Il discorso di Paolo all’Areopago di Atene. Fu davvero un fallimento?, di Bruno Maggioni
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Bruno Maggioni, recentemente ripubblicato in Sulle orme di Paolo, vol. III, pp. 18-23, Edizioni San Paolo, supplemento a Jesus. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (12/3/2010)
Rileggiamo il discorso di Paolo all’Areopago di Atene, come lo riferiscono gli Atti (17,22-31): «Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in tempi costruiti dalle mani dell' uomo, né dalle mani dell'uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: Poiché di lui stirpe noi siamo. Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all'oro, all'argento e alla pietra, che porti l'impronta dell'arte e dell'immaginazione umana. Dopo essere passato sopra ai tempi dell'ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti».
Queste parole sono un primo tentativo di dialogo fra cristianesimo e cultura; una pagina in cui il missionario cristiano cammina con l'uomo precristiano fin dove è possibile. E a prima vista pare che non dia i frutti sperati: «Appena sentirono l'accenno alla risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: Ti sentiremo su questo un' altra volta. Così Paolo uscì da quella riunione» (17,32-33).
Più tardi, nella prima Lettera ai cristiani di Corinto, alludendo forse all'esperienza di Atene, Paolo confesserà: «Anch' io, o fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Io ritenni infatti di non saper altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza» (2,1-4).
Allora, lo sforzo di presentare il messaggio dialogando con la cultura ambiente (assumendone fin dove è possibile il linguaggio, i temi e le argomentazioni) è dunque un tentativo inutile, o addirittura contrario allo spirito del Vangelo? Effettivamente c'è chi lo pensa. Ma un esame più attento dei due documenti che abbiamo trascritto - discorso di Atene e lettere ai Corinzi - mostra che il pensiero di Luca negli Atti e di Paolo è più articolato. Il problema è più complesso.
Esaminando il discorso di Atene, osserviamo intanto il quadro in cui è inscritto: è un quadro di forte denuncia. Negli Atti, Luca dice che Paolo «fremeva nel suo spirito al vedere la città piena di idoli" (17,16). E gli esponenti dell’umanesimo pagano - stoici ed epicurei - sono presentati come gente mossa da superficiale e volubile curiosità: «Non avevano passatempo più gradito che parlare e sentir parlare» (17,21).
E il tema centrale del discorso di Paolo è l'ignoranza. Egli vede un'umanità immersa nell'ignoranza e che soltanto ora - con la venuta di Cristo e il suo annuncio - può giungere alla vera conoscenza. Ed è questo un traguardo al quale non si perviene con un cammino autonomo, ma soltanto attraverso un annuncio: «Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio». Paolo non fa dunque una dimostrazione, dà una notizia; non si presenta come filosofo, ma come profeta. Alla conoscenza del vero Dio, - il Dio di Gesù Cristo - l'uomo non giunge sviluppando conoscenze già possedute, partendo da premesse già poste, bensì attraverso una conversione: «Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi».
Paolo, dunque, denuncia fortemente l'ignoranza religiosa degli ateniesi e, più in generale, la sostanziale incapacità delle ricerche dell'uomo per raggiungere l'essenziale. Ma nello stesso tempo non esita ad appellarsi proprio ai maestri dei suoi ascoltatori, a filosofi e poeti pagani dei quali assume il linguaggio e gli insegnamenti; e scopre aspetti positivi persino in quella religiosità idolatra che tanto lo indignava.
Il suo discorso prende l'avvio da una constatazione: «Osservando i monumenti del vostro culto ho trovato anche un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto». E questa constatazione egli la utilizza abilmente, in diversi modi. La presenza di un altare dedicato persino a una divinità ignota manifesta infatti - da una parte - la grande religiosità degli ateniesi («Vedo che in tutto siete molto timorati degli dei») e -dall'altra - il presentimento dell'esistenza di un dio sconosciuto e diverso: siamo perciò di fronte a un' ammissione di ignoranza.
A questo punto Paolo inserisce il suo messaggio: «Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio». Ciò che Paolo ha da dire è una novità alla quale - ripetiamolo - le filosofie e le stesse ricerche religiose da sole non sanno giungere. Questo però non impedisce che le filosofie e le ricerche più valide possano costituire un'autentica e importante premessa; e così il predicatore cristiano le utilizza.
Per esempio, l'affermazione che Dio è dappertutto («non dimora in templi costruiti dalle mani dell'uomo»): questo è un pensiero che anche i filosofi ripetevano, polemizzando contro la tendenza popolare a rinchiudere Dio nei santuari. Oppure l’affermazione che Dio non ha bisogno di nulla «né dalle mani dell' uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa»: anche questo è un argomento utilizzato dai filosofi contro la superstizione popolare. E ancora: l’affermazione dell' unità del genere umano: «Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra».
Soprattutto poi - e non è certo cosa da poco - Paolo fa sua la convinzione che l'uomo può "cercare Dio" e "trovarlo", sia pure come a tastoni e oscuramente, e la ragione è che Dio «non è lontano da ciascuno di noi». I filosofi stoici sviluppavano volentieri questo motivo: la conoscenza di Dio è possibile perché egli non è lontano da noi, anzi, c'è una vera affinità tra Dio e noi. Qui Paolo si appella ad «alcuni dei vostri poeti», e cita un verso di Arato: «Poiché di lui stirpe noi siamo».
Paolo si presenta dunque in un centro culturale come Atene con lo stile di un predicatore colto, che conosce i filosofi e cita i poeti e ne utilizza il linguaggio e i temi. Uno stile che negli Atti Luca non presenta come un tentativo infelice, un esempio da non seguire; al contrario, lo propone come un modello e in un certo senso come il culmine della vicenda missionaria di Paolo.
Né si deve vedere in questo una contraddizione con l'affermazione della prima Lettera ai Corinzi: «La mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza». Una predicazione basata sugli argomenti persuasivi della sapienza mondana è tutt'altra cosa.
Paolo combatte ogni tentativo di annunciare il messaggio di Cristo attenuandone la novità e la durezza; respinge un annuncio, per così dire, "addomesticato", una ricerca di consenso condotta accantonando la Croce che invece è il centro di tutto. Non rifiuta invece – tutt’altro! - lo sforzo di presentare il messaggio in modo adatto, nel linguaggio e negli argomenti, alla cultura degli ascoltatori, accogliendone con simpatia tutti gli apporti positivi.
Purché naturalmente - ripeterebbe Paolo - questa apertura positiva verso tutti i valori dell’uomo non torni a scapito della novità del Vangelo e della sua gratuità. Questo è stato messo in luce assai bene da Luca nel riferire il discorso dell' Areopago. E ai cristiani di Filippi lo stesso Paolo non esiterà a raccomandare: «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. E il Dio della pace sia con voi» (Fil 4,8-9). Non c'è conflitto, dunque, tra il Vangelo e i valori positivi delle ricerche dell' uomo.
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Rileggiamo il discorso di Paolo all’Areopago di Atene, come lo riferiscono gli Atti (17,22-31): «Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in tempi costruiti dalle mani dell' uomo, né dalle mani dell'uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: Poiché di lui stirpe noi siamo. Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all'oro, all'argento e alla pietra, che porti l'impronta dell'arte e dell'immaginazione umana. Dopo essere passato sopra ai tempi dell'ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti».
Queste parole sono un primo tentativo di dialogo fra cristianesimo e cultura; una pagina in cui il missionario cristiano cammina con l'uomo precristiano fin dove è possibile. E a prima vista pare che non dia i frutti sperati: «Appena sentirono l'accenno alla risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: Ti sentiremo su questo un' altra volta. Così Paolo uscì da quella riunione» (17,32-33).
Più tardi, nella prima Lettera ai cristiani di Corinto, alludendo forse all'esperienza di Atene, Paolo confesserà: «Anch' io, o fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Io ritenni infatti di non saper altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza» (2,1-4).
Allora, lo sforzo di presentare il messaggio dialogando con la cultura ambiente (assumendone fin dove è possibile il linguaggio, i temi e le argomentazioni) è dunque un tentativo inutile, o addirittura contrario allo spirito del Vangelo? Effettivamente c'è chi lo pensa. Ma un esame più attento dei due documenti che abbiamo trascritto - discorso di Atene e lettere ai Corinzi - mostra che il pensiero di Luca negli Atti e di Paolo è più articolato. Il problema è più complesso.
Esaminando il discorso di Atene, osserviamo intanto il quadro in cui è inscritto: è un quadro di forte denuncia. Negli Atti, Luca dice che Paolo «fremeva nel suo spirito al vedere la città piena di idoli" (17,16). E gli esponenti dell’umanesimo pagano - stoici ed epicurei - sono presentati come gente mossa da superficiale e volubile curiosità: «Non avevano passatempo più gradito che parlare e sentir parlare» (17,21).
E il tema centrale del discorso di Paolo è l'ignoranza. Egli vede un'umanità immersa nell'ignoranza e che soltanto ora - con la venuta di Cristo e il suo annuncio - può giungere alla vera conoscenza. Ed è questo un traguardo al quale non si perviene con un cammino autonomo, ma soltanto attraverso un annuncio: «Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio». Paolo non fa dunque una dimostrazione, dà una notizia; non si presenta come filosofo, ma come profeta. Alla conoscenza del vero Dio, - il Dio di Gesù Cristo - l'uomo non giunge sviluppando conoscenze già possedute, partendo da premesse già poste, bensì attraverso una conversione: «Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi».
Paolo, dunque, denuncia fortemente l'ignoranza religiosa degli ateniesi e, più in generale, la sostanziale incapacità delle ricerche dell'uomo per raggiungere l'essenziale. Ma nello stesso tempo non esita ad appellarsi proprio ai maestri dei suoi ascoltatori, a filosofi e poeti pagani dei quali assume il linguaggio e gli insegnamenti; e scopre aspetti positivi persino in quella religiosità idolatra che tanto lo indignava.
Il suo discorso prende l'avvio da una constatazione: «Osservando i monumenti del vostro culto ho trovato anche un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto». E questa constatazione egli la utilizza abilmente, in diversi modi. La presenza di un altare dedicato persino a una divinità ignota manifesta infatti - da una parte - la grande religiosità degli ateniesi («Vedo che in tutto siete molto timorati degli dei») e -dall'altra - il presentimento dell'esistenza di un dio sconosciuto e diverso: siamo perciò di fronte a un' ammissione di ignoranza.
A questo punto Paolo inserisce il suo messaggio: «Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio». Ciò che Paolo ha da dire è una novità alla quale - ripetiamolo - le filosofie e le stesse ricerche religiose da sole non sanno giungere. Questo però non impedisce che le filosofie e le ricerche più valide possano costituire un'autentica e importante premessa; e così il predicatore cristiano le utilizza.
Per esempio, l'affermazione che Dio è dappertutto («non dimora in templi costruiti dalle mani dell'uomo»): questo è un pensiero che anche i filosofi ripetevano, polemizzando contro la tendenza popolare a rinchiudere Dio nei santuari. Oppure l’affermazione che Dio non ha bisogno di nulla «né dalle mani dell' uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa»: anche questo è un argomento utilizzato dai filosofi contro la superstizione popolare. E ancora: l’affermazione dell' unità del genere umano: «Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra».
Soprattutto poi - e non è certo cosa da poco - Paolo fa sua la convinzione che l'uomo può "cercare Dio" e "trovarlo", sia pure come a tastoni e oscuramente, e la ragione è che Dio «non è lontano da ciascuno di noi». I filosofi stoici sviluppavano volentieri questo motivo: la conoscenza di Dio è possibile perché egli non è lontano da noi, anzi, c'è una vera affinità tra Dio e noi. Qui Paolo si appella ad «alcuni dei vostri poeti», e cita un verso di Arato: «Poiché di lui stirpe noi siamo».
Paolo si presenta dunque in un centro culturale come Atene con lo stile di un predicatore colto, che conosce i filosofi e cita i poeti e ne utilizza il linguaggio e i temi. Uno stile che negli Atti Luca non presenta come un tentativo infelice, un esempio da non seguire; al contrario, lo propone come un modello e in un certo senso come il culmine della vicenda missionaria di Paolo.
Né si deve vedere in questo una contraddizione con l'affermazione della prima Lettera ai Corinzi: «La mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza». Una predicazione basata sugli argomenti persuasivi della sapienza mondana è tutt'altra cosa.
Paolo combatte ogni tentativo di annunciare il messaggio di Cristo attenuandone la novità e la durezza; respinge un annuncio, per così dire, "addomesticato", una ricerca di consenso condotta accantonando la Croce che invece è il centro di tutto. Non rifiuta invece – tutt’altro! - lo sforzo di presentare il messaggio in modo adatto, nel linguaggio e negli argomenti, alla cultura degli ascoltatori, accogliendone con simpatia tutti gli apporti positivi.
Purché naturalmente - ripeterebbe Paolo - questa apertura positiva verso tutti i valori dell’uomo non torni a scapito della novità del Vangelo e della sua gratuità. Questo è stato messo in luce assai bene da Luca nel riferire il discorso dell' Areopago. E ai cristiani di Filippi lo stesso Paolo non esiterà a raccomandare: «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. E il Dio della pace sia con voi» (Fil 4,8-9). Non c'è conflitto, dunque, tra il Vangelo e i valori positivi delle ricerche dell' uomo.
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