1/ Ricostruire la società? Ma la comunità è naturale, di Fabrice Hadjadj 2/ L'eleganza non è superflua (e la tuta è come un burkini), di Fabrice Hadjadj
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1/ Ricostruire la società? Ma la comunità è naturale, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 30/10/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (1/1/2017)
Sabato scorso, a Milano, ho tenuto una conferenza su un tema proposto dal “Laboratorio delle idee” del mio amico Francesco Migliarese. C'era il sindaco della città che ha fatto un'introduzione e se ne è andato prima che io cominciassi. Luciano Violante, con cui dovevo dibattere, non era presente a causa di una indisposizione. E dunque, mio malgrado, mi sono ritrovato da solo per parlare di individualismo.
Ecco gli appunti del mio discorso. Punto primo. Il titolo su cui riflettere appare pleonastico, e dunque come qualcosa di assolutamente non problematico. È evidente che l'individualismo porta alla disgregazione della società. Se ciascuno si comporta egoisticamente come individuo separato dagli altri, cercando solamente di sfruttare gli altri, la società si disgrega. Bisognerebbe allora richiamare all'altruismo e ridurre il discorso a una serie esortazioni morali: “Siate generosi! Imparate a condividere!”... Ora, appelli di questo genere sono ancora individualistici. Si fa appello alla buona volontà, ma attraverso questo volontarismo l'individuo si trova ancor più a essere il fondamento della costruzione sociale. Si può invocare la costruzione di una società più giusta quanto si vuole: tale costruttivismo presuppone che la società risulti da un contratto stipulato tra gli individui e non che scaturisca innanzitutto da un dato naturale.
Queste osservazioni conducono subito a due conclusioni. Primo, l'individualismo non deve essere confuso con l'egoismo, perché esso può essere altruista. Meglio ancora: l'altruismo è ancor più individualista dell'egoismo, potendo quest'ultimo apparire come una reazione a una precedente invadenza della società, mentre l'altruismo mi mette innanzitutto nella posizione di individuo che poi si volge verso l'altro se lo vuole.
Secondo, si può dedurre che la critica dell'individualismo si fa quasi sempre a partire da una rappresentazione individualistica, ignorando l'alterità e l'alterazione che ci precedono e ci costituiscono.
Punto secondo. Probabilmente l'individualismo non è la sorgente della disgregazione, ma, al contrario, il risultato di una costruzione sociale, o piuttosto di una comunità concepita esclusivamente come una costruzione.
Il senso che diamo oggi alla parola “società” viene del XVII secolo. Prima con questo termine si intendeva solo un'associazione tra due o più individui sulla base di un contratto. Sotto questo aspetto, la famiglia non è innanzitutto una società, ma una comunità naturale il cui fondamento si trova in una doppia relazione differenziale che non è contrattuale ma fisica: quella dell'uomo e della donna, e quella consecutiva e al tempo stesso precedente, dei genitori e dei figli.
È quando il fondamento della città non è più stato pensato a partire da una tale comunità naturale ma da un contratto stipulato tra individui, come in una società a scopo di lucro, che il termine società, nella sua accezione attuale, ha potuto imporsi.
È il progetto sociale di smantellare le comunità naturali arcaiche, al tempo stesso troppo drammatiche e troppo immobiliste, e di elaborare un mondo a più alto rendimento, più ideale, più aperto al progresso, che inventa l'individualismo come un “a priori conseguente”, o come una “isterologia”, termine al cui senso retorico di inversione dei termini logici si coniuga un'eco patologica (una specie collettiva di isteria, quella malattia che ha per causa, secondo Ippocrate, un certo rifiuto dell'utero, della nascita e del differenza generazionale).
Terzo: qual è questa società nuova? Quella del “paradigma tecno-economico”. Si fonda su alcuni postulati (ne declino sei) che sono quelli di un consumatore di fronte agli scaffali di un supermercato.
1) Ciascuno è fin dall'inizio un soggetto autonomo capace di scegliere. La libertà non è il frutto di un'educazione né di una responsabilità.
2) Questo soggetto opera le sue scelte per raggiungere un bene concepito come benessere individuale.
3) Tale bene si raggiunge non per via di saggezza o di prudenza, ma attraverso procedimenti tecnici.
4) La triplice tecnica di base per pervenire allo scopo è la messa in concorrenza degli individui, la mercificazione degli scambi e l'innovazione; questi tre fattori sono intimamente legati, poiché la concorrenza favorisce l'innovazione, l'innovazione stimola la concorrenza, ed entrambe implicano un'economia dove gli oggetti si acquistano col denaro che l'individuo guadagna vendendo se stesso.
5) Si suppone la rarità dei beni acquistabili: non ce ne saranno per tutti, e dunque la necessità della concorrenza e della crescita.
6) Questo suppone anche, come aveva capito Ivan Illich, una visione unisex. Affinché la concorrenza, l'innovazione e la mercificazione siano onnipotenti, bisogna ignorare la differenza uomo/donna e la divisione complementare, tradizionale o naturale dei compiti. Tutto deve diventare merce, compreso il fatto di avere figli, subappaltato oramai alle imprese di biotecnologia.
Quarto punto. Tutti questi postulati sociali sono finzioni che disgregano lo stesso individuo. All'origine, come mostra Olivier Rey, l'individualità era concepita come un termine, non come un punto di partenza. Termine di un'operazione logica per la quale si suddivide l'essere in generi, specie, fino a giungere all'individuo, indivisibile e ineffabile (perché impossibile da definire in generale). Ma termine soprattutto di un'avventura esistenziale: risultato di tutta una genealogia, ogni figlio è chiamato a un destino singolare alla fine del quale riceve il suo Nome.
È quanto raccontano i romanzi di cavalleria e l'Apocalisse di san Giovanni («Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo», 2,17). Non appena l'individualità viene presentata come un punto di partenza, l'individuo, strappato alle sue appartenenze naturali e storiche, diventa troppo debole per resistere alle sirene tecno-economiche che gli propongono la riuscita e il benessere attraverso il quantified-self, una vita dislocata in una serie di funzioni separabili e migliorabili, in una somma di parametri ottimizzati dall'algoritmo della felicità.
Günther Anders parlava, già nel 1956, di questa scomparsa dell'individuo a vantaggio del “dividuo”. Come uscirne? Non proponendo un'altra costruzione sociale, ma pensando la politica nella cornice di un'ecologia integrale, ripartendo cioè del dato delle comunità naturali: la famiglia (comunità umana), l'agricoltura (comunità dell'uomo con la natura), il culto (comunità dell'uomo con gli dei, perché senza una fiducia nel Creatore e Redentore come accogliere ciò che ci è donato con i suoi drammi?). Per quanto terribili siano i tempi, è la Provvidenza che ci ha messo qui, ed è qui, nel dato della nostra epoca, che abbiamo la nostra missione.
2/ L'eleganza non è superflua (e la tuta è come un burkini)
Riprendiamo da Avvenire del 20/11/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (1/1/2017)
Capita spesso che mia moglie, dopo avermi reso noto che la camicia che ho addosso non si accorda affatto con i miei pantaloni, mi chieda se l'abito che indossa le stia bene. Sto ancora cambiandomi la camicia, fidandomi interamente del suo gusto, ed ecco che lei improvvisamente si affida al mio, senza accorgersi della contraddizione.
Ma il mistero non finisce qui. Frequentemente le dico che la trovo bella e che ai miei occhi non ha bisogno di truccarsi né di prendere tanta cura della sua toeletta. Nonostante questo, lei continua a sistemare la sua parure e a esitare tra due paia di orecchini. Per chi dunque, se non per me? C'è forse una seduttrice che cova sotto la sposa fedele, figlia di Eva e dunque sempre, vagamente, lontanamente, instrumentum diaboli?
Può essere allora che non sia per altri uomini, ma per le sue consorelle? Un indizio ce lo danno le riviste femminili. Perché se le riviste maschili più tradizionali consegnano donne denudate alla brama dei nostri sguardi, anche le riviste femminili mostrano donne, e non uomini, e piuttosto vestite. Difficile allora non pensare a una rivalità selvaggia tra femmine che, pettinandosi delicatamente i capelli tendono invece a strapparli alle altre.
Il problema è che questo interesse per i vestiti non diminuisce quando la mia bella resta a casa tutto il giorno. Non dipende dallo sguardo delle altre donne. Dal suo allora? Certo, ogni volta che passa davanti a uno specchio lei si guarda con la coda dell'occhio. Narcisismo forse? E tuttavia, se lei mira se stessa, rare sono le volte in cui si ammira. È come se coltivasse la sua apparenza non per vanità (poiché la cultura corrente la spinge ad accusarsi di non essere all'altezza), ma per l'apparenza stessa quasi che questa fosse una divinità severa e capricciosa.
E qui un'altra accusa non manca di levarsi, quella di superficialità, di sottomissione alla moda, di universalizzazione dei diritti dell'uomo-sandwich, di interiorizzazione dell'imperativo borghese di essere presentabile conformemente ai valori attuali del mercato, e cioè di esibire, come un tabellone della Borsa valori, le marche che hanno un forte fatturato. E tuttavia, se questo abuso è frequente, non permette di spiegare il fenomeno, soprattutto «quando si conosce il tempo dedicato alla decorazione nelle società dette primitive». Qualche petto nudo non deve farci dimenticare le pitture, le piume, le pelli, le pietruzze cangianti e i peli multicolori con cui si adorna il corpo del sedicente selvaggio, ben più raffinato e fantasioso che l'elegante di oggi.
Bisogna dunque ammettere che questo fenomeno sia primordiale. Giudichiamo troppo rapidamente la civetteria come un vizio; essa contiene nella sua essenza qualche cosa di puro, di primario, che non deve essere giustificato, ma che al contrario illumina tutto il resto. Di fatto è in gioco l'apparizione del femminino e questa apparizione è senza dubbio l'apparizione cardinale, tanto dal punto di vista erotico (Venere) che da quello religioso (Maria), l'apparizione che fa passare Adamo dal dare il nome agli animali all'esclamazione di fronte all'altro sesso.
Ma qual è il senso profondo di questa apparizione? Jean-Paul Sartre lo chiama «malafede». Secondo lui l'esistenza umana, che non ha essenza, non ha natura, si realizza interamente nell'artificio, attraverso le costruzioni della libertà. La vanitosa lo dimostra in modo speciale: essa cerca di essere oggetto, mentre è un soggetto; si sforza di esprimersi in una determinazione visibile, mentre è una coscienza indeterminata. La sua «malafede» corrisponde al tentativo costante di porsi come una cosa ben definita, per fuggire davanti all'angoscia di essere niente, niente altro che ciò che facciamo delle nostre vite attraverso le nostre scelte.
È il suo strabismo isotopico che trascina Sartre a ricondurre tutto a un'angoscia originaria e a provare davanti alla forma dell'albero, come a quella della seduttrice, solo una nausea che si vorrebbe metafisica?
Henri Raynal è all'opposto di Sartre e ancor più che all'opposto: al di sotto e al di sopra, nello sguardo diretto e umile dello stupito che nel suo prosternarsi, nella sua stessa ingenuità, accoglie l'avvenimento del reale e si trova così elevato molto al si sopra di quegli che pratica la diffidenza.
Raynal prende in considerazione laddove Sartre si limita a squadrare e, credendo di mettere a nudo, cade solamente sul vuoto. Così che mentre Sartre si angoscia, Raynal non smette di giubilare. Certamente, la civetteria può avere a che fare con la soddisfazione di piacere al gallo, di rivaleggiare con successo con la pollastra, di diventare un feticcio del mercato del bestiame. Ma più fondamentalmente essa appartiene a quel movimento generale dell'essere verso la luce che corrisponde esattamente a ciò che gli Antichi designavano con il nome di physis, che non è innanzitutto un insieme di funzioni che lottano contro la morte, ma il potere di generare forme, species – parola latina che si riferisce alla varietà e alla bellezza.
Così, attraverso gli artifici del vestito, la donna è più naturale. Prolunga ciò che costituisce lo sviluppo stesso della natura nella sua vitalità: far sbocciare fiori diversi, dispiegare l'insieme dei rami di un albero riconoscibile tra tutti, mostrare la tigre, lo struzzo, la lontra, come altrettante apparizioni gratuite e necessarie, inutili e generose. Truccarsi, profumarsi, è voler fare mostra di sé, ma è anche rendere testimonianza alla creazione. La donna si avvolge del cosmo (è il vero senso di cosmesi) e ne prosegue la ramificazione verso nuove foglie e nuovi frutti.
Quella cosa per cui non abbiamo termine migliore di "civetteria" e per la quale Raynal forgia il neologismo apparure, attiene in verità a una modestia essenziale (pre-morale). Il narcisismo stesso della persona è lo strumento di un potere che la investe e che vuole mettere al mondo una nuova forma originale e vivente, più folle ancora dell'ornitorinco o della talpa dal muso stellato. Attraverso il taglio e le ondulazioni della veste si manifesta «una pratica artistica dove l'artificio prende vita», «un'opera (costruzione mobile, vibratile, fluida scultura, quadro astratto che respira, dove corre un'onda) che fa talmente corpo con il suo autore da diventarne l'aspetto».
L'elogio non va soltanto all'opulenza di stoffe, merletti e guardinfanti. Si pronuncia altrettanto bene in favore dell'abito semplice, della purezza monastica, purché si tratti ancora di un'apparizione viva. Il male non sta nella semplicità ma in un doppio schiacciamento: quello della cappa puritana e quello della veste hi-tech. «L'apparure che aggiunge la diversità delle incarnazioni di una stessa persona all'estrema diversificazione che è il proprio della nostra specie, l'apparure rischia di essere inghiottita sotto la proliferazione dei neo-vestiti derivati dalle tute sportive, fabbricati a milioni di esemplari per tutto il pianeta, facilmente standardizzati perché non intrattengono più nessuna relazione con l'architettura del corpo, se non quella funzionale, utilitaristica».
Così non c'è solo il burka per distruggere l'apparizione del femminino, c'è anche il jogging. E se il burkini è così tremendo, è perché li coniuga entrambi, operando la congiunzione del sacco islamico e del neo-vestito del tecnicismo laico.