La lettera all’uomo dal quale aspettavo un bambino all’età di 20 anni mentre lui ne aveva 37 e, dopo tanti anni, uno sguardo diverso su quell’aborto, di Beatrice Fazi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 13 /11 /2016 - 21:49 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da B. Fazi, Un cuore nuovo, Piemme, Milano 2015, pp. 11-19, il capitolo di apertura del libro. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Vita nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (13/11/2016)

«Chi so' quelle d'a 194?»

Dal fondo del corridoio dell'ospedale la frase dell'infermiera dal forte accento romano mi arriva dritta in faccia come uno schiaffo. Mi guardo intorno sperando che non tutti abbiano inteso, ma gli occhi indagatori degli astanti mi feriscono come laser puntati contro di me.

Sollevo timidamente la mano. Non ho neanche il coraggio di pronunciare: «Io». Lo sussurro. E a quel sussurro subito se ne accavallano altri. «Eccomi». «Sono qui». «Anch'io». La prima cosa che ho pensato è stata: "Così tante?". Saremo state in cinque o sei. Ma mentre aspettavamo di essere chiamate, schermata dalla mia vergogna, non ci avevo proprio fatto caso.

Ero arrivata all'Ospedale Regina Margherita molto presto quella mattina. Mi aveva accompagnato in taxi Marianna, l'amica con cui avevo vissuto i primi anni da studentessa dopo il trasferimento a Roma.

Mi aveva offerto il suo sostegno subito. Mi aveva vista disperata, angosciata, impaurita, la sera in cui l'avevo cercata per confidarle il mio segreto. Ero rimasta incinta. La notte del Capodanno del 1993, a vent'anni e mezzo.

Ero andata a letto, quella notte per la prima volta, con l'uomo che credevo di amare, che mi aveva affascinata dall'alto dei suoi diciassette anni in più dei miei, con la sua cultura, la sua poesia, la sua follia.

Lo conoscevo da così poco. E non sapevo che fosse un cocainomane. Ero una sprovveduta in cerca dell'Amore che cambia la vita. Avevo nel cuore un disperato bisogno d'essere amata e, come tutti, il desiderio di essere felice.

E invece era finita così. Con gli occhi gonfi, di fronte a Marianna, a farle leggere una lettera che, di getto, avevo scritto per lui. Perché non rispondeva neanche più al telefono, perché quando finalmente riuscii a metterlo al corrente della situazione, l'unica risposta che ottenni fu un laconico: «Oh, cazzo...E mo' che fai?».

 

Roma, 22/1/1993

Voglio cominciare col dirti che queste due ultime settimane sono state le più difficili della mia vita. Anzi, forse difficili è un termine che non potrà mai spiegare completamente quanto sia stata male, quanto stia male ancora. Ho una tale confusione in testa...

Vorrei vomitarti addosso tutto quello che mi passa per la mente e che mi opprime. Mi opprime soprattutto quando la giornata è finita e sono nel letto da sola.

Sola... Si, forse è questa la ragione per cui tutto mi è sembrato ancora più terribile, ancora più insostenibile, ancora più grande, immenso... troppo, per me. Ho vent'anni.

Ti ho cercato. Avevo bisogno di te. Ma non ho osato dirti nulla perché non volevo allarmarti solo per un semplice sospetto. Ho affrontato tutto da sola: prima la paura, strane sensazioni, aspettare, aspettare...

Non avevo mai aspettato l'arrivo del ciclo con tanta ansia.

Macché... come l'alba che non spunta mai. E tu sai quanto sia importante che l'alba spunti.

E invece no. Buio. Solo buio. Buio senza fine, senza dimensioni. E quando la luce è arrivata, era una luce troppo violenta, accecante, che i miei occhi, ancora deboli per tutte le lacrime versate, non hanno potuto sopportare.

E ancora una volta ero da sola.

Certo, tu come potevi sapere? Il mio sacro rispetto per te mi ha imposto di aspettare, aspettare il momento giusto, venire giù a Salerno e guardarti dritto negli occhi per dirtelo...

Però continuo a cercarti e non trovarti. E tu non mi richiami mai.

Non sai quanto ho bisogno di te.

Se sarà difficile per te, pensa a come sto io.

Ma tu non puoi capire come ci si senta in queste condizioni. È proprio fisicamente che il problema ti è estraneo. È solo dentro di me. Mi rigiro nel letto. Mi tormento le unghie e piango. Piango perché non so cosa mi dirai, come reagirai, come te lo dirò.

Perché? Perché è successo proprio a me? A te? A noi che non avevamo una vera relazione, a noi che forse abbiamo soltanto giocato? A noi, che c'è un abisso che ci unisce e ci separa... A un certo punto non ne potevo più.

Ormai ero certa e volevo obbligarti a prenderti le tue responsabilità, perché, in fondo, gran parte della responsabilità è tua. E, comunque vadano le cose, sarà sempre diverso il tuo dolore dal mio: io, in un caso o nell'altro, lo porterò per sempre dentro di me.

Così volevo parlartene al telefono, ma, ancora una volta, non ci sei. Non ci sei mai. Eppure non te l'ho chiesto io di infilarmi nella tua vita. Scusa. Ora divento cattiva. Ma capirai, ti odio, quasi. Proprio mentre credevo che avrei potuto amarti per sempre. Proprio mentre pensavo che, in ogni caso, saresti stato la cosa più bella e coinvolgente mai capitatami. Povera illusa!

Accecata! Non capivo che ero soltanto relegata ai margini della tua esistenza. Un bocciolo reciso da cui aspirare tutto il profumo e a cui non dare nemmeno l’acqua per sopravvivere.

E allora, cosa posso aspettarmi...

Vorrei non dirti nulla. Continuare a fare tutto da sola. In fondo, se ho superato i momenti che ho passato fino a ora, perché non dovrei riuscire ad andare avanti?

E invece no. Devo dirtelo. Devi sapere. Devi comprendere che è necessario evitare, quando si tratta di un'avventura, di andare a letto ubriachi e senza precauzioni.

Io ho vent'anni! Certo, sono stata una cretina! Ma le conseguenze le sto pagando.

Tu ne hai trentasette! Pensa! Pensaci, la prossima volta! O sei così egoista da fregartene?

Credevo fossi una persona sensibile. Eppure non ci hai pensato su due volte a portarmi a letto anche dopo che ti avevo detto di non prendere la pillola.

Eri così sicuro? Io sì. Ho pensato: ha trentasette anni, posso fidarmi di lui, è un uomo, mica un ragazzino!

Be', allora mostrami di esserlo!

Sto aspettando un figlio tuo! Un figlio nostro, che probabilmente non nascerà mai. Che non sentirò mai attaccarsi al mio seno già prospero. Non sentirò mai agitarsi nel mio grembo già gonfio, a punta. Sono sicura che sia un maschietto...

Ma un bambino, per crescere, ha bisogno di un padre e di una madre che si amino, che si rispettino, che si completino.

Aspetto un figlio tuo. Chissà se qualcun'altra ti ha mai detto una frase così. Spero di no. Vorrebbe dire che sei un recidivo. Un vigliacco. Uno scriteriato. Un pazzo.

Comunque, non temere, mia madre non sa nulla. Nessuno sa nulla. Anzi, vorrei che tu strappassi questa lettera. Vorrei che non restasse traccia di questo omicidio. Però, se di omicidio si tratterà, spero che tutte le volte che vedrai un bimbo per strada ti si spezzi il cuore, ti si geli il sangue.

E spero che ogni volta che sarai a letto con una donna, ti venga in mente tutto ciò. Che tutto questo ti serva da lezione.

Per quanto mi riguarda, il dolore che sto soffrendo è così forte, così forte che potrei anche morirne. E non esagero. Sono sfinita, svuotata, disillusa. Nulla ha più importanza per me.

Ucciderò questo figlio per la mia carriera? No. So che potrei continuare a studiare anche con lui.

Lo ucciderò perché non mi ami. Perché non ti amo. Perché ho paura. Cosa potrei offrirgli? Tanto! Ma non basterebbe.

Non potrei sopportare di scaricare un domani su di lui la frustrazione di essere stata sposata solo perché incinta. Non è giusto.

Ma la vita non potrà essere per sempre cosi dura con me. So che dovrò lottare per avere un posto al sole, ma sono forte. Sono caduta tante volte, non in un burrone come questo, certo, ma mi rialzerò. Mi rialzerò e sarò più forte di prima. E cercherò di non sbagliare. E quando verrà il giorno in cui l'uomo che amerò, e che mi amerà, e io, aspetteremo un figlio, so che quel figlio sarà felice. Farò di tutto perché sia felice.

E se nella mia vita dovrò lottare tanto, dovrò soffrire tanto, saprò che sarà stato giusto così… che avrò espiato questo peccato enorme che oggi a vent'anni, sto per compiere, consapevole che, in fin dei conti, avrebbe potuto essere evitato.

Ma non ho più la forza per pensarci, adesso. Mi lascio andare, alla deriva dei miei pensieri, immaginando un finale diverso, un finale tutto azzurro, tutto felice, sereno, dove non sia necessario il nostro intervento per cambiare il corso delle cose. Dove non sia necessario nascondere a tutti la verità, affrontare un momento, che potrebbe essere il più bello e irripetibile della propria vita, come se fosse un problema, il più doloroso problema che abbia mai affrontato finora, il più difficile da affrontare a vent'anni, da sola, senza poter contare su di te.

Sarò l'unica responsabile, l'unica autrice, sceneggiatrice e regista di questo squallido finale. L’unica che si porterà dietro il peso di aver cambiato il corso degli eventi, di aver negato la possibilità B per scegliere la non possibilità A. A come aborto.

Sono consapevole che il dubbio mi perseguiterà per tutta la vita. Il dubbio di avere fatto la cosa peggiore. E, se per qualcuno sarà stata la soluzione migliore, mi perseguiterà il rimorso. Per sempre.

Sono passati più di vent'anni da quella mattina. Ma ricordo ancora il dolore tremendo che provai al risveglio dall'anestesia.

Mi sembrava che qualcuno avesse afferrato il mio ventre dall'interno, stringendo e tirando senza smettere, senza tregua. Bruciava. Piangevo e chiedevo aiuto. Volevo soltanto che quella tortura finisse. Ma l'unica risposta che l'infermiera mi elemosinava svogliatamente era: «Adesso ti passa. Non posso farci niente». E il suo ghigno mal celava un pensiero: "Ti sta bene. Potevi pensarci prima".

Nel tardo pomeriggio, dopo un periodo di osservazione, mi mandarono finalmente via.

Tornai a casa con Marianna, la casa vicino alla stazione Termini dove avevamo vissuto insieme e dove lei era rimasta con le altre ragazze, trasferendosi nella mia stanza quando io ero andata a vivere altrove.

Era stata con me in ospedale per tutto il tempo. Durante il tragitto in taxi cercava di consolarmi, ma riusciva solo a guardarmi fisso con i suoi occhi chiari e tristi.

Sapevo che, almeno lei, non mi stava giudicando. Appena a casa, mi fece stendere nel letto di sotto dei due che si estraevano a ribalta dal mobile della mia vecchia camera e andò a comprarmi in farmacia l'antibiotico che mi avevano prescritto.

Mi ricordai della prima volta in cui avevo dormito lì, nel letto di sopra.

Ero arrivata da Salerno piena di speranze, per andare incontro alla vita. E ora giacevo nuovamente lì dopo averla uccisa, una vita...

Mi tormentava il ricordo degli ultimi istanti prima che l'infermiera ci chiamasse.

Continuavo a domandarmi perché fossi rimasta lì. Perché non ho avuto il coraggio di fuggire, di dare ascolto a quel flebile grido di sopravvivenza che mi urlava dentro di non farlo, di ripensarci?

Allora ripercorrevo tutte le tappe della vicenda: quando ebbi la nausea per la prima volta durante una lezione all'università, il test nel bagno di casa, la prima ginecologa, obiettrice, che mi confermò l'esito positivo e, sola, mi disse di parlare col padre del bambino, di trovare un'alternativa, di scegliere la vita. Le promisi che se lui avesse voluto lo avremmo fatto nascere. Io speravo davvero di farlo nascere...

Invece, poi, la disperazione. Il consultorio, le poche amiche cui l'avevo confessato che con tanta convinzione mi rassicuravano sul fatto che abortire fosse la cosa giusta da fare. Che era solo «un grumo di cellule».

E poi l'iter di visite di routine da fare prima dell'intervento, le radiografie. Tutto presto, tutto gratis. Che efficienza la legge 194. Nessuno spazio a dubbi, a cedimenti, una volta avviata la pratica al consultorio, sei su uno scivolo senza freni, senza intoppi, in corsa fino alla fine.

Eppure, se in quella fase qualcuno mi avesse parlato un'altra lingua, mi avesse offerto un altro punto di vista, se quella psicologa al consultorio non mi avesse liquidata con una domandina di rito, tra un chiacchiera e l'altra con la sua collega, se si fosse fermata un attimo, se mi avesse guardata con un po' d'amore, forse avrei trovato la forza di scegliere la vita e, oggi, quel figlio avrebbe avuto ventidue anni.

Chissà se le altre donne che erano con me quella mattina avevano avuto gli stessi sentimenti.

Per la verità, di alcune mi aveva colpito la leggerezza con cui avevano dichiarato di non essere lì per la prima volta. Una di loro aveva già dei figli e, insieme al marito, aveva deciso che poteva bastare così. Era la terza volta che interrompeva volontariamente una gravidanza. Un'altra ragazza, più giovane, semplicemente, voleva aspettare di sposarsi e «fare tutto per bene». Non lo aveva detto né a sua madre né al suo ragazzo, per paura che la obbligassero a tenere il bambino.

Nemmeno io ebbi il coraggio di raccontarlo ai miei. Per la vergogna, per l'umiliazione, per non deluderli...

Soltanto oggi, a quarantatré anni, sono riuscita finalmente a confessarlo a mia madre. Non ce l'ho fatta prima. Per la vergogna, certo, ma anche perché sapevo che avrebbe provato un dolore immenso nello scoprire che proprio sua figlia non si è fidata di lei. Che in un momento così difficile, così doloroso, io non abbia cercato proprio il suo aiuto, il suo conforto.

Oggi, che sono madre anch'io, posso immaginare che abbia provato lo stesso dolore che provò Dio, scoprendo che Adamo ed Eva si nascondevano colpevoli al suo sguardo.

Ma io, come loro, ho avuto paura del suo giudizio, del suo disprezzo, della sua delusione.

Per lei sono sempre stata la figlia forte, saggia, indipendente, quella a cui poteva fare l'occhiolino mentre abbracciava mio fratello di diciotto mesi più grande, perché era certa che avrei capito che non poteva coccolarmi davanti a lui senza provocargli un tremendo attacco di gelosia e di asma.

E invece, quanta rabbia ha provato questa figlia, quanti errori ha commesso...

Che razza di traumi infantili mi sono portata dentro per tanto tempo. E quanta fatica in tutti questi anni per uscire dal mio vittimismo, smettere di costruirmi alibi dando la colpa delle mie miserie a chi, dopo tutto, ha solo cercato di amarmi come poteva. C'è voluto un lungo cammino di guarigione, una diagnosi, e poi la cura, per imparare a interpretare la mia vita nel modo giusto, per imparare a perdonarmi e a perdonare, per ritrovare il senso che avevo perso, per riconoscere e accogliere l'Amore che salva e chiedere di avere un cuore nuovo, capace di ricambiarlo, questo Amore, e di donarlo agli altri.