Fede e religione in Karl Barth: alle origini del dibattito teologico contemporaneo. Un’intervista a Pierangelo Sequeri ed un articolo di Italo Mancini
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«Karl Barth ha operato una distinzione nel cristianesimo tra religione e fede. Ha avuto torto a voler separare del tutto queste due realtà, considerando positivamente la fede e negativamente la religione. La fede senza la religione è irreale, essa implica la religione, e la fede cristiana deve, per sua natura, vivere come religione. Ma ha avuto ragione ad affermare che anche fra i cristiani la religione può corrompersi e trasformarsi in superstizione, ad affermare, cioè, che la religione concreta, in cui la fede viene vissuta, deve essere continuamente purificata a partire dalla verità che si manifesta nella fede e che, d'altra parte, nel dialogo fa nuovamente riconoscere il proprio mistero e la propria infinitezza» (da J. Ratzinger, Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pp. 72-73)
Riprendiamo sul nostro sito, per riflettere su di un tema la cui chiarificazione è essenziale ancora oggi, un’intervista di Giulio Brotti a Pierangelo Sequeri, apparsa su L’eco di Bergamo del 18 gennaio 2009 ed un articolo di Italo Mancini - scomparso nel 1993 - recentemente ripubblicato in Sulle orme di Paolo, vol. VII, pp. 85-93, San Paolo, supplemento a Jesus. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (10/3/2010)
Barth: è la religione il più grande progresso. Un’intervista di Giulio Brotti a Pierangelo Sequeri
Il contenuto della Bibbia non è costituito affatto dai giusti pensieri degli uomini su Dio, ma dai giusti pensieri di Dio sugli uomini. Nella Bibbia non si dice come noi dobbiamo parlare con Dio, ma che cosa egli dice a noi, non come noi troviamo la via per giungere a Lui, ma come Lui ha cercato e ha trovato la via per giungere a noi, non il modo giusto in cui dobbiamo riferirci a Lui, ma l’alleanza che Egli ha stretto con tutti i figli di Abramo nella fede, e sigillato definitivamente in Gesù Cristo. Questo c’è nella Bibbia.
da Karl Barth, «L’umanità di Dio», Torino, Claudiana, 1997 (1975), p. 99
Si tratta di annunciare e accogliere la parola originaria del cristianesimo: «risurrezione». Se la Chiesa ne parla correttamente, il suo atteggiamento è di umiltà spaventata di fronte alla rivelazione affidata al suo annuncio, quella rivelazione che, per quanto così antica e nota, è e resta nuova, superiore e inafferrabile come il primo giorno. E se il mondo ascolta correttamente questa parola, lo fa con la gioia della scoperta, oppure con la dura protesta che si addice proprio all’inaudito. Se questa parola entra in azione veramente, ciò comporta senz’altro per la Chiesa e per il mondo la necessità di ricominciare daccapo lo sforzo di comprendere la verità cristiana. Se è diventata moneta spicciola, che si dà e si riceve senza problemi, già scontata, un concetto plausibile, di cui dispone chi parla e chi ascolta come di grandezza nota, non può trattarsi d’altro che di un gioco, di un gioco falso, per quanta solennità e profondità gli si conferisca.
Karl Barth, «L’umanità di Dio», Torino, Claudiana, 1997 (1975)
Nel corso di una conferenza tenuta a Parigi, nel 1934, Karl Barth caratterizzava in questo modo il lavoro teologico: «Di tutte le scienze, la teologia è la più bella, quella che dà un maggiore slancio alla testa e al cuore; che più si approssima alla realtà umana, che dà lo sguardo più chiaro sulla verità, obiettivo di ogni scienza; che più si avvicina al venerabile e profondo senso del termine "facoltà"; un paesaggio dall’orizzonte apertissimo e purtuttavia chiaro, come quelli dell’Umbria o della Toscana; e un’opera d’arte, così architettata e singolare, come il duomo di Colonia o di Milano. Sarebbero poveri i teologi e i tempi teologici che ancora non avessero notato questo!».
«La Rivelazione, la Chiesa – proseguiva Barth – per essenza e intenti riguardano gli uomini; per questo ora, fiduciosi di poter generalizzare, diciamo anche della teologia: è una questione umana. E ci sono tempi che hanno un bisogno così impellente di teologia, da autorizzarci a dire: per quanto a molti non piaccia ammetterlo, la teologia è la questione umana».
È appena trascorso il 40° anniversario della morte del grande teologo protestante, avvenuta a Basilea, la città dove era nato nel 1886: abbiamo voluto ricordare in modo non ritualistico l’autore del commento a L’Epistola ai Romani (Feltrinelli, pp. 523, euro 13,50) e della monumentale Dogmatica ecclesiale (un’antologia di testi in traduzione italiana è stata pubblicata da EDB, pp. 400, euro 32,50) ponendo alcune domande a un autorevole collega cattolico di Barth, monsignor Pierangelo Sequeri, vicepreside della Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale e docente di Estetica teologica all’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano.
Professor Sequeri, lei ha pubblicato diversi studi sull’opera barthiana. Un suo saggio del 1984, ad esempio, aveva un titolo in forma di domanda: «Ritornare a Karl Barth?».
«Già precedentemente sui testi barthiani si era concentrata l’attenzione di diversi teologi cattolici: ricorderei gli studi di Hans Küng, di Hans Urs von Balthasar, di Henri Bouillard, di Italo Mancini. Come autore del Römerbrief (il commento alla Lettera ai Romani di Paolo, pubblicato in due edizioni tra il 1919 e il 1922), Barth era noto per il suo richiamo a una teologia "della fede" e "della Rivelazione", in opposizione alla "teologia liberale" prevalente in campo accademico, nel protestantesimo d’inizio secolo.
Contro una visione che riduceva il cristianesimo entro le categorie del sapere storico e scientifico, concependolo come la massima espressione del "genio religioso" dell’umanità, egli ribadiva che "il contenuto della Bibbia non è costituito affatto dai giusti pensieri degli uomini su Dio, ma dai giusti pensieri di Dio sugli uomini. Nella Bibbia non si dice come noi dobbiamo parlare con Dio, ma che cosa egli dice a noi, non come noi troviamo la via per giungere a Lui, ma come Lui ha cercato e ha trovato la via per giungere a noi". Questo aspetto della riflessione barthiana – la rivendicazione del primato della Grazia e dell’assoluta signoria di Dio rispetto a qualsiasi iniziativa dell’uomo – era ben conosciuto: nel mio saggio del 1984, semmai, io ho voluto mettere in discussione un certo cliché interpretativo, per cui nel discorso di Barth il divino e l’umano, l’annuncio cristiano e la "religione" (come fenomeno culturale, istituzionale), e ancora: la fede e la Chiesa nella sua visibilità storica, tenderebbero inevitabilmente a contrapporsi».
Non è così?
«A mio avviso, no: in tutto l’arco della riflessione barthiana (incluso il Römerbrief, la sua opera più provocatoria, esplicitamente orientata contro la "cristianità borghese") queste polarità sono pensate in una "tensione dialettica", per così dire, e non semplicemente contrapposte. Pur affermando che il cristianesimo non si riduce a una particolare religione o visione del mondo, Barth riconosce che "un progresso umano al di là della religione non esiste. Essa è l’ultimo progresso umano possibile, in quanto all’interno dell’umanità e al di fuori della divinità rinvia a quello che è al di fuori dell’umanità, a quello che è l’interno divino". Per indicare ciò che Barth propriamente afferma, su questo punto cruciale, ho coniato una formula un po’ particolare, "trascendenza di Dio in seconda battuta"».
Ci potrebbe chiarire il senso di questa espressione?
«La radicale libertà della Grazia, che sta a fondamento della fede e della Chiesa, rimane tale anche dopo il compimento del mistero dell’Incarnazione: Dio rimane libero anche "in seconda battuta", appunto, pur agendo nella storia umana. Il principio della Rivelazione divina non può mai essere ricondotto ad un automatismo, per cui l’istituzione ecclesiale o i singoli credenti, in base alla loro esperienza personale, sarebbero portati ad "impadronirsene".
Potremmo dire che, dal punto di vista di Barth, il fenomeno religioso è caratterizzato da un’ambivalenza: da un lato, è la manifestazione di una positiva tensione dell’uomo verso Dio, e precisamente mediante questo "varco" la Grazia di Cristo può entrare nel mondo; d’altra parte, la "coscienza devota" è sempre tentata dal pensiero di essere ormai detentrice della Parola di Dio a titolo definitivo. Su questo aspetto, paradossalmente, la tesi di Barth ha una consonanza con quanto aveva già affermato nel Cinquecento, originariamente in chiave antiluterana, il Concilio di Trento: in uno dei suoi canoni, il Concilio condannava come eretica la credenza per cui "l’uomo sarebbe assolto dai peccati e giustificato per il fatto che egli crede con certezza di essere assolto e giustificato"».
È perlomeno singolare questa convergenza tra il pensiero di uno dei maggiori esponenti del protestantesimo moderno e i canoni tridentini. Parafrasando il testo di Isaia, potremmo dire che Barth avverte i cristiani del rischio di immaginare che «i loro pensieri, le loro vie» coincidano tout court con «i pensieri e le vie di Dio»?
«Per tornare al binomio fede-religione, si potrebbe affermare che, secondo Barth, il cristianesimo è capace di "abitare" la religione, di chiarire e di vivificare un anelito alla "salvezza" comune a tutti gli uomini, in qualsiasi epoca. Tuttavia, la fede cristiana è anche chiamata a vigilare, persino a ingaggiare un corpo a corpo con la religione, quando quest’ultima tende ad "anteporsi" o a "sostituirsi" a Dio: quando si afferma che
il sabato conterebbe più dell’uomo, o che lapidando una donna adultera si onorerebbe la Legge. A mio parere, sottolineando questo rapporto dialettico (non di allineamento, né di brutale contrapposizione) tra la Parola divina e le parole umane, Barth ha davvero ricondotto la nostra attenzione su uno dei tratti centrali e peculiari del cristianesimo».
Riguardo a una possibile ricezione ecumenica del pensiero di Barth: non è notevole che, rimanendo fedele alla tradizione della Riforma, egli si sia sempre più interessato al cattolicesimo?
«Certo: questo è avvenuto anche grazie alla frequentazione e al confronto con l’amico von Balthasar e con il gesuita Erich Przywara».
Ecco, vorremmo qui ricordare che negli ultimi anni del suo insegnamento a Basilea Barth tenne delle lezioni sulle costituzioni del Concilio Vaticano II e che nel 1966, a Roma, fu ricevuto in udienza privata da Paolo VI; infine, in una conferenza del febbraio 1968, parlando della missione della Chiesa (che non esisterebbe «per se stessa, ma […] come popolo di Dio per il servizio di tutti i popoli, dell’umanità intera»), egli aggiungeva: «Dal punto di vista di questo mandato e del suo contenuto, essa è una Chiesa cattolica ed evangelica, o, ciò che è lo stesso, evangelica e cattolica».
«Credo davvero che i testi barthiani meriterebbero di essere ripresi in mano dai teologi delle diverse confessioni cristiane. Ne ricaverebbero spunti notevoli per ripensare le questioni della secolarizzazione, della laicità, della "forma pubblica" della fede, del rapporto tra il cristianesimo e le altre religioni; questioni che alcuni decenni fa si dibattevano in ambito accademico, mentre oggi interpellano tutti noi, in modo urgente. Direi di più: nel pensiero di Barth si può ritrovare anche una critica radicale – ma non puramente distruttiva – del modello di "razionalità profana" che si è affermato nell’epoca moderna. In effetti, nella cultura contemporanea si sta diffondendo la consapevolezza che l’ideale di una razionalità in sé conclusa, autosufficiente, è contraddittorio: ebbene, questa constatazione ha delle analogie con le considerazioni di Barth circa il carattere illusorio, "idolatrico" di qualsiasi progetto che miri a conseguire la salvezza dell’uomo affidandosi alle sue sole forze. Potremmo riassumere così questo monito barthiano: le cose più importanti per la nostra vita rimangono al di là della portata della "ragione calcolante"; e tuttavia, oltre questo limite non vi è semplicemente il vuoto, o il buio insondabile: vi è ancora logos».
Paolo oggi: il suo stile, la sua attualità, di Italo Mancini
Paolo ha parlato ai suoi contemporanei come un figlio del suo tempo. Ma assai più importante di questa verità é quest’altra, che egli parla, come profeta e apostolo del regno di Dio, a tutti gli uomini di tutti i tempi. Certo, non si devono trascurare le differenze tra il suo tempo e il nostro, tra il luogo dove scrisse e il nostro, con il fine però di riconoscere che queste differenze non hanno nessuna importanza essenziale. Il metodo storico-critico dell’indagine biblica ha la sua ragione d’essere: esso mira a una preparazione all’intelligenza del testo, che non é mai superflua. Ma se io dovessi scegliere fra questo e l’antica dottrina dell’ispirazione, io adotterei decisamente la seconda: la sua validità é più grande, più profonda, più importante, perché il compito che si propone è l’intelligenza stessa del testo, senza la quale ogni apparato tecnico rimane senza valore. Io sono lieto di non dover scegliere tra i due. Ma tutta la mia attenzione é stata rivolta a penetrare con lo sguardo attraverso l’aspetto storico, secondo lo spirito della Bibbia, che è lo Spirito eterno. Quello che ha avuto una volta una grave importanza la possiede ancora adesso [...]. I nostri problemi, quando li intendiamo bene, sono i problemi di Paolo, e le risposte di Paolo devono essere, se sappiamo discernere la loro luce, le nostre risposte.
(Karl Barth, Epistola ai Romani, introduzione alla prima edizione)
1515 e 1919: per due volte, a quattro secoli di distanza, un commento alla lettera di Paolo ai Romani ha prodotto una rivoluzione religiosa. Con il primo commento, di Martin Lutero, è nato il protestantesimo; con il secondo, del teologo Karl Barth di Basilea, è nata una rinnovazione teologica che non interessa soltanto il mondo protestante.
Karl Barth, con Lutero e con Friedrich D. Schleiermacher, è il più grande genio religioso della Germania moderna, e forse di tutti i tempi. La sua opera maggiore è la monumentale Dogmatica ecclesiale, a cui ha dedicato metà della sua vita; ma lo scritto più decisivo e sconvolgente - un vero capolavoro anche dal punto di vista della struttura filosofica - è il suo commento allo scritto paolino: si intitola in originale Römerbrief (Epistola ai Romani) e appartiene alla sua età giovanile.
Figlio e fratello di teologi, Karl Barth (1886-1968) si era formato all'università di Marburgo, divenendo un esponente di quella teologia detta "liberale" che "riduceva" l'essenza del cristianesimo alla interiore vita morale, con poca inclinazione per gli aspetti dogmatici ed ecclesiali.
Ma presto capì che questa teologia era insufficiente, sia per comprendere i gravi avvenimenti d'Europa (prima guerra mondiale, rivoluzione russa), sia per vivere in modo soddisfacente il pastorato che egli aveva assunto fin dal 1911 nella parrocchia di Safenwil, in Argovia; un paese di boscaioli e di lavoratrici in filanda, dove la questione sociale e sindacale era molto acuta. Il pastore Barth volle affiancare la sua gente: si fece socialdemocratico (ma non marxista), guidò le lotte sindacali e gli scioperi, ebbe urti violenti col padronato. Tutto questo era serio, ma non sufficiente: mancava lo specifico cristiano. Un annuncio solo politico, non religioso.
Più tardi, commentando la frase di Paolo: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rm 12,21), Barth dirà chiaramente che questo "bene" non è una nuova forma di stato, non è la ribellione politica né la lotta sindacale: è la forza di Dio, quell'"eterno Spirito" testimoniato da Paolo nella sua lettera. E per questo egli osò la famosa frase: qui c'è "qualcosa di più del leninismo".
E così, intorno al 1915, Barth si concentrò nel commento alla lettera paolina e quattro anni più tardi, nel 1919, pubblicò il suo primo Römerbrief. Credeva di aver messo le mani su questo "qualcosa di più"; come pastore, aveva un kerygma (annuncio) "totalmente altro" dalle normali possibilità dell'uomo; come dirà nel suo linguaggio paradossale, aveva l'umanamente impossibile, reso però possibile dalle compassiones Dei, dalla rivelazione di Dio pieno di misericordia.
E tuttavia questo primo lavoro non lo accontentò: la "infinita differenza" teologica non era ancora rigorosamente espressa, l'antropocentrismo non era ancora superato. Per esempio: si ammetteva che il regno di Dio "crescesse in modo organico" dentro la storia, quasi si potesse in qualche maniera identificarlo con la logica del progresso e della civiltà. E così veniva "resa vana" la croce e la grazia, contro la raccomandazione di Paolo: «È in esso (nel Vangelo) che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: il giusto vivrà mediante la fede" (1,17).
Come tutti gli spiriti religiosi, Barth voleva "Dio come Dio", surrealisticamente eccedente di fronte alle rappresentazioni umane, non già un Dio visto come "enfasi del mondo". Tutta la sua Dogmatica ecclesiale, poi, si snoderà sotto il segno di "Dio come Signore" e Barth non accetterà alcuna demitizzazione, alcuna amputazione, alcuna secolarizzazione della Scrittura. Tanto che Dietrich Bonhoeffer (che pur respira nel movimento promosso da Barth, impropriamente detto "teologia dialettica") gli rimprovererà tutto questo come "positivismo della rivelazione".
Solo a una cosa Barth si opporrà con tutte le forze e per tutta la vita: a quello che chiama "religionismo"; ossia a una instaurazione del mondo religioso imperniato su autonome pretese dell'uomo, come se ci fosse un diritto al sacro che non sfoci nella "famiglia religiosa" e nell'eros.
Nessun teologo più di Barth ha preteso come assoluto (alla lettera: sciolto, spezzato, trascendentissimo) il volto di Dio. E nessuno più di lui ha voluto autonoma (leggi: autofondativa) la teologia. È il rifiuto di ogni congiunzione culturale, antropologica, psicologica e finanche morale, per far emergere nella totale integrità l'"oggetto immenso". Per questo rifiuto, il grande teologo protestante Adolf von Harnach, in una celebre polemica degli Anni Venti, dirà che Barth è un "barbaro", preda di un delirio teologico che lo porta a fare man bassa delle opere e dei giorni dell'uomo.
Eppure Barth è un ingegno solare (quella di Mozart è la sua musica "teologica"). E allora? Il motivo sta qui: il tema della notte, e del giudizio di Dio che mette tutti in crisi, è successivo e respira dentro al tema del giorno e dell'amore. Perché c'è il sole di Dio - e solo per questo - i fiochi lampioni dell'uomo (che pur bastavano all'etica per massoni di Lessing) non servono più. Per questo la teologia di Barth non è teologia della crisi: semmai, pecca per affermatività.
Questo primo lavoro, abbiamo detto, non accontentò Karl Barth, il quale volle correggerne l'insufficiente impostazione e far valere queste idee alternative. Riscrisse perciò completamente il commento, pubblicandolo nel 1922. E a questo punto il lavoro rimane defìnitivamente scritto.
Peraltro, egli lascerà il mantello del profeta per la toga del docente universitario e con la Dogmatica ecclesiale riconquisterà l'altra faccia della luna: cioè, l'"umanità di Dio" nella figura di Gesù Cristo. Cosicché il suo orizzonte sarà dominato fino alla fine dalla nostalgia conseguente; i dualismi un poco astratti e violenti del segno teologico puro lasceranno spazio alle cose della vita ecclesiale ed ecumenica e ai bisogni anche etici dell'uomo.
Cogliere lo Spirito eterno attraverso le maglie del tempo
Il commento alla Lettera ai Romani si cimenta con il testo paolino versetto dopo versetto, parola dopo parola; raccoglie tutti i frammenti come su vasti pannelli che restano disegnati dai singoli capitoli. Il filo conduttore che ha guidato Karl Barth può riassumersi in questa espressione: Paolo non solo ha parlato, ma parla: fa un discorso attuale perché annuncia uno Spirito eterno che agisce in ogni momento; e dunque, lettore, se non ti lasci sequestrare da questo Spirito e non ti decidi per lui, non capirai questa lettera, il testo rimarrà sigillato più di sette volte.
Con le parole di Barth: Paolo «parla, come profeta e apostolo del regno di Dio, a tutti gli uomini di tutti i tempi»; «i nostri problemi, quando li intendiamo bene, sono i problemi di Paolo; e le risposte di Paolo devono essere, se sappiamo discernere la loro luce, le nostre risposte»; per questo, "il metodo storico-critico" non basta; basterebbe, se Paolo fosse solo colui che «ha parlato ai suoi contemporanei come un figlio del suo tempo»; per questo è necessario sorpassare, con la fede, la filologia, e cogliere, attraverso le maglie del tempo, "lo Spirito eterno" .
Non è facile descrivere lo "scheletro" teoretico che regge il commento di Barth. Ed è impossibile anche solo adombrare la ricchezza del linguaggio e dei motivi, delle negazioni e delle apostrofi che fanno di questo "scheletro" un organismo tanto vivo. Comunque ci sono un movimento e un'andatura globali ed esprimono la posizione autentica e quella inautentica, il movimento e il contromovimento dell'uomo di fronte a Dio.
Tutto il lavorio che copre la lettera, fino al capitolo 8 incluso, presenta il movimento dell'uomo nella fede; il resto, invece, rappresenta il contromovimento come ineludibile "distretta", quasi l'ombra che segue la luce.
Prima, però, di delineare questi due poli dell' interpretazione barthiana, di illustrare questi due cicli, sarà bene chiarire le linee tematiche: la "cosa", come egli la chiama, soprattutto pensando al versetto 17 del capitolo l, dove egli pone il tema della lettera, d'accordo con tutti gli esegeti: «È in esso (nel Vangelo) che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: il giusto vivrà mediante la fede».
Come si è già detto, le linee direttive di tutto il commento di Barth possono essere ridotte alla infinita differenza qualitativa tra Dio e l'uomo e alla tangenza invisibile dei due mondi nel Cristo; una tangenza inafferrabile, perché è come quella della tangente che tocca (non toccandolo!) il cerchio.
Commentando proprio il versetto 1,17, Barth osserva (e questo delinea il primo punto): «La fedeltà di Dio è in questo, che egli ci viene incontro e ci segue in modo così ineluttabile col suo "No" come totalmente Altro, come il Santo. E la fede dell' uomo è il timore reverenziale di chi acconsente a questo "No", la volontà del vuoto, l'appassionato permanere nella negazione». Ecco: Dio è Dio, l'uomo non è Dio, secondo la formula di Luigi Pareyson.
E per il secondo punto o tema si può leggere questo commento, che si riferisce alla prima volta in cui nella lettera compare il nome di Gesù Cristo: «In questo nome si toccano e si dividono due mondi, si tagliano due piani, uno sconosciuto e uno conosciuto. Quello conosciuto è il mondo della "carne", creato da Dio ma decaduto dalla sua originaria unità con Dio, e perciò bisognoso di salvezza: il mondo dell'uomo, del tempo e delle cose, il nostro mondo. Questo piano conosciuto viene tagliato da un altro sconosciuto, il mondo del Padre, il mondo della creazione originaria e della redenzione finale. Esso lo tocca come la tangente tocca il cerchio, senza toccarlo; e appunto in quanto non lo tocca, lo tocca come la sua limitazione, come mondo nuovo».
Si sottolinea e si enfatizza l"incognito di Dio" e così tutti i mondi della visibilità cristiana, storia sacra e Chiesa, entrano in suprema crisi nella loro identità visibile; per la storia sacra Barth parla di "crateri spenti", dove la gente siede in attesa che si riaccenda il fuoco, e per la Chiesa non resta che invocare Dio perché «parli dove si parla di lui».
Eccoci dunque ora al primo ciclo. Esso è scandito in tre momenti, solo in apparenza dialettici, perché la sintesi non è fatta per forza del movimento stesso, ma è prodotta dall'"a priori divino", la vera sovranità. Il primo ritmo riguarda i primi tre capitoli della lettera paolina, dominati dal giudizio di Dio e dal libero movimento del giudice.
Barth li individua come la notte, quella dove è esaltata la crisi. Una notte che non è vista per sé, ma per effetto della luce di Dio. La conclusione è grave: «Quello che nell'uomo e per mezzo dell' uomo ottiene essere, forma e estensione, è sempre, e dovunque come tale, empietà e insubordinazione».
Caratteristico è anche il comportamento del giudice, che sceglie gli empi e rifiuta i cosiddetti pii. «Una scandalosa, stupefacente, incredibile esemplificazione delle prospettive che appaiono quando Dio è inteso come giudice: uomini che non hanno rivelazione stanno davanti a Dio come coloro che hanno una rivelazione, i dormienti come coloro che vegliano, i non credenti come i credenti, gli ingiusti come i giusti». Contro il prometeismo della stessa santità, Barth si chiede: «Esistono vertici nella storia che non siano soltanto grandi ombre nel fluire della caducità, ombre più oscure di altre ombre?».
Il secondo ritmo è quello di Abramo, del capitolo 4 della lettera, dove, nonostante tutto, è accettata la fede, e si fa largo, anche per effetto del radicale “no” della notte, all'avvento di Dio. La fede è concepita da Barth come inizio ("radicale interruzione"); come creazione, tutta frutto dell'alto; come miracolo («Dio viene trovato direttamente muovendo dal mondo peccaminoso e sofferente, non da un'altura religiosa»). Non c'è preparazione e neppure esperienza della fede: la formula barthiana è: credo di credere, non già "so"; e tanto meno "sperimento" di credere.
Il terzo ritmo, che corrisponde ai capitoli 5-8 della lettera, fissa lo status del credente. E la formula è data da questa equazione inversamente proporzionale nei suoi termini: "io (non io!) sono". Io sono davvero credente nella misura in cui mi nego come tale nella mia identità essenziale o quotidiana.
Il credente sta pensoso e sofferente
Secondo ciclo. È quello inautentico, e riguarda la religione (che per Barth ha lo stesso valore della legge nel senso paolino); la morale (il cui valore non può andare oltre il produrre la "grande perturbazione". che inquieta e spinge oltre); la Chiesa. per cui vale la formula: "la Chiesa (non la Chiesa!) esiste", e tanto è più Chiesa quanto più nega la pur necessaria visibilità. Per queste distrette, il credente è un uomo tragico, sta pensoso e sofferente. Quella con Dio è una lotta, non un pacifico possesso.
A ridosso di tutto sta infatti, per Barth, la radice calvinista della doppia predestinazione. Non è questione di ascolto e di buona volontà: è questione soltanto del giudizio di Dio, che elegge e respinge con decreti imperscrutabili. «Egli, Dio, "paga" le opere degli uomini; egli è colui che determina il loro valore o disvalore mediante la stima che concede loro».