Federer vince gli Australian Open (e la morte dovrà ripassare), di Giampaolo Nicolais
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Riprendiamo dal blog di Giampaolo Nicolais https://giampaolonicolais.wordpress.com/ un suo articolo postato il 29/1/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Su Roger Federer vedi su questo stesso sito Federer as religious experience, di David Foster Wallace.
Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2017)
N.B. de Gli scritti
L’articolo coglie quel nesso fra la vita e l’eterno desiderio dell’uomo di vincere la morte di cui già scriveva san Paolo: «Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre. Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato» (1 Cor 9, 24-27).
Tutto parla di Dio e anche il 18esimo Slam del “re” ci incoraggia a vincere la morte e a combattere la buona battaglia, anche se cinque set dovessero essere massacranti e il ricordo di vecchie sconfitte amareggiarci.
Era sotto 1-3 al quinto set. Il quarto l’aveva vinto Nadal di forza, 6-3. Nell’ultima ora di gioco o giù di lì, Nadal aveva vinto più del doppio dei games, 9 contro 4.
La strada della sconfitta appariva segnata. Una volta ancora. L’ennesima. Ero lì davanti allo schermo, impietrito. Questa partita finisce e finirà sempre allo stesso modo, lo so, è inutile illudersi – a un certo punto, prima o poi, al terzo o al quinto, Nadal prende il comando e Federer accosta, si fa piccolo, cede all’enorme pressione psicologica della sua nemesi, al pensiero che non sarà il più grande di tutti perché, quando tocca a loro due, arriva sempre un momento in cui l’altro passa oltre, lui si scansa, l’altro neanche si volta indietro e con la mano fa bye bye.
Sembrava un Venerdì Santo. Il pensiero che a volte ci afferra la gola nel cuore della notte e non ci lascia più fino all’alba – la vita finisce, non ci possiamo fare niente. Il buio che si fa sempre più fitto, fino al silenzio assoluto della morte interiore procurata dall’ultimo punto. Sarebbe stato il solito drittone in top incrociato sul rovescio impotente? Un ace al centro? Un vincente col rovescio bimane, magari lungolinea? Era solo questione di tempo. Probabilmente, a quel punto, molto breve. Nessuna resurrezione, solo il ciclo dell’eterno ritorno. Federer-Nadal come il tempo circolare della sconfitta dell’uno e del trionfo dell’altro.
È stato proprio allora, quando ha dato avvio al suo turno di battuta sull’ 1-3, che ho avuto un pensiero limpido, semplice, convincente: Roger vince 6-3.
Non so perché, né come, né tantomeno in base a quale dato oggettivo. Ma ce l’ho avuto. Non mi ci sono aggrappato, come si fa quando l’illusione è l’ultima fragile barriera prima dello schianto annunciato. No. In qualche modo ho capito che oggi l’inevitabile non sarebbe accaduto, che Roger avrebbe compiuto lo sforzo immane di srotolare finalmente quella circolarità, quell’apparente destino, per farne un’opera d’arte di forza, coraggio, scioltezza di gesti che avrebbero telecomandato palle fatte apposta per destabilizzare Nadal e quel suo copione mortifero mandato a memoria in anni di repliche tutte perfettamente uguali. Punto dopo punto, la realtà si è mostrata millimetricamente sovrapponibile a quel pensiero. Ogni suo colpo, uno dopo l’altro, ogni suo sguardo tra un punto e quello successivo, ogni suo passo di danza di piuma umana, tutto ha costruito con precisione il piano d’uscita dal Venerdì Santo.
So che non gli importa del 18mo slam. Né di averlo vinto dopo 6 mesi di assenza che devono essergli sembrati infiniti. So che voleva sbeffeggiare la morte. E c’è riuscito.