L’eclissi dei partiti cristiano-cattolici, di Ernesto Galli della Loggia
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Riprendiamo dal Corriere della sera del 2611/2016 un articolo di Ernesto Galli della Loggia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Carità e giustizia, politica ed economia.
Il Centro culturale Gli scritti (4/12/2016)
Quasi sempre, in politica, se c’è qualcuno che vince è soprattutto perché c’è qualcuno che perde. È ciò che sta accadendo in molti Paesi europei: il successo dei partiti cosiddetti populisti si deve in larga misura al vuoto che essi si sono trovati davanti. Cioè alla crisi profonda delle due principali culture politiche che dal 1945 sono state i bastioni dei sistemi politici del Vecchio Continente: quella socialdemocratica e quella cristiano-cattolica. I cui partiti, pure laddove riescono a mantenere più o meno le posizioni, come in Germania o in Spagna, appaiono incerti, con un insediamento sociale vacillante, senza capi di valore: insomma senza più nulla da dire. Come è stato possibile? Per la cultura politica socialdemocratica la spiegazione è abbastanza semplice. La presenza della classe operaia tradizionale e la conseguente forza dei sindacati è ormai dovunque un ricordo; da tempo, poi, la crisi fiscale dello Stato ha ridotto la disponibilità della spesa pubblica su cui per decenni si è fondato lo scambio keynesiano consenso politico contro Welfare; infine, il crescente rilievo nell’arena pubblica di temi «immateriali» a sfondo etico ha finito per schiacciare l’antica etica socialista su valori individualistico-libertari che l’hanno per più versi snaturata.
Sta bene. Ma perché vacilla, seppure non è già scomparsa, un po’ dovunque la cultura politica cristiana? Perché — per restare in Italia — sono politicamente scomparsi i cattolici, non si sente più parlare di alcun loro impegno in politica?
Credo che la ragione prima vada cercata nella crisi profonda che l’identità cristiano-cattolica ha conosciuto nel suo rapporto con la storia, con la propria storia. Qui ha fatto sentire il suo effetto una lunga serie di rivisitazioni del passato (dalle Crociate alla conquista delle Americhe, al colonialismo, all’antisemitismo) — negli ultimi decenni di vastissima diffusione mediatica e scolastica fino a diventare un vero e proprio senso comune — volte a mettere sotto accusa l’etnocentrismo sopraffattore, la peculiare distruttività e disumanità che avrebbe caratterizzato il ruolo dell’Occidente euro-americano nei secoli: al proprio interno e ancor di più al proprio esterno. Tutto ciò ha proiettato un’ombra inquietante sulla dimensione storica della civiltà cristiana, del farsi storico del Cristianesimo, per tanta parte cuore e tratto decisivo della vicenda europea-occidentale. D’altro canto, la lunga serie di richieste di «perdono» indirizzate ai più vari destinatari da Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo del 2000 — non riequilibrata dalla rivendicazione di nessuno dei meriti che la civiltà cristiana può del tutto legittimamente rivendicare (penso, per dirne usa sola, all’eguaglianza uomo-donna) — è sembrata, non a torto, convalidare questa visione colpevolizzante del ruolo della presenza cristiana nel mondo. Visione colpevolizzante a cui bisogna dire che l’intellettualità cattolica, ancora più di quella laico-liberale, non ha saputo opporre nulla, pietrificata dal timore di non apparire sufficientemente in armonia con i tempi e forse anche di dispiacere a chi più contava nella gerarchie romane.
Già di per sé tradizionalmente negletta nella formazione del clero e delegittimata nel modo che si è detto, la dimensione storica ha perduto ogni capacità attrattiva, non è più apparsa il terreno congruo per l’estrinsecazione del «religioso». Il che nel sentire comune di moltissimi cattolici si è inevitabilmente accompagnato non solo a una ovvia, conseguente delegittimazione della politica, ma a qualcosa di più. Alla perdita d’interesse per un orizzonte cristiano, se posso dir così, capace di misurarsi con l’intera complessità del reale, e quindi per quell’intervento a tutto campo nel mondo che è proprio della politica. È così accaduto che proseguendo sulla strada iniziata con le chiese protestanti europee, il Cristianesimo-Cattolicesimo si sia ritirato dalla Grande Storia. Dalla Storia che ragiona per grandi aggregati visti secondo le logiche e i meccanismi del potere, sia pure guardandosi dall’identificarsi con esso. Sempre più forti, invece, sono risuonate le straordinarie parole dell’annuncio, «Il mio regno non è di questa Terra»: e piuttosto che l’azione storico-politica ha occupato spazi sempre più grandi una religiosità, e nel caso della Chiesa cattolica una pastorale, orientate prevalentemente all’azione caritativa da un lato e al rinnovamento etico-spirituale dall’altro.
A determinare l’abbandono della scena storico-politica in senso proprio contribuiscono non poco, infine, anche due grandi fenomeni culturali dell’epoca. Il primo di questi è la secolarizzazione. Come non pensare infatti che a suo modo l’abbandono di cui sopra sia per l’appunto l’effetto del comando perentorio rivolto alla religione dallo spirito del tempo perché essa si ritiri dalla sfera pubblica? Da quella sfera pubblica per eccellenza che è la politica? Come non sospettare che così il Cristianesimo non faccia altro alla fine che adeguarsi a ciò che si pretende da lui? Il secondo fenomeno è quello rappresentato dall’ideologia dei cosiddetti diritti umani, oggi fatta entusiasticamente propria dall’intero universo cristiano-cattolico, elevata a direttrice basilare per muoversi nel mondo, ravvisandosi in essa (non del tutto a torto) e nelle relative istituzioni una derivazione evidente della visione cristiana stessa. Sicché quell’universo religioso vi si aggrappa dovunque e comunque, ne fa la propria bandiera, il surrogato virtualmente buono a tutti gli usi e perciò adoperatissimo al fine di coprire l’assenza di un qualche più complesso impegno in politica. Sembrando ignorare, però, che nella versione corrente quella bandiera è in realtà anche l’ambigua bandiera — almeno ai cristiani dovrebbe apparire tale — pure del diritto al libero aborto, o alla scelta del proprio sesso, o alla «genitorialità» per tutti.
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