«La questione dell'unità interiore dell'unica Bibbia della Chiesa composta di Antico e Nuovo Testamento era un tema centrale. Questo è solo un problema teorico Senza l'Antico Testamento, il Nuovo Testamento sarebbe un libro indecifrabile, una pianta privata delle sue radici e destinata a seccarsi. I Padri della Chiesa con la loro interpretazione cristologica dell'Antico Testamento non hanno creato nulla di nuovo, ma solo sviluppato e sistematizzato, ciò che già trovavano nel Nuovo Testamento stesso. ». Le due prefazioni del cardinal Ratzinger ai documenti della Pontificia Commissione Biblica
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1/ Prefazione dell'Em.mo Card. Joseph Ratzinger al documento della Pontificia Commissione Biblica L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993)
Riprendiamo dal sito della Santa Sede un testo dell’allora cardinal Joseph Ratzinger. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione La Bibbia; la Parola di Dio al Concilio Vaticano II nella sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2017)
Lo studio della Bibbia è come l’anima della teologia; lo dice il Concilio Vaticano II (Dei Verbum 24), rifacendosi a una espressione del Papa Leone XIII. Tale studio non è mai finito; ogni epoca deve di nuovo, a modo suo, cercare di capire i Libri Sacri. Nella storia dell’interpretazione, l’uso del metodo storico-critico ha segnato l’inizio di una nuova era. Grazie a questo metodo sono apparse nuove possibilità di capire il testo biblico nel suo senso originario. Come ogni realtà umana, questo metodo nasconde in sé, con le sue possibilità positive, alcuni pericoli. La ricerca del senso originario può portare a confinare la Parola esclusivamente nel passato, di modo che la sua portata presente non è più percepita. Il risultato può essere che soltanto la dimensione umana della Parola appaia reale; il vero autore, Dio, sfugge alle prese di un metodo che è stato elaborato in vista della comprensione di realtà umane. L’applicazione alla Bibbia di un metodo “profano” era necessariamente soggetta a discussione.
Tutto ciò che aiuta a conoscere meglio la verità e a disciplinare le proprie idee offre alla teologia un contributo valido. In questo senso, era giusto che il metodo storico-critico fosse accettato nel lavoro teologico. Però tutto ciò che restringe il nostro orizzonte e ci impedisce di portare lo sguardo e l’ascolto al di là di quanto è meramente umano, deve essere rigettato affinché un’apertura sia mantenuta. Perciò l’apparizione del metodo storico-critico ha subito suscitato un dibattito circa la sua utilità e la sua giusta configurazione, un dibattito che non è concluso finora in nessun modo.
In questo dibattito, il Magistero della Chiesa cattolica ha più volte preso posizione con importanti documenti. In primo luogo, il Papa Leone XIII ha fissato alcune direttive per l’orientamento dell’esegesi, nella sua enciclica Providentissimus Deus del 18 novembre 1893. In un tempo in cui si manifestava un liberalismo estremamente sicuro di sé e persino dommatico, Leone XIII esprimeva soprattutto diverse critiche, senza escludere pertanto l’aspetto positivo delle nuove possibilità. Cinquant’anni dopo, grazie al lavoro fecondo di grandi esegeti cattolici, il Papa Pio XII poteva dare maggior posto agli incoraggiamenti e invitare, nella sua enciclica Divino afflante Spiritu del 30 settembre 1943, a sfruttare i metodi moderni per la comprensione della Bibbia. La Costituzione del Concilio Vaticano II sulla Rivelazione divina, Dei Verbum, del 18 novembre 1965, riprende tutto questo, unisce le prospettive durature della teologia patristica e le nuove conoscenze metodologiche dei moderni e ci dà una sintesi, che rimane autorevole.
Nel frattempo, la gamma metodologica degli studi esegetici si è ampliata in un modo che non era prevedibile trent’anni fa. Nuovi metodi e nuovi approcci vengono proposti, dallo strutturalismo all’esegesi materialista, psicanalitica e liberazionista. Da un altro lato ugualmente, nuovi tentativi sono in corso; mirano a trarre profitto, di nuovo, dai metodi dell’esegesi patristica e a proporre nuove forme d’interpretazione spirituale della Scrittura. La Pontificia Commissione Biblica si è quindi presa il compito, cent’anni dopo la Providentissimus Deus e cinquant’anni dopo la Divino afflante Spiritu, di cercare di definire una posizione di esegesi cattolica nella situazione attuale. Nella nuova conformazione che le è stata data in seguito al Vaticano II, la Pontificia Commissione Biblica non è un organo del Magistero, bensì una commissione di esperti che, consapevoli della loro responsabilità scientifica ed ecclesiale in quanto esegeti cattolici, prendono posizione su problemi essenziali d’interpretazione della Scrittura e sanno di avere per questo la fiducia del Magistero. Così è stato elaborato il presente documento. Esso presenta una visione d’insieme, ben fondata, del panorama dei metodi attuali e offre, a chi lo chiede, un orientamento circa le possibilità e i limiti di queste vie. Su questo sfondo, il documento considera la questione del senso della Scrittura: in che modo è possibile riconoscere tale senso, in cui si compenetrano la parola umana e la parola divina, la singolarità dell’evento storico e la costante validità della parola eterna, contemporanea di ciascuna epoca. La parola biblica ha la sua origine in un passato che è reale, ma non soltanto in un passato, viene anche dall’eternità di Dio. Ci conduce nell’eternità di Dio, passando però attraverso il tempo, che comprende il passato, il presente e il futuro. Credo che il documento rechi veramente un prezioso aiuto per rischiarare la questione della giusta via verso la comprensione della Sacra Scrittura e apra nuove prospettive. Prosegue nella linea delle encicliche del 1893 e del 1943 e prolunga questa linea in maniera feconda.
Ai membri della Commissione Biblica vorrei esprimere la mia gratitudine per lo sforzo paziente e spesso arduo, con il quale a poco a poco è stato prodotto questo testo. Auguro al documento una larga diffusione, affinché contribuisca efficacemente alla ricerca di una più profonda appropriazione della Parola di Dio nella Sacra Scrittura.
Roma, nella festa dell’evangelista San Matteo 1993.
+ Joseph Card. Ratzinger
2/ Prefazione dell'Em.mo Card. Joseph Ratzinger al documento della Pontificia Commissione Biblica Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana (2001)
Riprendiamo dal sito della Santa Sede un testo dell’allora cardinal Joseph Ratzinger. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione La Bibbia; la Parola di Dio al Concilio Vaticano II nella sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2017)
Nella teologia dei Padri della Chiesa la questione dell'unità interiore dell'unica Bibbia della Chiesa composta di Antico e Nuovo Testamento era un tema centrale. Che questo non fosse certamente solo un problema teorico, lo si può percepire quasi con mano nell'itinerario spirituale di uno dei più grandi maestri della cristianità — Sant'Agostino d'Ippona. Agostino come diciannovenne nell'anno 373 aveva avuto una prima profonda esperienza di conversione. La lettura di un libro di Cicerone — l'opera andata perduta «Hortensius» — aveva operato in lui una profonda trasformazione, che egli stesso retrospettivamente così descrive: «Orientò verso di te, Signore, le mie preghiere... cominciai a rialzarmi per tornare a te... Come ardevo, mio Dio, come ardevo, dal desiderio di abbandonare le cose terrene e di levare il volo verso te» (Conf. III 4, 7-8). Per il giovane africano, che come fanciullo aveva ricevuto il sale, che lo rendeva catecumeno, era chiaro che la svolta verso Dio doveva essere una svolta verso Cristo, che senza Cristo egli non poteva trovare veramente Dio. Così egli passò da Cicerone alla Bibbia e sperimentò una terribile delusione: nelle difficili determinazioni giuridiche dell'Antico Testamento, nei suoi intricati e talvolta anche crudeli racconti egli non poteva riconoscere la sapienza, alla quale voleva aprirsi. Nella sua ricerca si imbatté così in persone, che annunciavano un nuovo cristianesimo spirituale — un cristianesimo, nel quale si disprezzava l'Antico Testamento come non spirituale e ripugnante; un cristianesimo, il cui Cristo non aveva bisogno della testimonianza dei profeti ebraici. Queste persone promettevano un cristianesimo della semplice e pura ragione, un cristianesimo nel quale Cristo era il grande illuminato, che conduceva gli uomini ad una vera autoconoscenza. Erano i manichei[1].
La grande promessa dei manichei si dimostrò ingannevole, ma il problema non era per questo risolto. Al cristianesimo della Chiesa cattolica Agostino poté convertirsi solo quando, per mezzo di Sant'Ambrogio, ebbe imparato a conoscere un'interpretazione dell'Antico Testamento, che rendeva trasparente nella direzione di Cristo la Bibbia di Israele e così rendeva visibile in essa la luce della sapienza ricercata. Così fu superato non solo lo scandalo esteriore della forma letteraria insoddisfacente della Bibbia «vetus latina», ma soprattutto lo scandalo interiore di un libro, che si manifestava ora più che come documento della storia della fede di un determinato popolo, con tutti i suoi disordini ed errori, come voce di una sapienza proveniente da Dio e che concerneva tutti. Una tale lettura della Bibbia di Israele, che riconosceva nelle sue vie storiche la trasparenza di Cristo e così la trasparenza del Logos, dell'eterna sapienza stessa, non fu fondamentale solo per la decisione di fede di Agostino: essa fu e rimane il fondamento della decisione di fede nella Chiesa nel suo insieme.
Ma è vera? È ancora oggi giustificabile e realizzabile? Dal punto di vista della esegesi storico-critica — almeno a prima vista — tutto sembra argomentare contro. Così si è espresso nel 1920 l'eminente teologo liberale Adolf von Harnack: «Rifiutare l'Antico Testamento nel secondo secolo (allude a Marcione) fu un errore, che la grande Chiesa giustamente ha respinto; conservarlo nel 16o secolo fu un destino, al quale la Riforma ancora non poté sottrarsi; conservarlo però ancora nel protestantesimo a partire dal 19° secolo, come documento canonico, dello stesso valore del Nuovo Testamento, è la conseguenza di una paralisi religiosa ed ecclesiale»[2].
Ha ragione Harnack? A prima vista molti elementi sembrano dargli ragione. Se l'esegesi di Ambrogio aprì la via verso la Chiesa per Agostino e divenne nel suo orientamento di fondo — anche se nei particolari naturalmente del tutto variabile — il fondamento della fede nella Parola di Dio della Bibbia bipartita ma pur sempre unitaria, si può subito così controbattere: Ambrogio aveva imparato questa esegesi nella scuola di Origene, che l'ha praticata per primo in modo coerente. Ma Origene — così si dice — in proposito avrebbe solo trasportato nella Bibbia metodi di interpretazione allegorica usati nel mondo greco per gli scritti religiosi dell'antichità — soprattutto Omero, quindi non solo avrebbe realizzato un'ellenizzazione profondamente estranea alla parola biblica, ma si sarebbe servito di un metodo, che in se stesso era privo di credibilità, poiché mirante in definitiva a conservare come sacrale ciò che in realtà rappresentava la testimonianza di una cultura non più attualizzabile. Ma le cose non sono così semplici. Origene ancor più che sull'esegesi di Omero da parte dei greci poteva fondarsi sull'esegesi dell'Antico Testamento, che era nata in ambito giudaico, soprattutto in Alessandria e con Filone come capofila, e che in un modo del tutto proprio cercava di dischiudere la Bibbia di Israele ai greci, i quali ben al di là degli dei cercavano l'unico Dio, che potevano trovare nella Bibbia. Egli inoltre ha imparato dai rabbini. Infine egli ha elaborato principi cristiani del tutto specifici: l'interiore unità della Bibbia come criterio di interpretazione, Cristo come punto di riferimento di tutte le vie dell'Antico Testamento[3].
Ma prescindendo dal giudizio che si voglia dare sui particolari dell'esegesi di Origene e di Ambrogio, il suo fondamento ultimo non era né l'allegoresi greca né Filone né i metodi rabbinici. Il suo vero fondamento — al di là dei particolari dell'interpretazione — era il Nuovo Testamento stesso. Gesù di Nazareth ha avanzato la pretesa di essere il vero erede dell'Antico Testamento — della «Scrittura» — e di darle l'interpretazione definitiva, interpretazione certamente non alla maniera degli scribi, ma per l'autorità dell'autore stesso: «Egli insegnava come uno che ha autorità (divina), non come gli scribi» (Mc 1,22). Il racconto dei discepoli di Emmaus riassume ancora una volta questa pretesa: «E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27). Gli autori del Nuovo Testamento hanno cercato di fondare questa pretesa nei particolari, soprattutto Matteo, ma non meno Paolo, il quale utilizzò in proposito i metodi di interpretazione rabbinici e cercò di mostrare che proprio questa forma di interpretazione sviluppata dagli scribi conduce a Cristo come chiave delle «Scritture». Per gli autori ed i fondatori del Nuovo Testamento l'Antico Testamento è anzi molto semplicemente la «Scrittura»; solo la Chiesa nascente poteva lentamente formare un canone neotestamentario, che ora allo stesso modo costituiva Sacra Scrittura, ma pur sempre in quanto presuppone come tale la Bibbia di Israele, la Bibbia degli Apostoli e dei loro discepoli, che soltanto ora riceve il nome di Antico Testamento, e le fornisce la chiave di interpretazione.
In questo senso i Padri della Chiesa con la loro interpretazione cristologica dell'Antico Testamento non hanno creato nulla di nuovo, ma solo sviluppato e sistematizzato, ciò che già trovavano nel Nuovo Testamento stesso. Questa sintesi fondamentale per la fede cristiana doveva però diventare problematica nel momento in cui la coscienza storica sviluppò criteri di interpretazione, a partire dai quali l'esegesi dei Padri doveva apparire come priva di fondamento storico e pertanto come oggettivamente insostenibile. Lutero, nel contesto dell'umanesimo e della sua nuova coscienza storica, soprattutto però nel contesto della sua dottrina della giustificazione, ha sviluppato una nuova formulazione del rapporto fra le due parti della Bibbia cristiana, che non si fonda più sull'armonia interiore di Antico e Nuovo Testamento, ma sulla sua antitesi sostanzialmente dialettica dal punto di vista storico-salvifico ed esistenziale di legge e vangelo. Bultmann ha espresso in modo moderno questo approccio di fondo con la formula, secondo cui l'Antico Testamento si sarebbe adempiuto in Cristo nel suo fallimento. Più radicale è la proposta sopra menzionata di Harnack, che — per quanto io possa vedere — praticamente non è stata ripresa da nessuno, ma era perfettamente logica a partire da un'esegesi, per la quale i testi del passato possono avere di volta in volta solo quel senso che volevano dar loro i rispettivi autori nel loro momento storico. Alla moderna coscienza storica però appare più che inverosimile che gli autori dei secoli prima di Cristo, che si esprimono nei libri dell'Antico Testamento, intendessero alludere anticipatamente a Cristo e alla fede del Nuovo Testamento. In questo senso con la vittoria dell'esegesi storico-critica l'interpretazione cristiana dell'Antico Testamento iniziata dal Nuovo Testamento stesso appariva finita.
Ciò, come abbiamo visto, non è una questione storica particolare, ma i fondamenti stessi del Cristianesimo sono qui in discussione. Così diviene anche chiaro perché nessuno ha voluto seguire la proposta di Harnack, di realizzare finalmente quel congedo dall'Antico Testamento intrapreso solo troppo presto da Marcione. Ciò che a quel punto resterebbe, il nostro Nuovo Testamento, non avrebbe senso in se stesso. Il documento della Pontificia Commissione Biblica che qui presentiamo dice in proposito: «Senza l'Antico Testamento, il Nuovo Testamento sarebbe un libro indecifrabile, una pianta privata delle sue radici e destinata a seccarsi» (n. 84).
A questo punto diventa visibile la complessità del compito, davanti al quale si trovò la Pontificia Commissione Biblica, quando si decise ad affrontare il tema del rapporto fra Antico e Nuovo Testamento. Se esiste una via di uscita dal vicolo cieco descritto da Harnack, deve essere ampliato ed approfondito, rispetto alla visione degli studiosi liberali, il concetto di un'interpretazione oggi sostenibile dei testi storici, soprattutto però del testo della Bibbia considerato come Parola di Dio. In questa direzione negli ultimi decenni è accaduto qualcosa di importante. La Pontificia Commissione Biblica ha presentato il contributo essenziale di questi studi nel suo Documento pubblicato nel 1993 «L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa». L'approfondimento della pluridimensionalità del discorso umano, che non è legato ad un unico punto storico, ma si protende verso il futuro, era un ausilio per comprendere meglio come la Parola di Dio può servirsi della parola umana, per dare un senso ad una storia che progredisce, che rimanda al di là del momento attuale e nondimeno proprio così crea l'unità dell'insieme. La Commissione Biblica riprendendo questo suo precedente documento e fondandosi su accurate riflessioni metodologiche ha approfondito i singoli grandi complessi tematici di entrambi i Testamenti nella loro relazione ed ha potuto in conclusione dire che l'ermeneutica cristiana dell'Antico Testamento, che senza dubbio è profondamente diversa da quella del giudaismo, «corrisponde tuttavia ad una potenzialità di senso effettivamente presente nei testi» (n. 64). È questo un risultato, che mi sembra essere di grande importanza per la continuazione del dialogo, ma soprattutto anche per i fondamenti della fede cristiana.
La Commissione Biblica tuttavia non poteva nel suo lavoro prescindere dal contesto del nostro presente, nel quale il dramma della Shoah ha collocato tutta la questione in un'altra luce. Due problemi principali si ponevano: possono i cristiani dopo tutto quello che è successo avanzare ancora tranquillamente la pretesa di essere gli eredi legittimi della Bibbia di Israele? Possono continuare con una interpretazione cristiana di questa Bibbia, o non dovrebbero piuttosto rispettosamente ed umilmente rinunciare ad una pretesa, che alla luce di ciò che avvenuto non può non apparire come presunzione? E qui si connette la seconda questione: Non ha forse contribuito la presentazione dei giudei e del popolo ebraico, nello stesso Nuovo Testamento, a creare una ostilità nei confronti di questo popolo, che ha favorito l'ideologia di coloro che volevano sopprimerlo?
La Commissione ha affrontato entrambe le questioni. È chiaro che un congedo dei cristiani dall'Antico Testamento non solo, come prima mostrato, avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo, ma non potrebbe neppure essere utile ad un rapporto positivo fra cristiani ed ebrei, perché sarebbe loro sottratto proprio il fondamento comune. Ciò che però deve conseguire dagli eventi accaduti è un rinnovato rispetto per l'interpretazione giudaica dell'Antico Testamento. Al riguardo il documento dice due cose. Innanzitutto afferma che la lettura giudaica della Bibbia «è una lettura possibile, che è in continuità con le sacre Scritture ebraiche dell'epoca del secondo tempio ed è analoga alla lettura cristiana, che si è sviluppata parallelamente a questa» (n. 22). A ciò aggiunge che i cristiani possono imparare molto dall'esegesi giudaica praticata per 2000 anni; a loro volta i cristiani sperano che gli ebrei possano trarre utilità dai progressi dell'esegesi cristiana (ibidem). Io penso che queste analisi saranno utili per il progresso del dialogo giudeo-cristiano, ma anche per la formazione interiore della coscienza cristiana.
Della questione della presentazione dei giudei nel Nuovo Testamento si occupa l'ultima parte del documento, nel quale vengono accuratamente esaminati i testi «antigiudaici». Qui vorrei solo sottolineare un'intuizione che per me appare particolarmente importante. Il documento mostra che i rimproveri rivolti nel Nuovo Testamento agli ebrei non sono più frequenti né più aspri delle accuse contro Israele nella legge e nei profeti, quindi all'interno dello stesso Antico Testamento (n. 87). Essi appartengono al linguaggio profetico dell'Antico Testamento e quindi devono essere interpretati come le parole dei profeti. Essi mettono in guardia da deviazioni presenti, ma per loro natura sono sempre temporanei e presuppongono quindi anche sempre nuove possibilità di salvezza.
Vorrei esprimere ai membri della Pontificia Commissione Biblica il mio ringraziamento e la mia riconoscenza per la loro fatica. Dalle loro discussioni condotte con pazienza per molti anni è uscito questo documento, che a mio parere può offrire un importante ausilio per una questione centrale della fede cristiana e per la così importante ricerca di una rinnovata comprensione fra cristiani ed ebrei.
Roma, Festa dell'Ascensione 2001
+ Joseph Card. Ratzinger
Note al testo
[1] Cf la presentazione di questa fase dell'itinerario spirituale di Agostino in P. Brown, Augustine of Hippo. A Biography, London 1967, 40-45.
[2] A. von Harnack, Marcion, 1920. Ristampa: Darmstadt 1985, p. XII e 217.
[3] Il passaggio decisivo nella valurazione dell'esegesi di Origene lo ha compiuto H. de Lubac con il suo libro: Histoire et Esprit. L'intelligence de l'Ecriture d'après Origène (Paris 1950). Successivamente vanno segnalati soprattutto i lavori di H. Crouzel (ad es. Origène 1985). Una buona panoramica dello stato della ricerca offre H.-J. Sieben nella sua introduzione ad Origenes. In Lucam homiliae (Freiburg 1991), 7-53. Una sintesi dei singoli lavori di H. de Lubac sul problema dell'interpretazione della Bibbia offre l'opera edita da J. Voderholzer: H. de Lubac, Typologie Allegorese Geistiger Sinn. Studien zur Geschichte der christlichen Schriftauslegung (Johannes Verlag, Freiburg 1999).