Shahad, Loubna e i morti sauditi di Istanbul. Sette delle trentanove vittime della strage di Capodanno erano saudite. E ben quattro erano donne. Ma il loro Paese è il primo a parlarne il meno possibile, di Giorgio Bernardelli
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Riprendiamo da Mondo e Missione del 3/1/2017 un testo di Giorgio Bernardelli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione del testo e delle foto se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Islam.
Il Centro culturale Gli scritti (5/1/2017)
Che cosa succede in ogni Paese quando un proprio connazionale rimane vittima di una strage da qualche parte nel mondo? I notiziari ricostruiscono le loro storie, si moltiplicano le attestazioni di vicinanza alle famiglie, il governo organizza un omaggio pubblico in occasione del rimpatrio delle salme. Ecco, basta scorrere in questi giorni i principali siti di informazione in lingua inglese dell’Arabia Saudita per accorgersi che non è esattamente quanto sta accadendo a Riyad all’indomani della strage di Capodanno a Istanbul. E questo nonostante ben 7 delle 39 vitttime del Reina fossero saudite.
Sui media ufficiali è palpabile la reticenza a parlare dei connazionali che si trovavano in un locale sul Bosforo a festeggiare il Capodanno occidentale. Mentre sui social network tra sauditi impazza la discussione se il Reina sia da considerare un empio nightclub o un semplice ristorante. A scanso di equivoci – intanto – re Salman, nel messaggio inviato a Erdogan all’indomani della strage, si guarda bene dal citare la presenza di sette sauditi tra le vittime.
Invece approfondire un po’ le loro storie sarebbe quanto mai utile. Innanzi tutto si scoprirebbe che ben quattro delle sette vittime erano donne. Tra loro – per esempio – c’era Shadad, la ragazza nella foto che accompagna quest’articolo. Una giovane avvocato di ventisei anni che nelle scarnissime notizie raccolte da al Arabiya tra i suoi amici sui social network ci viene descritta come “impegnata per i diritti degli oppressi”. Shadad con due sorelle maggiori che negli Stati Uniti e in Francia stanno conseguendo master e dottorati. E che pochi minuti prima di morire scriveva su Snapchat al fratello che “presto ci impegneremo in un nuovo inizio”.
Shadad. E insieme a lei – in quella notte maledetta di Istanbul – anche Loubna, anche lei giovane donna in carriera in una grande azienda di Jedda.
E poi i gemelli inseparabili Ahmed e Mohamed Fadhl, imprenditori, che nella fotografia scovata sui social indossano una polo all’ultima moda.
Istantanee di un’Arabia Saudita ben diversa da quella propugnata dai predicatori wahhabiti. Tendenzialmente nascosta come qualcosa di scandaloso in queste ore. Sono la generazione che svela le contraddizioni dell’Arabia Saudita. Ma anche quella che oggi, nel disastro che su ogni fronte Riyad sta vivendo, potrebbe finalmente aprire gli occhi. Che sia proprio per questo che questi sette morti in Arabia Saudita fanno così paura?