 30/1/2017 un articolo di Sandro Cappelletto. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (26/2/2017)
Foto AFP
OUAGADOUGOU (Burkina Faso)
«La vostra urina vale oro!» assicura un cartello arrugginito piantato in un parco di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso; accanto, una latrina in cemento armato ormai crollata su se stessa e ricoperta da un rampicante. Era questo l’imperativo slogan di un progetto destinato al riuso dell’urina come fertilizzante agricolo. Finanziato anche dall’Unione Europea, è morto prima ancora di nascere, dopo aver inghiottito risorse e arricchito gli ideatori. Soltanto loro. Accade troppo spesso nel mondo della cooperazione.
Le cifre destinate all’aiuto ai “paesi in via di sviluppo” impressionano: 135 miliardi di dollari all’anno. Nel periodo 1960-2010 la Cooperazione internazionale ha potuto disporre di 1 trilione di dollari. Come se, per mezzo secolo, ogni cittadino dei paesi donatori abbia contributo per 100 dollari ogni anno.
Dal 2008 al 2013 l’Italia ha stanziato per la cooperazione 2,9 miliardi di euro e figura al quarto posto, dopo Germania, Francia e Regno Unito, tra i paesi donatori europei.
Tuttavia, mentre la quota stabilita dall’Ocse per gli aiuti allo sviluppo è lo 0,7% del Prodotto Interno Lordo, noi ci fermiamo allo 0,16%.
Il problema non è la quantità di denaro disponibile, ma l’utilità della spesa, se negli ultimi trent’anni i paesi più dipendenti dagli aiuti hanno registrato tassi di crescita negativi: -0,2%.
Secondo lo Human development report dell’Onu l’Africa subsahariana, dove si concentra la gran parte dei paesi beneficiari dei progetti di cooperazione, rappresenta oggi un terzo della povertà mondiale rispetto a un quinto del 1990.
Circa l’80% delle somme stanziate finanzia il funzionamento delle strutture, o si perde per strada per quella che i professionisti del settore chiamano, con un eufemismo, la “volatilità”: la corruzione, o la non disponibilità ad abbassare il proprio tenore di vita.
Quattrocentomila euro l’anno era l’affitto pagato a Roma per una villa sull’Appia Antica dal nigeriano Kanayo Nwanze, presidente dell’Ifad, l’agenzia dell’Onu che ha come missione quella di sradicare la povertà. Ma in un mondo in cui aumentano, contestualmente, diseguaglianze, conflitti e profughi - 60 milioni solo nel 2016, la cifra più alta mai registrata - esistono alternative alla cooperazione?
Le storie qui raccontate si svolgono tutte in Burkina Faso, una nazione di 17 milioni di abitanti, grande poco meno dell’Italia, che gli indicatori economici collocano ai primi posti nella graduatoria della povertà mondiale.
La vita media non supera i 45 anni, la fertilità è di 6,9 figli per donna. Il Burkina, nel mondo della cooperazione, è considerato un importante laboratorio di tolleranza e di dialogo: qui convivono 60 diverse etnie, altrettante lingue, e tre religioni, la cristiana, la musulmana e l’animista. I conflitti interetnici e interreligiosi erano sconosciuti, almeno fino ai sanguinosi attentati del gennaio 2016, compiuti nella capitale. Ora, nel Nord del Paese è attivo un gruppo jihadista composto da circa 200 militanti. Nonostante la povertà, la vita culturale è vivacissima: in Burkina Faso si tiene il più importante festival del cinema africano e gli spettacoli prodotti dalla scuola di teatro Gambidi vincono spesso riconoscimenti internazionali.
La visita al Museo etnografico è indispensabile per entrare in colloquio con il pensiero animista e il Museo della Musica, da poco restaurato, ricorda la fondamentale, e ancora vivissima, funzione rituale della musica e della danza.
I fagiolini di Kongoussi
«Possiamo mandarvene anche mille tonnellate» dice l’agricoltore Sylvain Sawadogo, mentre osserva le contadine raccogliere i fagiolini da terra.
Nei supermercati italiani ne arriveranno in questi giorni cento tonnellate e sarà già un risultato notevole.
Il progetto nasce nel 2007 per soddisfare la richiesta di una cooperativa che nel villaggio di Kongoussi, raggruppa 1500 famiglie: ampliare il mercato senza danneggiare i colleghi europei, facendo arrivare i fagiolini «controstagione», quando da noi non se ne producono. Valter Ulivieri, agronomo attivo nel mondo della cooperazione, perfeziona l’iniziativa, che piace al punto da attirare l’interesse dell’Unido, l’Agenzia delle nazioni unite per lo sviluppo industriale.
«È stato l’inizio del disastro», ricorda Ulivieri. Il progetto è premiato come modello di cooperazione a New Delhi nel 2009, nel 2010 a Ouagadougou una conferenza internazionale ne celebra il successo, mentre viene creata un’apposita struttura organizzativa affittando uffici, automezzi, assumendo personale.
Ma nel frattempo tutto si è fermato: l’Unido compra sementi sbagliate, i fagiolini sono invendibili, nessuno paga i contadini. «Un fiume di danaro si era perso nei meandri ministeriali e agli agricoltori di Kongoussi non arrivò neanche una goccia. È la dimostrazione che nella cooperazione il rapporto tra grandi organismi governativi o istituzionali spesso non funziona», dice Ulivieri. «C’è voluto del tempo per riprenderci dallo sconforto, ora siamo ripartiti».
Il pane di Loumbila
Il pane migliore del Burkina si sforna a Loumbila, un villaggio a circa venti chilometri dalla capitale. Il forno e il ristorante sono stati avviati nel 2003 con un investimento di 70.000 euro offerto dalla cooperazione italiana, che ha provveduto anche alla formazione professionale di panettieri e cuochi. Pane ai semi di sesamo, pizza, gelati e piatti locali: l’attività produce reddito e assieme alla vendita della spirulina, un integratore alimentare indicato soprattutto per i bambini che qui di proteine ne mangiano poche, consente al forno di Loumbila di pagare una decina di stipendi e di contribuire alle spese dell’orfanotrofio confinante con il ristorante. Un esempio virtuoso.
I bimbi di Gorom Gorom
Il progetto dell’orfanotrofio «Casa Matteo» di Gorom Gorom, nel Nord del Burkina, lungo il confine con il Mali, nasce nel 2001 e si rafforza in quindici anni di lavoro che hanno visto collaborare la Coop Firenze e il Movimento Shalom. L’obiettivo dell’autosufficienza era stato raggiunto grazie alla costruzione dell’Hotel des Dunes, pensato per i turisti attratti dal fascino del paesaggio del Sahel. Ma la guerra in Mali, l’arrivo di 30.000 profughi tuareg, le misure di sicurezza richieste da una compagnia mineraria canadese, le azioni terroriste, hanno fatto crollare gli arrivi.
Le suore cattoliche di «Casa Matteo» accudiscono 20 bambini, sostenuti anche grazie al meccanismo delle adozioni a distanza. «Molti sono figli di famiglie musulmane. Accogliamo tutti, facciamo assistenza, non catechesi», dice suor Céline. Nell’edificio adibito a magazzino sembra essersi dato appuntamento il mondo intero: il latte in polvere proviene dalla Svizzera e dal Nord Irlanda; soia, miglio e arachidi dalla Thailandia; il riso dal Nord Carolina; lo zucchero dal Brasile; l’olio di palma dalla Costa d’Avorio; i letti d’ospedale da Massa Marittima; un kit di pronta assistenza per neonati è stato inviato dal Lutheran World Relief; dei condizionatori d’aria coreani LG, portati da cooperanti francesi, restano inutilizzati perché troppo ingombranti.
Ora c’è necessità di un mulino per produrre farina e di un nuovo ecografo: quello vecchio è fuori uso da un anno e non si trovano pezzi di ricambio. Serviranno almeno 20.000 euro. La Coop ha garantito il proprio sostegno per altri quattro anni. Poi?
L’aiuto che uccide l’aiuto
Un gruppo di animalisti inglesi si batte per mettere fine ai maltrattamenti degli asini; il sindacato tedesco degli insegnanti ha avviato un progetto contro lo sfruttamento del lavoro minorile e l’altissima evasione scolastica; una associazione di Lucca organizza un corso di rianimazione neo-natale; l’ostetrica Lia Burgalassi visita in tre giorni, senza l’aiuto di alcuna strumentazione medica, 165 donne incinte per stabilire lo stato di avanzamento della gravidanza e alla fine viene ringraziata con canti e balli al femminile e offerte di cibo.
Una Ong di Torino costruisce un invaso per trattenere l’acqua piovana grazie ad un finanziamento di 1,2 milioni di euro della Conferenza Episcopale Italiana; un’altra crede nel microcredito affidato alle donne come molla dello sviluppo, c’è chi punta sui semi di jatropha per produrre biocombustibili. «Il solo aiuto che serve è l’aiuto che aiuta ad uccidere l’aiuto», disse Thomas Sankara, il «Fidel Castro africano», il presidente del Burkina assassinato nel 1987: un delitto rimasto senza colpevoli ufficiali. Quanti progetti di cooperazione vanno nella direzione indicata da Sankara, l’unica davvero utile? Quanti, invece, servono soprattutto a lenire il senso di colpa di noi occidentali verso territori e popoli che abbiamo a lungo sfruttato e massacrato, quanti sono funzionali ad ingrassare i poderosi ingranaggi della cooperazione corrotta?
«Una macchina che se bene indirizzata può creare lavoro e ricchezza e fermare l’esodo di milioni di persone verso un’Europa che fatica ad accoglierle», riflette don Andrea Cristiani, fondatore del movimento Shalom, mentre osserva i 100 ragazzi che frequentano il Liceo Politecnico Shalom di Ouagadougou entrare a scuola. «Offriamo ai giovani la possibilità di una formazione professionale e poi, speriamo, di un lavoro qui. Non ci sono alternative, la strada è questa».