1/ L’altro D’Azeglio: gesuita contro l’Unità, di Filippo Rizzi 2/ Ma l'altro Pellico era gesuita, di Filippo Rizzi 3/ L'«altro» Ricasoli: padre Luigi, un gesuita del dialogo nel Risorgimento. Cugino del primo ministro Bettino, all'alba dell'Unità d'Italia, mediò gli attacchi laicisti alla Compagnia, di Filippo Rizzi
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1/ L’altro D’Azeglio: gesuita contro l’Unità, di Filippo Rizzi
Riprendiamo da Avvenire del 21/9/2012 un articolo di Filippo Rizzi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2016)
Condannato all’oblio per le sue posizioni anti-risorgimentali e rimosso per molti anni dalla storiografia ufficiale per aver difeso a oltranza il magistero di Pio IX (prima e dopo l’Unità d’Italia), ma soprattutto per essere stato il principale «martello delle concezioni liberali» – secondo una felice definizione di Antonio Messineo. È la storia ma anche l’avventura umana, controversa e avvincente, del gesuita Luigi (al secolo Prospero) Taparelli D’Azeglio (1793-1862), direttore e co-fondatore assieme a Carlo Maria Curci de La Civiltà Cattolica; un cognome ingombrante nella storia del Risorgimento e della nobiltà piemontese, perché sarà l’unico dei D’Azeglio (i fratelli Massimo e Roberto saranno senatori del Regno d’Italia) a contrapporsi con vivaci dibattiti pubblici, libelli, saggi alla causa nazionale e a simpatizzare solo per un breve periodo della sua vita per il movimento neoguelfo teorizzato da Vincenzo Gioberti.
Ora, a 150 anni dalla morte – che ricorrono esattamente oggi – questo gesuita figlio del suo tempo, imbevuto delle letture di Joseph De Maistre, profondo assertore dell’assolutismo cattolico e dell’Ancien Regime, rimane vivo per l’attualità del pensiero di filosofo, giurista e polemista agguerrito («la penna più acuta della Civiltà Cattolica») e anche per le idee realizzate. A lui si deve per esempio il ritorno nelle università ecclesiastiche dello studio del tomismo e della scolastica (per anni sarà rettore del prestigioso Collegio Romano, la futura Gregoriana); sempre a lui si deve nel 1843 la pubblicazione di un testo fondamentale, il Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto, che farà epoca nel suo tempo e verrà ancora additato da papa Pio XI come libro da comodino, quasi di culto, raccomandato dal Pontefice brianzolo ai giovani universitari assieme alle opere di Manzoni e di san Tommaso d’Aquino.
Non è forse un caso che, secondo molti studiosi, l’insegnamento di padre Taparelli D’Azeglio come i suoi saggi filosofici abbiano influenzato, anni dopo, la stesura delle encicliche Aeterni Patris e Rerum novarum di Leone XIII; il termine di «giustizia sociale» fu infatti coniato per primo dall’austero gesuita torinese, che per la modernità del suo pensiero nel campo del diritto è stato considerato pure, sul finire degli anni Venti, un «precursore della Società delle Nazioni». Senza omettere di accennare a una sua invenzione (brevettata nel 1854 e sostenuta economicamente dal fratello, il futuro statista piemontese Massimo D’Azeglio) nel campo musicale: il violincembalo, uno strumento che – strano a immaginarsi – riscosse le lodi del grande Franz Liszt.
Sarà però la questione del Risorgimento a dividere in fazioni avverse e a incendiare gli animi e a rappresentare – come ha ben scritto lo storico gesuita Pietro Pirri – una «causa di famiglia»: sacerdoti della "reazionaria" Compagnia di Gesù, negli stessi anni di D’Azeglio, erano – solo per citare i casi più famosi – Francesco Pellico (fratello di Silvio), Giuseppe Bixio (fratello di Nino) e Luigi Ricasoli (cugino di Bettino)... Le battaglie polemiche di Taparelli si diressero prima dei fatidici moti del 1848 a duri confronti sul tema spinoso del liberalismo, della questione nazionale ma anche della religione con grandi personalità del suo tempo: Antonio Rosmini, il cugino Cesare Balbo e non da ultimo il grande Vincenzo Gioberti; la polemica più dura e accesa sarà quella combattuta con quest’ultimo, autore tra l’altro di un libro molto critico verso l’amato Ordine e il suo reale potere in Italia: Il Gesuita moderno.
A padre Taparelli, comunque, non mancherà mai la stima e l’onore delle armi del grande filosofo e abate piemontese, che lo definirà «una delle menti più acute d’Italia». Ma è soprattutto con la sua famiglia di origine che padre Luigi ebbe e in un certo senso coltivò gli scontri più duri (sia in forma pubblica che privata), seguiti a volte da fraterne riappacificazioni, in particolare con i fratelli Massimo e Roberto; la loro affettuosa unione non verrà mai meno, come dimostrano ancora oggi le belle pagine che Massimo dedica al suo «gesuita» nei Miei ricordi e i loro carteggi.
A scatenare la prima frizione in famiglia sarà nel 1846 la dura condanna da parte di Luigi di un opuscolo a firma di Massimo, Gli ultimi casi di Romagna, inneggiante all’insurrezione contro il potere costituito; ma ad accentuare le differenze di vedute politiche nei fratelli D’Azeglio verrà, l’anno dopo, la pubblicazione da parte del gesuita dello scritto «Nazionalità», letto e interpretato come un atto di compiacenza e di legittimazione alla presenza straniera dell’Austria sul suolo della Penisola.
Amaro sarà il commento di Massimo: «Il padre Taparelli me l’ha fatta grossa». Nello stesso anno 1847, i due fratelli Massimo e Luigi si incontreranno a Roma e il futuro statista piemontese tenterà invano di avvicinare alla causa nazionale il religioso, introducendolo nei circoli risorgimentali capitolini, allora animati dal bolognese Marco Minghetti.
Strano ad immaginarsi, ma saranno invece i moti del 1848 ad avvicinare i tre fratelli D’Azeglio lungo una comune direttrice: padre Luigi si troverà assieme ai confratelli gesuiti nel gennaio di quell’anno a Palermo a soccorrere e solidarizzare con gli insorti contro il potere borbonico. Un entusiasmo che contagerà – anche se per pochi giorni – l’animo dell’austero figlio di sant’Ignazio: «Il Comitato ci ha dimostrato gratitudine, e per la strada molta gente grida "Viva i Gesuiti". È la prima volta, io credo, che una rivoluzione comincia con questo grido…».
Ma la fondazione, per volere di Pio IX, a Napoli e poi a Roma della rivista della Compagnia La Civiltà Cattolica segnerà il vero spartiacque tra i fratelli D’Azeglio. Dalle colonne del prestigioso quindicinale, di cui era diventato direttore, Taparelli si scaglierà contro gli eccessi del liberalismo e non esiterà a condannare pubblicamente il fratello Massimo, allora presidente del Consiglio del Regno di Sardegna, per aver sostenuto nel 1850 la promulgazione delle leggi Siccardi che abolivano il foro ecclesiastico e procuravano la confisca dei beni ecclesiastici.
Sono gli ultimi anni di vita di Taparelli D’Azeglio, ormai cieco, spesi per difendere il papa Pio IX e a stigmatizzare le politiche anti-ecclesiastiche del Piemonte del conte di Cavour. A 150 anni dalla sua morte viene spontaneo domandarsi se questo raffinato gesuita fu, a detta di molti storici come Pietro Pirri e Marcello Craveri, «un vinto del Risorgimento», un «monumento anacronistico del suo tempo» o forse – come ha scritto Gabriele De Rosa – un uomo che «accetta di umiliarsi» per «spirito di ubbidienza».
La risposta si può ricavare forse ancora oggi nelle belle e intense parole di Massimo alla notizia della morte del caro fratello, avvenuta a Roma il 21 settembre 1862: «Sono molto triste; perché, quantunque gesuita lui e tutto l’opposto io, nonostante ebbimo sempre l’uno per l’altro grande simpatia fin da bambini: e da grandi ci siamo voluti bene, mentre pure ognuno combatteva nel proprio partito, e faceva al partito contrario il peggio che poteva… Povero frate! Certo che la sua vita non fu se non il continuo sagrifizio di sé stesso a ciò che egli credeva la verità e il dovere».
2/ Ma l'altro Pellico era gesuita, di Filippo Rizzi
Riprendiamo da Avvenire del 29/4/2014 un articolo di Filippo Rizzi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2016)
La Civiltà Cattolica
Gesuita anti-risorgimentale, cappellano di corte del re di Sardegna Carlo Alberto, strenuo difensore dei diritti della Chiesa ma anche – come era definito amabilmente tra le mura domestiche dal fratello Silvio – «il teologo»... È la storia di Francesco Pellico (1802-1884), fratello minore dello scrittore, poeta e patriota italiano Silvio, l’autore delle immortali Le mie prigioni.
E di questo originale figlio di sant’Ignazio (di cui ricorrono oggi i 130 anni dalla morte) rimangono ancora vivi, seppur impolverati dal tempo e dall’inevitabile oblio, l’eredità, l’apostolato e lo zelo. Lo testimonia l’imponente biografia, pubblicata nel 1933 dal gesuita Ilario Rinieri, in cui emerge la figura di un sacerdote dai tratti eccezionali che si trovò a difendere i diritti della Chiesa, a sopportare l’espulsione del suo Ordine dall’amato Piemonte durante i moti del 1848, ad essere il bersaglio di feroci polemiche anticlericali ma anche a coltivare sempre un rapporto di amicizia, affetto e pietà cristiana mai venuto meno con il suo più noto fratello Silvio, il «prigioniero dello Spielberg».
Nell’Italia pre-unitaria la vicenda dei fratelli Pellico, come ha ben sottolineato lo storico Pietro Pirri, non fu l’unico caso in cui il fattore «Risorgimento » rappresentò una vera e propria «causa di famiglia»: gesuiti, negli stessi anni, erano Luigi Taparelli D’Azeglio (fratello dello statista Massimo), Giuseppe Bixio (fratello del generale garibaldino Nino) e Luigi Ricasoli (cugino del leggendario «barone di ferro» Bettino). Di 13 anni più giovane di Silvio, il futuro gesuita nacque a Torino il 2 febbraio 1802 e gli fu imposto dalla madre Margherita il nome di Francesco in onore del santo vescovo di Ginevra (Francesco di Sales); il ragazzo ebbe i primi rudimenti dell’istruzione proprio dal fratello maggiore («Francesco era scolaro di Silvio», si legge nelle memorie della sorella Giuseppina) e giovanissimo entrò nel seminario di Torino per diventare prima sacerdote secolare (1823) e poi gesuita (1834).
Strano a pensarsi però – nonostante le iniziali titubanze – Silvio Pellico (che era peraltro terziario francescano) sosterrà per tutta la vita il fratello nella scelta, in un certo senso «controcorrente », di farsi gesuita.
Ma è nella metà degli anni Quaranta dell’Ottocento che il nome di padre Pellico comincerà a imporsi sulla scena pubblica: prima come assistente dell’allora provinciale dei gesuiti piemontesi, il futuro e focoso polemista de La Civiltà Cattolica Antonio Bresciani, e poi nel 1845 quando diventerà uno dei principali bersagli (assieme al confratello Carlo Maria Curci) dei libelli (Il primato , I prolegomeni e soprattutto Il gesuita moderno) dell’abate Vincenzo Gioberti contro la Compagnia di Gesù.
Toccherà infatti al giovane gesuita rispondere al suo antico compagno di studi in teologia all’università di Torino, alle accuse contro il suo ordine di essere il primo nemico della “modernità” e del “liberalismo” con il famoso scritto A Vincenzo Gioberti Francesco Pellico d.C.d.G. Un testo che troverà il plauso pubblico del grande teologo piemontese Luigi Guala, del fratello Silvio e del re Carlo Alberto. (Nel 1852, alla morte di Gioberti, avvenuta senza sacramenti e condannato dalla Chiesa, padre Francesco pregherà per la salvezza e in suffragio del suo «antico nemico»).
Il vero annus horribilis per padre Pellico sarà comunque il 1848: da provinciale dei gesuiti piemontesi dovrà subire l’espulsione dell’ordine dal Regno di Sardegna, la consegna di tutti i beni appartenuti alla Compagnia (tra cui la gloriosa chiesa dei Santi Martiri) allo Stato sabaudo e la conseguente dispersione dei suoi confratelli; pur ridotto a vivere in clandestinità a Torino, come annota il biografo Rinieri, padre Francesco si adopererà per evitare, quasi in modo eroico, la «secolarizzazione» e l’uscita di tanti gesuiti dall’ordine e condannare, in una seppur inascoltata lettera di protesta indirizzata al Parlamento di Torino, i torti subiti dalla Compagnia e i «diritti violati» della Chiesa.
Con la fondazione nel 1850 a Napoli de La Civiltà Cattolica padre Pellico, nella sua veste di assistente dell’allora generale della Compagnia Roothaann e di censore, offrirà alla neonata pubblicazione due importanti suggerimenti: quello di rimanere «sempre una rivista popolare» e di stare soprattutto «attenti solo sulle cose del Papa».
Sempre in questi anni e fino alla scomparsa di Silvio, avvenuta a Torino il 31 gennaio 1854, il gesuita Pellico, seppur dalla lontana Lione, intratterrà un rapporto di grande intimità ed affetto con l’autore de Le mie prigioni e di Francesca da Rimini, offrendogli attraverso lettere e preghiere un sostegno spirituale (come il suggerimento della recita del «Rosario Vivente» per guadagnarsi qualche «indulgenza » per la vita eterna); il tramite provvidenziale di questo rapporto speciale sarà, per i due fratelli, la sorella Giuseppina.
Dal 1854 padre Francesco diventerà, in un certo senso, il custode della memoria dell’illustre parente (tra cui un carteggio con Ugo Foscolo, ritenuto dal gesuita «poco religioso e poco cattolico» per il tenore degli argomenti trattati); sempre a lui verranno consegnati il crocefisso, i breviari e la Bibbia usati da Silvio, nel corso della sua vita, con il famoso motto del poeta: Sursum corda.
Come ultimo sopravvissuto dei fratelli Pellico, molti anni dopo, l’anziano gesuita renderà omaggio (recitando il De Profundis seguito dalle laconiche parole «Preghiamo per l’anima sua») a Saluzzo (paese natale di Silvio) alla statua eretta dall’amministrazione comunale in onore dello scrittore e patriota del Risorgimento.
Sempre padre Francesco si impegnerà poi con il collegio degli scrittori della rivista che i manoscritti (tra cui molte lettere private) e le pubblicazioni del fratello Silvio fossero acquistati e conservati dall’archivio de La Civiltà cattolica.
Pochi anni dopo la morte del congiunto, nel 1859, padre Pellico si troverà a Bologna appena occupata dai piemontesi e sotto il governo di Massimo D’Azeglio, ma continuerà indisturbato a svolgere i ministeri di sacerdote grazie all’intelligente sotterfugio di apporre sul cappello da prete «una coccarda tricolore»... Nel 1870 ritroviamo il gesuita a Roma, quasi per caso al momento della presa di Porta Pia: i suoi occhi «increduli » vedranno l’uscita dolorosa e forzata di tanti suoi confratelli dalla chiesa del Gesù e dal Collegio Romano. Il resto della vita di questo religioso di razza, considerato forse a torto figlio dell’Ancien Regime, sarà dedicato alla cura delle anime e alla pratica degli Esercizi Spirituali. Concluderà il ministero nel luogo dove aveva incominciato la sua avventura di gesuita: nel noviziato di Chieri, all’età di 83 anni. E a 130 anni dalla morte rimangono forse ancora attuali le parole che gli furono tributate dall’allora preposito generale della Compagnia di Gesù, il belga Pietro Beckx: «Fu un uomo degno della lode di tutte le virtù».
3/ L'«altro» Ricasoli: padre Luigi, un gesuita del dialogo nel Risorgimento. Cugino del primo ministro Bettino, all'alba dell'Unità d'Italia, mediò gli attacchi laicisti alla Compagnia, di Filippo Rizzi
Riprendiamo da Avvenire del 7/11/2016 un articolo di Filippo Rizzi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2016)
Gesuita da sempre avverso alle tesi risorgimentali e strenuo difensore dei diritti della Chiesa (a cominciare dal potere temporale) di fronte alle istanze provenienti dalla cultura liberale (spesso massonica), ma anche uomo capace di conciliare e non dividere gli animi e le coscienze della sua Firenze, prima dominata dagli Asburgo Lorena ai tempi del Granducato e poi annessa, grazie ai Savoia, al Regno d’Italia. È la trama e la parabola di azione in cui si svolse l’esistenza spesso avventurosa e turbolenta di Luigi Ricasoli (1801-1876), il religioso toscano, di nobili origini, cugino del più noto statista e futuro presidente del Consiglio (il secondo dopo Cavour) nel Regno d’Italia, il “barone di ferro” Bettino. E di questo originale figlio di Sant’Ignazio, di cui ricorrono proprio oggi i 140 anni dalla morte, rimane ancora viva, seppur impolverata dal tempo la traccia e lo zelo pastorale di un uomo sempre attento agli ultimi, un vero “consolatore degli afflitti”.
La vicenda di Luigi Ricasoli non fu l’unico caso in cui il fattore “Risorgimento” rappresentò una vera e propria “causa di famiglia”: gesuiti e dal temperamento molto più combattivo del confratello toscano, negli stessi anni, erano Luigi Taparelli D’Azeglio (fratello dello statista Massimo), Francesco Pellico (fratello di Silvio) e Giuseppe Bixio (fratello del generale garibaldino Nino). Ricasoli nasce a Firenze il 2 ottobre 1801 e riceve dai genitori Pier Leopoldo e Lucrezia un’educazione cattolica che lo porterà a entrare nel 1826 nella Compagnia di Gesù. Affascinato dagli esempi di vita dei gesuiti (ne era stato allievo nelle scuole di Reggio Emilia), ritornati in auge dopo la ricostituzione dell’Ordine nel 1814, entra nel noviziato di Sant’Andrea al Quirinale, a Roma. Nel 1830 a Ferrara viene ordinato sacerdote dall’arcivescovo della città, il cardinale Filippo Filonardi. Esemplare è il suo comportamento durante i moti mazziniani del 1830-31 e il suo prodigarsi a favore degli afflitti e dei bisognosi. Ma è negli anni trascorsi a Roma (1833-42), collaborando col generale dei gesuiti, l’olandese Jan Roothaan, che darà la migliore prova di sé, prestando aiuto concreto e consolazione spirituale ai malati di colera. Col ritorno a Firenze, padre Luigi offrirà per circa 26 anni (dal 1850 al 1876, anno della morte) un apostolato dai tratti in un certo senso speciali: ottimo cappellano delle carceri e degli ospedali oltre che eccellente direttore spirituale nei seminari diocesani.
Uno stile di annuncio cristiano che non lascerà indifferente, soprattutto per le sue doti di «buon confessore», l’allora arcivescovo di Firenze Ferdinando Minucci di cui diventerà uno degli uomini di fiducia. Ricorrerà spesso ai consigli spirituali di Ricasoli, soprattutto per la realizzazione di delicate missioni, il gesuita e letterato, futura grande firma di La Civiltà Cattolica, Antonio Bresciani. È proprio in questi anni che precedono il passaggio della Toscana da Granducato a parte integrante del Regno d’Italia che padre Luigi sogna di realizzare un «seminario nazionale toscano» in cui si possano formare i futuri presbiteri. Un sogno che non verrà mai realizzato.
Padre Ricasoli si farà, sempre in questo periodo, promotore a Firenze di tanti opuscoli in difesa del magistero della Chiesa (minacciato già allora da molte disposizioni anti-clericali e filo gianseniste, volute dall’ultimo granduca di Toscana Leopoldo II) e principale sponsor di La Civiltà Cattolica, fondata proprio nel 1850 per difendere l’azione dell’ultimo papa-re Pio IX. Arriva il 27 aprile del 1859 e il granduca Leopoldo II è costretto all’esilio. Assume il potere in Toscana Bettino Ricasoli. Padre Luigi, scrive il suo biografo, il gesuita Pietro Galletti, è visto come «pietra di intralcio» ai disegni di un’Italia unita sotto i Savoia e viene percepito con sospetto da molti circoli massonici. Su decisione del Governo provvisorio toscano gli viene imposta la domiciliazione forzata nel convento francescano della Verna: saranno questi i mesi (novembre-dicembre 1859) in cui il religioso sperimenterà una sorta di esilio dalla sua patria (Firenze) e protesterà con l’illustre cugino (allora ministro dell’Interno del Governo provvisorio) la sua «innocenza» per i torti subiti.
Grazie alla mediazione del “barone di ferro” padre Luigi tornerà ben presto ai suoi antichi ministeri di padre spirituale a Firenze. L’anno successivo nel 1860 padre Ricasoli caldeggerà la nascita di un «pia associazione contro la bestemmia» promossa dal confratello Domenico Di Negro e dall’illustre domenicano Agostino Bausa (poi arcivescovo di Firenze) e nata per contrastare oggi come allora un fenomeno considerato come il “gran peccato” della Toscana.
Con l’occupazione di Roma da parte dei piemontesi nel 1870 e con la conseguenza di un Pio IX costretto a divenire il Papa «prigioniero in Vaticano», il gesuita fiorentino è chiamato a giocare un ruolo centrale per la vita del suo Ordine: molti padri sono infatti visti con sospetto in quanto “papisti” nella neonata Capitale d’Italia e quasi “sollecitati” (tra coloro che premono per la cacciata vi è anche Marco Minghetti) a lasciare velocemente la Città eterna. Sarà infatti padre Ricasoli a individuare una dignitosa e tranquilla (soprattutto lontana dalle ingerenze piemontesi) dimora, “Villa San Girolamo” a Fiesole, all’allora superiore generale della Compagnia il belga Pietro Becks; toccherà sempre a padre Luigi trovare e assicurare a Firenze una sede e una casa per i padri scrittori di La Civiltà Cattolica, destinati a rimanervi dal 1870 al 1887.
Negli anni che precedono la sua morte, sarà essenziale l’assistenza quasi una «paternità spirituale» con cui seguirà il caso del confratello Carlo Maria Curci, un «vero spirito ribelle», principale ispiratore e fondatore di La Civiltà Cattolica. Padre Ricasoli muore alle 8.30 dell’8 novembre del 1876 e viene sepolto per decisione dei familiari nella cappella gentilizia del suo casato all’interno della certosa di Firenze. A 140 anni dalla sua scomparsa sopravvive ancora – come ha ben scritto Pietro Galletti – il tratto umile e spirituale di un uomo che non solo fu in grado di conciliare e non esacerbare gli animi delle persone più ostili al suo Ordine, ma soprattutto di far accettare ai suoi concittadini la massiccia “invasione” per un lungo arco di tempo dei gesuiti nella sua amata Firenze.