Trasmettere la fede celebrandola in famiglia (2Tim 1,1-7), di Carlo Maria Martini
Riprendiamo da La Rivista del Clero Italiano, Anno LXXXVII, luglio-agosto 2006, n. 7/8, pp. 802-809, un articolo di Carlo Maria Martini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Educazione e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (11/12/2016)
Bambini e genitori ebrei dinanzi alle
capanne costruite per la festa di Sukkot
Pubblichiamo quasi integralmente il testo (non rivisto dall'Autore) della lectio divina che il card. Martini ha tenuto nel settembre scorso a Lodi per l'inaugurazione del piano pastorale triennale della diocesi, dedicato all'educazione alla fede[1]. A questo tema alludono i versetti iniziali della seconda lettera di Paolo a Timoteo qui analizzati. L'apostolo parla della fede ebraica ricevuta da Timoteo prima del battesimo, «concepita non astrattamente, ma a partire da esperienze concrete, dalle azioni messe in opera da Dio». Su questa fede è intervenuta, in continuità perfetta, la novità di Cristo, a cui Timoteo ha da rendere testimonianza con l'aiuto della forza di Dio. Ma come trasmettere la fede in un'epoca ad essa non propizia, come l'attuale? Il card. Martini propone a questo riguardo una suggestione molto pratica: i genitori facciano pregare i figli e celebrino con loro le feste liturgiche anche attraverso piccoli segni come regali, cibi particolari, ornamenti esteriori. Ciò consente ai bambini di entrare in modo graduale, simpatico e gioioso nell'atmosfera e nel mondo della fede, percepita con immediatezza nella sua relazione con la vita.
Un mondo di affetti intensi
Nel Nuovo Testamento la seconda lettera a Timoteo (2Tim)- insieme alla prima a Timoteo (1Tim), nonché a quelle inviate a Tito (Ti)e Filemone (Filem)- è una delle poche scritte a destinatari singoli e 'privati', dal momento che la maggioranza delle lettere paoline e delle restanti apostoliche sono per lo più indirizzate a comunità.
In questo pacchetto di lettere indirizzate a singoli destinatari, la 2Tim possiede l'originalità di essere certamente la più affettuosa e ricca di emozioni, la più intima e familiare. Traboccante di affetti profondi, merita d'essere letta proprio con tutta la profondità del nostro cuore.
Nell'intestazione (quella che di solito apponiamo sopra la busta, indicando chi scrive - cioè Paolo - e a chi si scrive - appunto a Timoteo -) Paolo si qualifica come «apostolo di Cristo», dotato quindi di un'autorità proveniente da Cristo stesso, «per volontà di Dio», quindi in obbedienza al disegno di salvezza di Dio sull'umanità. Il tutto nel nome del compito apostolico: «per annunziare la promessa della vita in Cristo Gesù». Scopo di Paolo apostolo è quindi di infondere speranza, conforto, gioia, apertura di cuore. Così, egli si rivolge a Timoteo chiamandolo «mio diletto» - cioè amato -, anzi: «mio diletto figlio», forse perché appunto suo figlio spirituale nel Battesimo, avendolo lui generato alla fede.
A Timoteo augura tre doni divini meravigliosi - «grazia, misericordia, e pace da parte di Dio Padre, e di Gesù Signore nostro» - doni che escludono ogni amarezza, timore, o sospetto, e ci immettono nella serenità, limpidezza, trasparenza del Padre e del Figlio.
Appena dopo l'intestazione consueta, la lettera esordisce con il solito ringraziamento dell'apostolo elevato a Dio per tutti i suoi benefici. Qui però il ringraziamento è molto breve: anzi, nemmeno ne viene espresso il motivo, sentendosi Paolo subito sollecitato a passare all'intensità delle memorie. Memoria anzitutto di sé, del proprio impegno al servizio di Dio: «Ringrazio Dio, che io servo con coscienza pura come i miei antenati». Colpisce qui che Paolo consideri la propria fede, il proprio apostolico servizio di Dio collocandolo nella identica linea di continuità dei suoi stessi antenati, cioè, evidentemente, in virtù della sua fede ebraica! Certo, c'è stato il fatto di Gesù, straordinario. Ma Gesù non ha rotto questa continuità, sicché anche in questa occasione Paolo è in perfetta comunione con i suoi antenati, così come già in At 23, là dove, a un certo momento, in mezzo a una concitatissima assemblea, rivolgendosi ai suoi fratelli ebrei, soprattutto farisei, esclama: «Fratelli, io sono un fariseo, figlio di farisei; sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti!» (At 23,6). Evidentemente Paolo non avverte nessuna sostanziale diversità rispetto alla loro fede, al contrario si riconosce in perfetta continuità, anche se è intervenuta la grande novità di Cristo (ma in continuità perfetta con ciò che credevano i suoi antenati).
Questo Paolo, che si sente in forte e lineare continuità con il proprio popolo, «si ricorda sempre di Timoteo nelle sue preghiere, notte e giorno» (2Tim 1,3). Permettetemi un'attualizzazione personale: anch'io a Gerusalemme prego notte e giorno per tutte le intenzioni di mia conoscenza, a Milano, in Lombardia, e del mondo intero, e posso quindi capire cosa voglia dire: «mi ricordo di te nelle preghiere». In particolare, tornano alla mente di Paolo le lacrime di Timoteo (1,4). Nella prospettiva di una lettera molto sensibile alla dimensione personale, probabilmente Paolo va rammentando qui il momento del loro congedo, quando cioè Timoteo dovette distaccarsi proprio da lui, suo maestro e padre nel vangelo. Aggiungendo subito: «sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia», si dimostra pieno di sentimenti e di affetto vivi (come quando scrive ai Filippesi e la prima ai Tessalonicesi). Sull'onda dei ricordi, Paolo ha poi ben presente la fede schietta di Timoteo, «fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te» (1,5). Anche qui, nessuna soluzione di continuità. Tra la mamma e la nonna di Timoteo da un lato e lo stesso Timoteo dall'altro, è intervenuto nientemeno che Gesù, morto e risorto. Ma nonna Lòide e mamma Eunìce credevano con quella medesima fede comunque giunta anche a Timoteo, e che a propria volta raggiunge la sua pienezza con la fede nella risurrezione di Gesù, in ogni caso fondata sulla stessa solidità su cui sta fondata la fede dei suoi antenati.
Una buona grammatica di fede: verbi, aggettivi, nomi e metafore di Dio
Proprio questa solida fede ebraica vorrei un poco approfondire, magari di nuovo interpellando direttamente a Timoteo, domandandogli: «Timoteo, qual era questa tua fede, qual era la fede della tua nonna, la fede di tua madre?».
E ho ragion di credere che egli potrebbe risponderci più o meno così: «È come la vostra, certamente. Forse con qualche diversa sfumatura, perché voi - direbbe Timoteo -, voi occidentali, partite sempre dall'alto delle definizioni concettuali. Dovendo parlare di Dio, cercate subito un nome altisonante e grandioso, come p. es. "motore immobile" (Aristotele parlava così), o "essere supremo", o "principio e fine di ogni cosa". Cercate cioè un nome con cui definire Dio. Invece, nella nostra fede di matrice ebraica, noi non abbiamo cercato anzitutto questo nome. Infatti la grammatica - per così dire - della nostra fede, partiva e parte piuttosto dai verbi che dai nomi, passa per gli aggettivi, e arriva ai nomi soltanto in conclusione, e sempre intendendoli come metafore. Non abbiamo mai tentato di dare un nome a questo essere misterioso che pure si è davvero definito "Sono Colui che sono!", ma restando quindi nell'ombra del mistero».
A questo figlio diletto di Paolo, torniamo allora a chiedere: «Spiegaci un po' questa grammatica della tua fede. Quali sono questi verbi attraverso i quali voi avete conosciuto Dio, non passando per una definizione astratta, ma attraverso la percezione di un agire concreto?». «Ebbene - risponderebbe ancora Timoteo -, se ne potrebbero menzionare molti di questi verbi. Ma io ve ne menziono solo qualcuno». Potremmo dire anzitutto: Dio crea il cielo, la terra, l'uomo, tutto ciò che abita nella terra, come dice il profeta: «Il Signore Dio crea i cieli e li dispiega, distende la terra con ciò che vi nasce, dà il respiro alle genti che la abitano e l'alito a quanti camminano su di essa» (Is 42,5). Ecco come è concreta questa descrizione! Inoltre, Dio è «Colui che fa promesse, per esempio ad Abramo: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore, io ti benedirò con ogni benedizione, renderò molto numerosa la tua discendenza come le stelle del cielo, e come la sabbia che è sul lido del mare» (Gen 22,16-17). Quindi, un Dio che promette. Ma anche un Dio che libera. Dice a Mosè: «Di' agli Israeliti, io vi libererò dalla loro schiavitù (degli Egiziani) e vi libererò con braccio teso e con grandi castighi» (Es 6,6). Dio libera, Dio riscatta, Dio salva. «Non temere» - dice - «perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome» (Is 43,1). Dio quindi libera, riscatta, salva, comanda: «osserva dunque ciò che io oggi ti comando. Queste sono le cose che il Signore ha comandato di fare» (Es 34,11;35,1).Si dice anche, in quella bella apertura della trasmissione radiofonica che io ascolto ogni mattina a Gerusalemme: SHEMÂ ISRA'EL, 'ADONAJ 'ELOHENU, 'ADONAJ 'EHAD: «Ascolta Israele: il Signore tuo Dio è uno solo! Amerai dunque il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore» (Dt 6,4 ss.),... Dio comanda, ordina.
Ancora qualche altro verbo per Dio che guida e che perdona: «Ricordatevi» - dice al popolo, dopo il cammino nel deserto - «ricordatevi di tutto il cammino per cui il Signore vi ha guidato in questi quarant'anni nel deserto» (Dt 6,2 ss.). «Pesano su di noi le nostre colpe» - confessa il Sl 64,4 - «ma tu perdoni i nostri peccati!». E poi ancora tantissimi altri verbi, che troviamo leggendo la Scrittura: Dio chiama Mosè dal roveto ardente; Dio sceglie il suo popolo per amore...Tutti questi verbi designano non tanto un essere misterioso, sconosciuto, al di là delle nubi, ma Qualcuno che si coinvolge con l'uomo, viene a toccare la nostra esistenza, si fa nostro partner - per così dire - e che ci coinvolge nel suo stesso coinvolgimento. Per questo la parola chiave spesso usata è patto (berit),cioè il rapporto liberamente instaurabile tra due soggetti, rapporto che deve essere fatto di lealtà, di fedeltà, di amore. Quindi è un Dio la cui indipendenza è chiara, ma è come presupposta. Ci importa soprattutto il fatto che in ogni caso egli opera per noi, ci è vicino. Fa - per così dire - il tifo per noi, si mette dalla nostra parte, ci sorregge, ci spinge, ci chiama, ci anima.
Ecco la fede ebraica, come l'aveva ricevuta Timoteo prima del battesimo: concepita non astrattamente, ma a partire da esperienze concrete, dalle azioni messe in opera da Dio, espresse attraverso tutti questi verbi.
Ma da questa molteplicità di suoi interventi espressi dai verbi, si ricavano poi gli aggettivi che servono a qualificare questo essere misterioso così vicino all'uomo. Ricordiamo tutti l'impressionante serie di aggettivi di Es 34,5-7, là dove Mosè, mentre Dio gli passa davanti (di spalle, tuttavia, perché faccia a faccia sarebbe un incontro insostenibile per chiunque: Es 33,18-23), lo sente gridare lui stesso il proprio nome: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira, ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione...!».
Ecco dunque anche degli aggettivi - ricavati dai verbi - capaci di qualificare questo Dio.
I verbi vengono dunque per primi, a indicare le azioni costanti di Dio. Per secondi, invece, intervengono gli aggettivi che tentano di caratterizzarne l'azione costante (p. es. Es 34,6-7). Solo in terzo luogo, ecco allora arrivare i nomi di Dio,non vere e proprie definizioni dell'essere supremo, ma più spesso semplici ed efficacissime metafore,distinte dagli esegeti in diverse categorie, quando - per esempio - parlano di metafore di governo piuttosto che di metafore di sostegno.Metafore di governo sono quelle che proclamano che Dio è giudice (Sal 7; 9; 75; 94; 96), re (Is 6; Dn 4; Sal 29; 96; 145), guerriero vittorioso (Es 15,1-18; Is 40,10; 52,10). Dio è padre (Dt 32,6; Is 63,10; 64,7; Ger 3,19-20; Mal 2,10; Sal 103,9-14), madre (Dt 32,18; Is 66,13). Metafore di sostegno: Dio è pastore (Is 40,10-11; Sal 23),artista (Gen 2,7-8; Is 45,9.11.18...), vignaiolo (Es 15,17; Is 5,1-7; Ger 2,21...), guaritore (Dt 32,39; Os 6,1). In ogni caso, tutte metafore[2].
«Ecco la nostra fede» - direbbe Timoteo -, «quella che ho ricevuto da mia mamma Eunìce e da mia nonna Lòide, la fede che fu ed è capace di accogliere Gesù, come la presenza di Dio che si fa vicino alla nostra storia!».
Trasmettere la fede celebrando la festa in famiglia
A questo punto legittimamente ci si può domandare: ma da questa visione del passato quali conclusioni derivano per la nostra trasmissione della fede, per la nostra catechesi?
Voglio riferirmi ancora qui all'esperienza del popolo ebraico, quella che quotidianamente vado facendo in Israele, dove per trasmettere la fede non ci sono catechismo, catechisti, e nemmeno ore di religione. Come viene allora trasmessa la fede? In famiglia, non attraverso delle definizioni astratte, fatte imparare a memoria, ma attraverso la celebrazione delle varie feste.Le feste sono il grande luogo di insegnamento della fede per il bambino ebraico. E le feste, per esempio in questi giorni si celebrava la festa bellissima del capodanno ebraico, Rosh-haschanah,che cade a settembre, appunto all'inizio dell'anno. Poi la festa autunnale di Sukkot,cioè dei Tabernacoli o delle Tende, legata al raccolto dei frutti della terra, quando, nel giardino di casa o sul piccolo terrazzo, o sul balconcino ogni famiglia, con qualche semplice stuoia o frasca, si costruisce una casetta dove per una settimana si reca a pregare e a mangiare certi cibi, per non dimenticarsi dei quarant'anni di cammino nel deserto, quando Israele, prima di vivere dei frutti della terra promessa, veniva sostentato gratuitamente tutti i giorni dalla mano provvida di Dio. Successivamente ecco lo Yom-Kippur,il giorno solennissimo dell'espiazione, liturgicamente parlando più importante, di digiuno totale. Poi la festa di Chanukkah,che celebra la rinnovazione del tempio. Poi ancora Purim,una parola che vuol dire «sorti», il carnevale ebraico, quando si festeggia il cambio delle sorti con cui gli ebrei, destinati a sterminio, furono salvati per coraggiosa intercessione di Ester presso il re Assuero. E infine la grande festa di Pesach,della Pasqua di liberazione del popolo dalla schiavitù di Egitto, che è solennissima come da noi, cui segue la festa della Pentecoste, della Simchat-Torah,cioè della «gioia-per-il-dono-della-Legge».
Va detto che ognuna di queste diverse feste è vissuta in famiglia con speciale intensità. Ognuna ha le sue preghiere proprie, che la mamma fa recitare a tutta la famiglia, a tutti i bambini. Per ognuna ci sono giochi, canti e colori propri. E quindi i bambini imparano così, celebrando nella vita, udendo raccontare la storia del popolo e di questo Dio misericordioso, vicino, fedele, presente, attraverso l'esperienza quotidiana.
Tornando a noi, certamente sono molto importanti il catechismo e la catechesi, e come vorrei che quest'ultima fosse promossa e attuata in maniera vigorosa! Ma dobbiamo anche ritornare a scommettere sulla trasmissione in famiglia. E anche qui, appunto, non pretendendo dai genitori di trasformarsi in piccoli teologi che insegnano delle formule a memoria - questo lo potranno quanti sono in grado di farlo - ma soprattutto perché i genitori facciano pregare i figli e celebrino con loro le feste liturgiche nel tempo e modo dovuto.
Abbiamo moltissime splendide occasioni: l'Avvento, il Natale, la Quaresima, la Pasqua, la Pentecoste, il mese di maggio, le feste della Madonna, le feste dei Santi, le feste del santo Patrono.
Se ogni famiglia, in qualche maniera saprà dare anche solo un segno per ognuna di queste feste - non solo nella preghiera, ma anche nel cibo, nei piccoli regali, anche in qualche ornamento esteriore –, allora ecco che il bambino avrà appreso senza bisogno di speciali artifizi di memoria, perché questa gli si fisserà indelebilmente nelle cose, nell'esperienza vissuta e quindi memorabile, consentendogli di entrare in modo graduale, simpatico, gioioso nell'atmosfera, nel mondo della fede. Ed è così che Paolo poteva appunto far conto sulla fede di Timoteo, e dirgli: «la fede che tu hai ricevuto dalla tua mamma e dalla tua nonna, e che ora è anche in te» (2Tim 1,5).
Questa grazia dunque chiediamo: che le nostre famiglie - anche quelle magari un po' più lontane - sappiano insegnare così la catechesi. È facile, perlomeno non così difficile, far pregare i bambini, incominciando appunto con qualche preghiera legata soprattutto alle feste, alle ricorrenze principali. E così, a poco a poco quel pensiero di Dio oggi tanto lontano dal nostro mondo occidentale, talora oltre tutto presentato così astratto, diventerà di nuovo concreto e vitale; e allora ci sarà quella gioia sentita di chi vive la fede profonda in Dio, in Gesù; di chi vive la gioia della Risurrezione del Signore, l'attesa del suo ritorno, la pienezza della grazia di Dio sparsa sull'umanità intera.
E vorrei quindi concludere come il brano della Lettera a Timoteo: «Ravviviamo il dono di Dio che è in noi per l'imposizione delle mani!» (cfr. 2Tim 1,6). Un appello questo valido certo per tutti i presbiteri, i diaconi, i vescovi; ma anche estensibile proprio alle famiglie, che vivono del sacramento del matrimonio, e a tutti quanti i credenti senza differenze in forza del sacramento del Battesimo e della Cresima.
«Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza». In tanti modi e non senza motivo, di questi giorni si va scrivendo di una certa paura e timidezza dell'Europa, quasi quella afasica di chi se ne sta così, a bocca aperta, senza parlare né sapersi pronunciare. Ebbene, poiché «Dio non ci ha dato questo spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza!» (1,7), proprio questo Spirito auguro e invoco per tutte le nostre realtà, perché sappiamo proclamare con fermezza, gioia e fede che il Signore è risorto e vive, ci ama, ed è in mezzo a noi.
Note al testo
[1] Giuseppe Merisi, vescovo di Lodi, Educare alla fede oggi: il coraggio di raccogliere la sfida.Piano pastorale diocesano 2006-2009, Sollicitudo Arti Grafiche, Lodi 2006.
[2] Per parlare di Dio con le metafore bibliche dominanti, come pure secondo la sequenza qui proposta (verbi-aggettivi-nomi), cfr. W. Brueggeman, Teologia dell'Antico Testamento. Testimonianza, dibattimento, perorazione (BB 27), Queriniana, Brescia 2002, pp. 198-418.