La sapienza d'Israele, di Maurice Gilbert
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Riprendiamo da L'Osservatore Romano del 31/10/1998 un articolo testo di Maurice Gilbert, S.I., La sapienza d'Israele. Riflessioni sull'Enciclica di Giovanni Paolo II "Fides et ratio". Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Libri sapienziali nella sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2017)
Diorama della ghenizah del Cairo dove venne ritrovato,
fra l'altro, un manoscritto ebraico del Siracide
(Museo della Diaspora, Tel Aviv)
Tutti i popoli hanno la loro sapienza. Fondata sull'osservazione, maturata con la riflessione, espressa con delle formule forti, dalle sonorità poetiche facili da ricordare e diffuse fra i popoli, la sapienza persegue l'educazione. Tatto e abilità, buon senso e garbo, la sapienza vuole offrire le chiavi della felicità. Indubbiamente astuta, essa non è tuttavia amorale, poiché la virtù è anche una delle chiavi del progresso umano, come lo è l'atteggiamento religioso.
La sapienza d'Israele s'inscrive in questo ambito. Nata nel Vicino Oriente, essa fu per secoli l'unica a trasmettersi fedelmente nelle comunità ebraiche e cristiane, fino a quando le scoperte moderne hanno rivelato delle sapienze scritte più antiche rispetto alla Mesopotamia ed all'Egitto. Oggi, possediamo sapienze del Vicino Oriente del III, II e I millennio prima della nostra era. È in questo ambito più specifico delle sapienze scritte riscoperte che s'inscrive la sapienza d'Israele.
I Proverbi, Giobbe, Qoelet o Ecclesiaste, la sapienza di Ben Sira, chiamata anche Siracide o Ecclesiastico, e il libro della Sapienza di Salomone sono dunque imparentati con le sapienze dell'antico Vicino Oriente e prendono parte alla sapienza universale. A partire dallo sviluppo della filosofia e della scienza nella Grecia antica, il sapere si è sviluppato in modo strutturato in Occidente, al punto da attenuare, soprattutto dopo la rivoluzione industriale, la funzione della sapienza per gli individui e per la società. In particolare, la distinzione delle diverse scienze ha portato alla divisione dei saperi, creando a volte un antagonismo fra il sapere acquisito dalla ragione e quello che proviene dalla fede. Le sapienze antiche, e certamente quella dell'antico Israele, non conobbero simili derive, che è opportuno correggere, come ben sappiamo.
Fede e ragione
I saggi della Bibbia erano credenti. Essi sono stati allo stesso tempo sapienti e credenti, senza rotture, ma non senza crisi, come vedremo. Per comprenderli, occorre precisare in che cosa si distinguono dai sacerdoti e dai profeti. I sapienti non devono garantire il culto né la conoscenza e l'esercizio della Legge: ciò spetta ai sacerdoti. I saggi non devono ricordare al popolo, come i profeti, le esigenze del Signore così come derivano
dall'impegno nell'Alleanza, e neppure decifrare i segni dei tempi nella storia umana che Dio guida. I sapienti devono analizzare l'esperienza quotidiana comune per scorgervi regole di condotta utili e comunicabili a tutti. Ora il campo di questa esperienza quotidiana è straordinariamente vasto. L'uomo vi è sempre presente, è al suo centro. Che si tratti della natura, degli elementi atmosferici, delle stelle o del mare, del mondo vegetale o animale, è per l'uomo, perché possa aprirsi la strada in un universo di cui non ha un perfetto dominio (a quell'epoca ancora meno di oggi) che i saggi osservano e riflettono alla ricerca di principi esplicativi. È l'essere umano, nella sua diversità di caratteri e di tendenze, in quanto individuo e nella sua dimensione sociale e familiare, nelle sue gioie e nelle sue pene, nelle diverse età e nella morte, ad interessare in primo luogo i sapienti. L'esperienza quotidiana include anche gli effetti della virtù e del vizio, del bene che l'uomo compie, ma anche del male che commette: che dirà dunque il sapiente per condurre i propri simili alla felicità a cui aspirano? L'esperienza quotidiana riguarda però anche l'atteggiamento religioso dell'uomo, che merita analisi e consiglio. Quanto all'azione di Dio nella vita degli umani, sarebbe priva di regole o queste sarebbero inconoscibili? Su questo difficile tratto del cammino, i saggi hanno pensato di poter procedere. In breve, il campo dell'esperienza non ha mai escluso in loro quello della religione e della fede.
D'altro canto, la loro capacità di conoscere non ha stabilito un fossato fra conoscenza profana e conoscenza religiosa. Non solo non ritenevano che esistessero due mondi osservabili distinti, quello della banalità quotidiana e quello in cui regna l'Onnipotente, ma, in funzione del servizio specifico che dovevano rendere alla società, disponevano anche di un solo mezzo di conoscenza, la loro intelligenza riflessiva. Quest'ultima, per quanto illuminata dalla fede comune nel Dio d'Israele, continuava ad essere intelligenza riflessiva. La fede, nei sapienti, non ha mai ostacolato la ragione, ma piuttosto l'ha sostenuta, persino stimolata in alcune epoche, illuminata in altre. E la ragione non ha mai eliminato la fede; l'ha purificata, più di una volta, come è avvenuto in Giobbe e Qoelet, e condotta su nuovi cammini nel libro della Sapienza.
Una teologia della creazione
L'economia della salvezza è, secondo la Bibbia, fondamentalmente legata alla storia. Il Pentateuco, i Profeti e molti Salmi propongono una teologia della storia dai molteplici accenti. I sapienti fanno eccezione, in quando fanno opera di sapienza. La loro intelligenza riflessiva si fonda, in materia religiosa, su una teologia della creazione più universale, che permette di unificare allo stesso tempo i diversi campi dell'esperienza comune che essi analizzano.
Cosa s'intende con teologia della creazione? Fondamentalmente che questa teologia rimanda non al Dio dell'Alleanza, quella che fu conclusa con Abramo, quella del Sinai o quella con cui il Signore s'impegnò con David, ma piuttosto al Dio creatore di tutto l'universo. Non che Israele abbia opposto al creatore il Signore entrato nella sua storia. Per lo meno dal deutero-Isaia al VI secolo, il Dio d'Israele è riconosciuto il Dio unico e solo creatore del mondo´. Il ricorso dei sapienti a una teologia della creazione, della quale le prime pagine della Bibbia sono il racconto di base, aveva il vantaggio di permettere una visione universalistica, fondamentale agli occhi dei sapienti: essi intendevano parlare dell'uomo, dell’adamo, di ogni essere umano. D'altro canto il ricorso alla creazione ricordava e spiegava l'ordine che essi cercavano di chiarire nell'universo e nel mondo degli umani. Quando parlano di Dio, di YHWH, i sapienti si riferiscono all'ordine che Egli ha posto nella sua opera.
Prendiamo qualche esempio. In Proverbi 8, la figura personificata della Sapienza giustifica l'ascolto che richiede da tutti attraverso il triplice fatto che essa assicura l'ordine nella vita personale di ciascuno, nella società e nell'universo. Nella sua risposta a Giobbe, il Signore mostra che lui, Giobbe, non ha il dominio del mondo. Alla fine del suo libro, Qoelet invita il giovane a ricordarsi del suo creatore prima che vengano i giorni difficili dell'età adulta. Ben Sira fa appello alle origini, alla creazione, quando si tratta di porre l'uomo dinanzi a Dio, e il libro della Sapienza giustifica, mediante l'esempio, la moderazione divina nella punizione dei colpevoli con l'amore che Dio non cessa di nutrire per le sue creature in mezzo alle quali si rende presente con il suo spirito.
Timore di Dio, principio di sapienza
Bisogna allora meravigliarsi per il fatto che i saggi hanno affermato che la chiave della sapienza più autentica si trova nell'atteggiamento umano di disponibilità e di umile apertura al mistero divino? Per i saggi dell'antico Israele, il timore non è la paura, ma il rispetto improntato all'affetto, alla venerazione, come quella che si nutre per qualcuno da cui si è ricevuto molto e che per nulla al mondo si vorrebbe ferire o deludere. Ben Sira riconoscerà che questo è l'atteggiamento dell'amore.
Il giorno in cui alcuni saggi, nel VI secolo, hanno forgiato la sentenza: "Il timore del Signore è il principio di sapienza" (Pr 1, 7), hanno fatto un passo avanti considerevole: per essi, non vi è valida conoscenza del nostro mondo e di noi stessi senza questo atteggiamento condizionante di amorevole apertura al divino. È così che si percepisce quanto la fede condizioni la ragione: senza timore del Signore, non vi è sapienza autentica. Dire questo era lungi dal semplificare l'attività dei saggi d'Israele.
I limiti della sapienza
Non è per aver riconosciuto la necessità di porsi dinanzi a Dio per essere autenticamente sapienti che l'Onnipotente diveniva più accessibile: Egli non perdeva nulla del suo mistero di trascendenza. Presto i sapienti hanno potuto affermare: "L'uomo propone e Dio dispone" (cfr Pr 16, 1). Non perché riconosce l'Onnipotente, l'uomo supera i limiti del suo essere finito.
Bardare il proprio cavallo per il combattimento non significa uscirne vittoriosi: la vittoria è YHWH a concederla (cfr Pr 21, 31). Ricevere un'eredità è una cosa tangibile e sicura, ma sposarsi apporterà armonia e felicità? (cfr Pr 19, 14). L'uomo si scontra con i propri limiti e se li rifiuta diviene insensato. Due libri della sapienza biblica hanno dimostrato con incredibile arte i danni di questa mancanza di misura.
Giobbe, come i suoi amici, è convinto che la felicità debba ricompensare in questo mondo la virtù. Giobbe sprofonda nell'infelicità e, agli occhi dei suoi amici, ciò avviene perché ha peccato. Tuttavia, poiché Giobbe sa di essere innocente, finisce con l'accusare il suo Dio irriconoscibile e reclama la sua apparizione! Alla fine YHWH parla per far comprendere a Giobbe che egli non ha il controllo dell'universo: in altre parole, la sua sofferenza non è il prezzo di una colpa e la virtù non genera di per sé la felicità terrena.
Qoelet enumera tutti i casi in cui la sapienza umana, troppo umana, non conduce a nulla; per lui il mistero della trascendenza divina, che egli riconosce, rimane intatto, ma non percepisce più alcun ordine nel suo mondo.
Questi due libri ricordano quindi all'uomo i suoi limiti e servono da antidoto contro la mancanza di misura, un rischio molto reale fra gli umani, che mina anche la vera sapienza. Questi tentativi hanno quanto meno chiarito, anche se solo in parte, chi è Dio e chi è l'uomo: è un punto a favore per una sapienza autentica.
Una filosofia della storia sacra
Ben Sira e la Sapienza di Salomone hanno compiuto un ulteriore passo avanti. La stessa storia sacra è diventata oggetto delle loro meditazioni. Non bisogna pensare che, così facendo, abbiano perduto la loro qualità di saggi. Di fatto, è in qualità di maestri di sapienza che hanno riletto i racconti dei fatti importanti della storia del loro popolo. Dando la parola alla Sapienza (cfr Sir 24), Ben Sira gli fa raccontare come, nata da Dio, essa dominava l'universo, e come, mentre cercava un posto dove stabilirsi, ricevette dal Signore l'ordine di radicarsi in Israele. È lì, a partire dal santuario di Sion, che ha iniziato a crescere, come un albero di vita, ricoprendo la Terra Santa, facendo spuntare i suoi rami, dando fiori e profumi, e persino frutti, che essa stessa offre a chi ha fame e sete. Ora, secondo Ben Sira, questa allegoria, che non ha fatto che descrivere la presenza divina incessantemente offerta al suo popolo, si comprende solo in funzione della Legge.
A ragione si può vedere nel termine "Legge" non i codici di precetti e neppure il Pentateuco, ma il significato generale che aveva acquisito all'epoca, ossia la rivelazione, l'intervento storico di Dio nella storia del suo popolo. Quest'ultimo, agli occhi del saggio, appare pieno di sapienza, la migliore espressione della Sapienza divina. È pertanto sbagliato pretendere che attraverso Ben Sira la corrente sapienziale si sia sottomessa all'ordine giuridico. Al termine della sua raccolta, Ben Sira abbozza il ritratto dei principali personaggi della storia biblica, da Adamo a Neemia. Perché questo affresco storico dopo un inno alla creazione? Tutti sono giudicati in funzione della loro adesione all'ideale che l'autore ha presentato nel discorso della Sapienza. È dunque in quanto saggio che Ben Sira abbozza tutti questi ritratti.
La Sapienza di Salomone propone una lunga meditazione orante sull'esodo per mostrare come Salomone, chiedendo a Dio la Sapienza, poteva appoggiarsi alla testimonianza di coloro che avevano vissuto l'evento della fondazione d'Israele. Per l'autore anonimo, l'esodo aveva mostrato come gli elementi del cosmo lottino, nella mano di Dio, per punire gli empi o per confortare i giusti nella disperazione. Ma l'epopea dell'esodo appariva soprattutto come una nuova creazione (cfr Sap 19, 6). La teologia della storia diviene teologia della creazione, tanto più importante in quando l'origine di Israele fu una creazione rinnovata in cui gli elementi cosmici ebbero un ruolo preponderante da svolgere; il lettore può pensare che avverrà lo stesso al termine della storia. L'autore aveva avanzato, all'inizio del suo libro, la tesi dell'incorruttibilità dell'essere umano, ma forse aveva già in mente la risurrezione dei corpi dei giusti. Così uno dei sapienti più tardivi dell'antico Israele, rileggendo la storia santa nei suoi fondamenti, ma dal punto di vista di una teologia della creazione, è stato fra i primi a far progredire la riflessione teologica del suo popolo sul mistero dell'aldilà.
Il saggio si fida
I saggi non avrebbero mai potuto progredire se non avessero vissuto nella fiducia. Essi ritenevano che la loro intelligenza era capace di conoscere, che l'osservazione dell'esperienza poteva condurre a formulare principi e regole valide. Il fatto che la loro intelligenza urtasse contro i propri limiti ha fatto comprendere loro che la conoscenza del limite era un vera conoscenza. Quando l'analisi dell'esperienza vissuta conduce a un'"impasse", ad esempio quella del giusto sofferente in Giobbe, o quando l'acutezza dello sguardo fa vedere solo il limite del proprio sapere, come avviene con Qoelet, anche allora essi continuano a parlare, sicuri che la loro intelligenza abbia appena scoperto un aspetto importante della sua capacità.
L'autore della Sapienza di Salomone è andato ancora più lontano: a partire da ciò che noi vediamo in questo mondo, l'intelligenza può risalire, postulandolo, verso colui che ne è l'autore. La grandezza e la bellezza del mondo fanno dedurre per analogia le qualità di colui che ne è l'artefice. I filosofi greci che hanno divinizzato il mondo si sono dunque sbagliati. Lo stesso autore afferma che il Dio che ha fatto il mondo, e che gli è dunque superiore, non è altri che quello che è intervenuto nella storia d'Israele (cfr Sap 13).
I saggi erano convinti che la loro intelligenza fosse in grado di conoscere perché vi era nel reale un ordine conoscibile, nel quale potevano aver fiducia. Tutte le nostre scienze moderne si fondano su questo postulato. I sapienti potevano parlare dell'uomo perché, se il loro messaggio era vero, tutti lo avrebbero riconosciuto: i nostri atteggiamenti e i nostri comportamenti, per quando diversi, obbediscono a regole conoscibili o generano conseguenze ugualmente conoscibili nei loro principi. Un ordine regola il genere umano: i sapienti avevano fiducia in questo ordine; potevano allora sentirsi vicini ai saggi del paganesimo che vivevano in quella stessa fiducia. L'ordine non regge soltanto il genere umano. L'umanità aspira alla realizzazione di questo ordine e i saggi, ben consapevoli della realtà dei disordini fra gli esseri umani, intendevano illuminarli lungo la via che realizza questo ordine e di cui descrivevano le caratteristiche. Fiduciosi nell'ordine che regge il genere umano, pensavano di servire l'umanità ricordandole l'ideale che essa reca in se stessa.
Ugualmente, i saggi pensavano che esisteva un ordine nell'universo, che potevano conoscerne qualche aspetto e che dovevano aver fiducia in esso. Tutto il loro sapere implicava l'esistenza di questo ordine e la fiducia che gli accordavano. Se si appoggiavano su una teologia della creazione è proprio perché essa implicava questo ordine conoscibile, del quale potevano fidarsi.
La Sapienza, Presenza di Dio
Questo ordine in tutto l'universo, è Dio che lo ha posto. Quale rapporto bisogna vedere fra tale ordine e la personificazione della Sapienza divina? Lo abbiamo già detto, in Pr 8,la Sapienza giustifica l'ascolto che essa esige con l'ordine che stabilisce nella vita di ognuno, verità e giustizia, nella società, consigliera dei governanti, assicura il diritto e il benessere, nell'universo, è alla sua presenza che YHWH ha costituito saldo l'insieme cosmico. Questa triplice giustificazione chiarisce l'idea dell'ordine che si erano fatti i saggi dell'antico Israele. Tuttavia, tale giustificazione serve solo a mostrare il perché dell'ascolto che la Sapienza richiede.
L'ascolto di cosa? Se lo si comprende bene, Pr 8, come Pr 1, 20-33 e Pr 9, 1-6, altri testi che personificano la Sapienza, introduce alle collezioni di proverbi (Pr 10-31), che costituiscono la parte essenziale della raccolta. Cosa dire se non che i proverbi di queste collezioni sono riconosciuti come parole della Sapienza personificata? Tutta questa sapienza d'Israele viene riconosciuta non più soltanto come opera dei sapienti, ma anche come espressione della Sapienza stessa che proviene da Dio. È lei ad esprimersi attraverso di essi affinché l'ordine nel mondo sia riconosciuto e accettato, perché il disordine, quello dell'insensato, sia a sua volta riconosciuto e mutato in ordine. Accogliendo i proverbi dei saggi, Israele concretizzerà il progetto della Sapienza divina, nella vita personale, sociale e cosmica. Come non scorgere allora nei proverbi la presenza interpellante della Sapienza di Dio? È poi così lontano da ciò che la nostra teologia classica chiama l'ispirazione?
Per Sir 24, l'offerta che il Signore ha fatto a Israele, e che rinnova incessantemente, è di entrare nella sua storia. La Sapienza divina ha piantato la sua tenda in Giacobbe, si è radicata in Sion, è cresciuta, fiorita e ha recato il suo frutto, sempre offerto. È il mistero della Presenza divina al centro della storia santa ad essere evocato dal sapiente Ben Sira. Dinanzi alla tentazione della sapienza ellenistica, questa presenza conferisce un senso al patrimonio storico d'Israele.
Un ultimo passo doveva essere compiuto dall'autore della Sapienza di Salomone, prima che si manifestasse il Nuovo Testamento. La Sapienza divina appare a questo autore come essenzialmente spirituale. È Presenza di Dio nel mondo che anima in vista del bene, pur essendo da esso distinta: essendo di Dio, la sua trascendenza non impedisce la sua immanenza; di conseguenza il panteismo degli stoici viene superato. È anche Presenza di Dio nel cuore dei profeti e dei santi, nel cuore del saggio che essa guida, illumina e purifica. Agli occhi dell'autore, solo questa Presenza divina interiore che è la Sapienza può permettergli di essere veramente un sapiente: occorre quindi chiederla anche nella preghiera, come fece Salomone, e amarla.
Si vede così quanto in Israele la fede in Dio sia stata percepita come il motore essenziale della sapienza umana più autentica. Questa sapienza, in tutto il suo spessore, si è rivelata possibile poco a poco solo attraverso la Presenza, Sapienza di Dio.