Educare all'affettività. "Ditemi la verità, vi prego, sull'amore". File audio dello stage guidato da Andrea Lonardo
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Mettiamo a disposizione ad experimentum il fie audio di uno stage per catechisti della Confermazione guidato da don Andrea Lonardo il 22/10/2016. Per altri files audio vedi la sezione Audio e video. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Educare all'affettività.
Il Centro culturale Gli scritti (6/11/2016)
Parte 1
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Parte 2
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Andrea Lonardo
(www.gliscritti.it www.ucroma.it canale Youtube catechistiroma FB Andrea Lonardo)
Premessa: “La verità, vi prego, sull’amore”
Wystan Hugh Auden, La verità, vi prego, sull’amore, Milano, Adelphi, 1994
Ditemi la verità, vi prego, sull’amore
Alcuni dicono che l’amore è un bambino
e alcuni che è un uccello
alcuni dicono che fa girare il mondo
e altri che è solo un’assurdità,
e quando ho chiesto cosa fosse al mio vicino
sua moglie si è seccata e ha detto
che non era il caso di fare queste domande.
Può assomigliare a un pigiama
o a del salame piccante dove non c’è da bere?
Per l’odore può ricordare un lama
o avrà un profumo consolante?
È pungente a toccarlo, come un pruno,
o lieve come morbido piumino?
È tagliente o ha gli orli lisci e soffici?
Ditemi la verità, vi prego, sull’amore.
I libri di storia ne parlano
solo in piccole note a fondo pagina,
ma è un argomento molto comune
a bordo delle navi da crociera;
ho trovato che vi si accenna nelle
cronache dei suicidi,
e l’ho visto persino scribacchiato
sulle copertine degli orari ferroviari.
Ha il latrato di un cane affamato
o fa il fracasso di una banda militare?
Si può farne una buona imitazione
con una sega o con un pianoforte Steinway da concerto?
Quando canta alle feste, è un finimondo?
O apprezzerà soltanto musica classica?
La smetterà quando si vuole un po’ di pace?
Ditemi la verità, vi prego, sull’amore.
L’ho cercato nei chioschi del giardino
ma lì non c’era mai stato:
ho anche esplorato le rive del Tamigi
e l’aria balsamica delle terme.
Non so cosa cantasse il merlo
o che cosa dicesse il tulipano,
ma certo non era nel pollaio
e nemmeno sotto il letto.
Sa fare delle smorfie straordinarie?
Sull’altalena soffre di vertigini?
Passerà tutto il suo tempo alle corse,
o strimpellando corde sbrindellate?
Avrà idee personali sul denaro?
È un buon cittadino o mica tanto?
Ne racconta di allegre, anche se un po’ audaci?
Ditemi la verità, vi prego, sull’amore.
Quando viene, verrà senza avvisare,
proprio mentre mi sto grattando il naso?
Busserà la mattina alla mia porta,
o là sull’autobus mi pesterà un piede?
Arriverà come il cambiamento improvviso del tempo?
Sarà cortese o spiccio il suo saluto?
Darà una svolta a tutta la mia vita?
Ditemi la verità, vi prego, sull’amore.
da Andrzej Jawien - Karol Wojtyla, La Bottega dell'orefice, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1979
Proprio questo mi costringe a riflettere sull'amore umano. Non esiste nulla che più dell'amore occupi sulla superficie della vita umana più spazio, e non esiste nulla che più dell'amore sia sconosciuto e misterioso. Divergenza tra quello che si trova sulla superficie e quello che è il mistero dell'amore — ecco la fonte del dramma. [...]
Certe volte la vita umana sembra essere troppo corta per l'amore. Certe volte invece no — l'amore umano sembra essere troppo corto per una lunga vita. O forse troppo superficiale. In ogni modo l'uomo ha a disposizione una esistenza e un amore — come farne un insieme che abbia senso?
Da Papa Francesco, Amoris laetitia 280
Sì all’educazione sessuale
Il Concilio Vaticano II prospettava la necessità di «una positiva e prudente educazione sessuale» che raggiungesse i bambini e gli adolescenti «man mano che cresce la loro età» e «tenuto conto del progresso della psicologia, della pedagogia e della didattica». Dovremmo domandarci se le nostre istituzioni educative hanno assunto questa sfida. È difficile pensare l’educazione sessuale in un’epoca in cui si tende a banalizzare e impoverire la sessualità. Si potrebbe intenderla solo nel quadro di una educazione all’amore, alla reciproca donazione. In tal modo il linguaggio della sessualità non si vede tristemente impoverito, ma illuminato. L’impulso sessuale può essere coltivato in un percorso di conoscenza di sé e nello sviluppo di una capacità di dominio di sé, che possano aiutare a far emergere capacità preziose di gioia e di incontro amoroso.
da Benedetto XVI. Deus caritas est, 3
La messa in disparte della parola eros, insieme alla nuova visione dell'amore che si esprime attraverso la parola agape, denota indubbiamente nella novità del cristianesimo qualcosa di essenziale, proprio a riguardo della comprensione dell'amore. Nella critica al cristianesimo che si è sviluppata con crescente radicalità a partire dall'illuminismo, questa novità è stata valutata in modo assolutamente negativo. Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche, avrebbe dato da bere del veleno all'eros, che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio. Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una percezione molto diffusa: la Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino?
dalla Lettera di J. Ratzinger a Marcello Pera, in M. Pera - J. Ratzinger, Senza radici, Mondadori, Milano, 2004
La questione del perché oggi la fede cristiana stenta a raggiungere, con il suo grande messaggio, gli uomini, in Europa, inevitabilmente riguarda il cristiano credente... (Fra le cause principali vedo quella) introdotta da Nietzsche quando disse: “Il cristianesimo è sempre stato attaccato finora in un modo sbagliato. Finché non si percepisce la morale del cristianesimo come crimine capitale contro la vita, i suoi difensori avranno sempre gioco facile. La questione della verità del cristianesimo è una cosa del tutto secondaria finché non viene affrontata la questione del valore della morale cristiana”. Qui abbiamo veramente a che fare, a mio parere, con le ragioni decisive dell’abbandono del cristianesimo. Sembra che limiti l’uomo in tutto, che guasti la sua gioia di vivere, che limiti la sua libertà come preziosa e lo conduca non al largo – come dicono i Salmi – ma nell’angustia, nello stretto. Si può rilevare che qualcosa di simile accadde già nell’antichità quando i rappresentanti del potere statale romano lanciarono il seguente appello ai cristiani: tornate alla nostra religione, la nostra religione è gioiosa, abbiamo feste, gozzoviglie e divertimenti, e voi credete in uno che è stato crocifisso. All’epoca i cristiani riuscirono a dimostrare, in modo persuasivo, quanto i divertimenti del mondo degli dei fossero vuoti e insipidi, e quale altezza regala la fede in quel Dio che soffre con noi e ci porta sulla via della vera grandezza.
Far “respirare” la libertà (es. di noi 4 figli) e la grandezza della vocazione
1/ L’esigenza di amare e essere amati è la vita dell’adolescente, è la nostra esigenza
da A. Tronconi (su www.gliscritti.it)
Mi piace pensare [la sessualità] come quell'inquietudine che non permette neanche al tuo corpo di chiudersi. Benedetto quel corpo che ti ricorda che non sei fatto per te, ma per gli altri, che non ti fa dormire, che sveglia l'adolescente dopo il cosiddetto periodo di latenza. È così fondamentale che lo sente anche la mia carne. Perfino la sua ipofisi gli parla dell'altro! Perciò l'adolescenza non è l'età in cui rimbambirli di TV, sport e distrazione. È della "nostra" adolescenza, dell'adolescenza di quelli già avanti negli anni, che abbiamo paura! La sessualità ha bisogno di un intervento educativo. Ma non per ritardare o per far emergere il più tardi possibile. Noi nasciamo con la sessualità! La abbiamo al momento del concepimento! Il passaggio fondamentale è quello di lasciare una sessualità infantile e non dipende dall'età, spesso c'è negli adulti una sessualità pregenitale che la psicologia chiama pervertita e polimorfa non è ancora orientata, è confusiva immatura, incapace di essere se stessa. Essa segue il "principio del piacere" in maniera cieca, subdola. Non sa uscirne. Serve per non comunicare, per riempire la propria solitudine, per colmare la propria mancanza di cuore. Per cui conta la quantità, non la qualità. Più ne provi, più diventi incapace di capire la vita e gli altri. Manca il suo obiettivo, è fallita, è fortemente narcisista. Invece deve diventare adulta, genitale, cioè avere come principio il "principio di realtà". Cerca il rapporto come essenziale, cerca il contenuto del linguaggio. Cerca l'amore perché solo questo può dare senso e bellezza.
da Baden-Powell, Alla scuola della vita (citato in Baden-Powell, L’educazione non finisce mai, Edizioni Nuova Fiordaliso, Roma, 2004, p. 41)
Mi è stato domandato se potevo definire in poche parole, per esempio in cinquanta, la mia concezione su ciò che si poteva fare di meglio nella vita. Risposi che quattro mi sarebbero bastate: fate un buon matrimonio.
perché sugli affetti ci si gioca tutto! cfr. Sant’Agostino! (anche se, si vedrà più avanti, non è del tutto vero!)
EG: le conseguenze sociali del Vangelo: non basta parlare del vangelo e della carità! carità è lo studio, la famiglia, il lavoro, la cultura, ecc.
dal discorso di papa Francesco alla plenaria del Pontificio Consiglio per la famiglia, 25 ottobre 2013
Si potrebbe dire, senza esagerare, che la famiglia è il motore del mondo e della storia. [...] La “buona notizia” della famiglia è una parte molto importante dell’evangelizzazione, che i cristiani possono comunicare a tutti, con la testimonianza della vita; e già lo fanno, questo è evidente nelle società secolarizzate: le famiglie veramente cristiane si riconoscono dalla fedeltà, dalla pazienza, dall’apertura alla vita, dal rispetto degli anziani… Il segreto di tutto questo è la presenza di Gesù nella famiglia. Proponiamo dunque a tutti, con rispetto e coraggio, la bellezza del matrimonio e della famiglia illuminati dal Vangelo! E per questo ci avviciniamo con attenzione e affetto alle famiglie in difficoltà, a quelle che sono costrette a lasciare la loro terra, che sono spezzate, che non hanno casa o lavoro, o per tanti motivi sono sofferenti; ai coniugi in crisi e a quelli ormai separati. A tutti vogliamo stare vicino con l'annuncio di questo Vangelo della famiglia, di questa bellezza della famiglia.
2/ Il piacere come indicatore di trascendenza
la sessualità sveglia l’adolescente all’amore, anche il più intellettuale... per essere felici l’altro deve essere presente almeno in sogno
da Paolo VI, Gaudete in Domino 8
La società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia.
il cibo, la sessualità... il piacere non dura e chiede un di più! o si esaspera o diventa amore: il piacere come “dito che indica una trascendenza”
abbiamo sempre bisogno di qualcosa di più (quantità o qualità)!
Epicuro, Lettera a Meneceo (solo gli stoici lo chiameranno Porcus)
Proprio perché il piacere è il nostro bene più importante e innato noi non cerchiamo qualsiasi piacere; vi sono casi in cui noi rinunciamo a molti piaceri se ce ne deriva un affanno. Inoltre consideriamo i dolori preferibili ai piaceri, quando da sofferenze a lungo sopportate ci deriva un piacere più elevato… Quando diciamo che il piacere è il nostro fine ultimo, noi non intendiamo con ciò i piaceri sfrenati e nemmeno quelli che hanno a che fare con il godimento materiale, come dicono coloro che ignorano la nostra dottrina… La saggezza è principio di tutte le altre virtù e ci insegna che non si può essere felici senza essere saggi, onesti e giusti. Le virtù in realtà sono un’unica cosa con la vita felice e questa è inseparabile da esse.
Nuovo Testamento
55 volte “felice, beato”
Sant’Agostino, Trattati su Giovanni 26, 4-6
"Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre" (Gv6,44). Non pensare di essere attirato contro la tua volontà: l'anima è attirata anche dall'amore. Né dobbiamo temere di essere criticati per queste parole evangeliche della Sacra Scrittura da quanti stanno a pesare le parole, ma sono del tutto incapaci di comprendere le cose divine. Costoro potrebbero obiettarci: Come posso ammettere che la mia fede sia un atto libero, se vengo trascinato? Rispondo: Nessuna meraviglia che sentiamo una forza di attrazione sulla volontà. Anche il piacere ha una forza di attrazione. Che significa essere attratti dal piacere? "Cerca la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore" (Sal 36,4). Esiste dunque una certa delizia del cuore, per cui esso gode di quel pane celeste. Il poeta Virgilio poté affermare: Ciascuno è attratto dal proprio piacere. Non dunque dalla necessità, ma dal piacere, non dalla costrizione, ma dal diletto. Tanto più noi possiamo dire che viene attirato a Cristo l'uomo che trova la sua delizia nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, dal momento che proprio Cristo è tutto questo. Forse che i sensi del corpo hanno i loro piaceri e l'anima non dovrebbe averli?... Dammi uno che ami, e capirà quello che sto dicendo. Dammi uno che arda di desiderio, uno che abbia fame, che si senta pellegrino e assetato in questo deserto, uno che sospiri alla fonte della patria eterna, dammi uno che sperimenti dentro di sé tutto questo ed egli capirà la mia affermazione. Se, invece, parlo ad un cuore freddo e insensibile, non potrà capire ciò che dico. Tu mostri ad una pecora un ramoscello verde e te la tiri dietro. Mostri ad un fanciullo delle noci, ed egli viene attratto e là corre dove si sente attratto: è attirato dall'amore, è attirato senza subire costrizione fisica; è attirato dal vincolo che lega il cuore. Se, dunque, queste delizie e piaceri terreni, presentati ai loro amatori, esercitano su di loro una forte attrattiva - perché rimane sempre vero che ciascuno è attratto dal proprio piacere - come non sarà capace di attrarci Cristo, che ci viene rivelato dal Padre? Che altro desidera più ardentemente l'anima, se non la verità? Di che cosa dovrà essere avido l'uomo, a qual fine dovrà desiderare che il suo interno palato sia sano nel giudicare il vero, se non per saziarsi della sapienza, della giustizia, della verità, della vita immortale?
da Sant’Agostino, Trattati su Giovanni 40.10
"Desiderium sinus cordis". E' il desiderio che rende il cuore profondo
AL 150-152
3/ L’amore non è un istinto e, quindi, nemmeno la scelta dell’oggetto giusto. Per questo è “problematico”.
-la sessualità è realtà della mente (dello spirito, del cuore) più che del corpo, perché l’amore non è un istinto da imbrigliare, ma un compito in cui crescere (cos’è la libertà?)
-Implica il passaggio dal “principio del piacere” al “principio di realtà”
da R. Lorenzini
Ho detto prima che la sessualità è un istinto, ma non è vero. Anzi l'uomo gli istinti non li ha proprio: ed è per questo che sono stati inventati gli educatori, altrimenti non ce ne sarebbe alcun bisogno.
Gli animali invece hanno gli istinti che sono una sorta di programma di calcolatore che li conduce, attraverso una serie di tappe precostituite e non modificabili, al raggiungimento di un certo scopo (l'alimentazione, la difesa dai predatori, l'accoppiamento, ecc.) che ha valore per la sopravvivenza individuale e della specie: il singolo individuo esegue ciò che l'evoluzione della specie nel corso di milioni di anni ha stampato sul «suo programma», ma non ne ha alcuna consapevolezza e soprattutto non può scegliere di fare altrimenti.
L'uomo invece è dotato di alcune pulsioni che sperimenta psicologicamente come desideri (mangiare, dormire, proteggersi dal caldo e dal freddo, avere rapporti sessuali, ecc.) che hanno ovviamente anch'esse un significato di sopravvivenza, ma deve inventarsi o imparare il modo per soddisfarle; nel suo programma c'è scritta soltanto la mèta finale e non il percorso per arrivarci.
È per questo che i cani di duemila anni fa facevano più o meno la stessa vita da cani che fanno oggi, mentre gli uomini hanno imparato molte cose, se le sono trasmesse di generazione in generazione e gli stessi obiettivi di allora li raggiungono in modo un po' più sofisticato. Ed è sempre per lo stesso motivo che gli uomini hanno colonizzato tutta la terra, in quanto sanno raggiungere gli stessi scopi in situazioni diverse adattandosi: ve lo immaginate un orso bianco in Costa d'Avorio o un formichiere al Polo Nord?
Ogni specie animale ad esempio ha un suo modo specifico e magari molto elaborato di alimentarsi (il ragno fa la ragnatela, l'orso pesca i salmoni e ruba la merenda ai turisti, le balene filtrano il plancton) ma conosce solo quello e se non lo può praticare muore; l'uomo invece si procaccia il cibo in mille modi diversi (lavorando o facendo lavorare gli altri, uomini e animali, per lui) e poi se è duro lo cuoce, lo pesta, lo macera, lo condisce e se va a male lo conserva con il sale, con lo zucchero, col freddo o sott'olio.
Questa caratteristica specifica dell'essere umano di potersi autodeterminare e di non essere schiavo dei propri istinti rende l'uomo nello stesso tempo libero di scegliere come e perché vivere e contemporaneamente responsabile delle proprie azioni (libertà e responsabilità vanno naturalmente di pari passo). L'enorme sviluppo nell'uomo della corteccia cerebrale ha determinato questa situazione del tutto nuova: siamo gli unici esseri viventi in grado di scegliere la nostra sorte e quella delle altre specie che coabitano con noi; è una responsabilità enorme.
Così anche la sessualità non è un dato biologico a cui sottostare, un istinto da soddisfare, ma un progetto di relazionalità che l'uomo può scegliere come realizzare: dipende molto più dal cervello che non dai genitali. L'uomo in nome di un ideale può scegliere il celibato, farsi uccidere o lasciarsi morire di fame; sono queste altrettante prove che il primato nella nostra vita spetta al cervello e ai suoi prodotti: le idee.
- come crescere dal narcisismo al dono di sé, dal principio del piacere al principio della realtà?
- innamorarsi, voler bene: il primo è un verbo “riflessivo”, il secondo un verbo “transitivo”
cfr. esempio di un giovane della parrocchia di Santa Chiara: all’inizio il suo unico criterio era: “io con una cozza mai!”, ma poi...
-Franco Fornari (ripreso da Leonardo Ancona): dalla sessualità infantile (orale, anale, fallica) alla sessualità adulta (genitale), capace di dialogo e oblatività
-l’evoluzione del cuore e della mente umana è illuminata da Cristo: nel cuore umano esiste il peccato e l’amore umano ha bisogno di essere illuminato e purificato; senza la grazia ciò che è umano si corrompe., con la grazia di Dio fiorisce
-cfr., in particolare, l’annunzio dell’amore che non muore – desiderato dal Cantico dei Cantici, che si compie nella croce di Cristo
-l’amore non dipende nemmeno dalla scelta della persona giusta
4/ La sessualità è il vestito dell’amore
da A. Tronconi
La sessualità fa problema. Ha sempre fatto problema. Sembrava, dopo la rivoluzione sessuale, che il problema dovesse sparire con l'informazione, con la conoscenza, con l'uso igienico! Anche per voi la sessualità è un problema e così per i ragazzi che educate. Allora: se è un problema, bisogna guardarlo bene in faccia.
La sessualità: non è un problema perché è legata al corpo! Ma perché è legata alla testa (e non perché esiste un istinto sessuale, che, invece, non esiste!). E' la testa il vero organo sessuale. E la testa è complicata e la si può usare in modo penalizzante. La sessualità esplode dentro (e pensiamo all'aspetto fisiologico, gli enzimi, gli ormoni, come se questo corpo fosse altro da te!). Esplode dentro perché esplode un bisogno psicologico, direi spirituale, mentale, della persona. La sessualità è il vestito dell'altro grande bisogno, che è quello dell'amore. È un vestito indossato dall'aspetto più importante che è l'amore. La sessualità, anche vissuta nel peggiore dei modi, invoca, richiama l'amore. Avete detto che la sessualità è negativa quando è vissuta come non linguaggio, non apertura, quando non trasmette più niente, almeno coscientemente, gioiosamente. E' una "parola", evoca sempre un contenuto. La sessualità è un problema perché l'uomo è un problema nelle sue cose più alte, il bisogno d'amore. Già si vede che la morte della sessualità è il ripiegarsi su se stessi, sul narcisismo. Rinsecchisce e muore, diventa muta e cieca. Ne avete parlato anche come di una dimensione essenziale della vita. Guardate che non è per niente scontato questo. Deve divenire educazione. Non va né buttata via, né nascosta, né far finta che non ci sia, né esagerata. Non c'è uomo che non l'abbia. Ogni cellula ha la caratteristica maschile o femminile. Eppure. noi pensiamo la sessualità come un aggiunta. C'è una macchina e dietro c'è agganciato un carrello. Se ne tiene conto, abitualmente, per alcune parti, come se non coinvolgesse tutta la persona. Ad esempio, a livello educativo, non si fanno mai distinzione ragazzi/ragazze. È assurdo! Il mito dell'uguaglianza. Guai a dire: ragazzi e ragazze!
In secondo luogo, la sessualità ti indica l'altro, una realtà oltre te stesso. Qualcosa che ti porta fuori da te. Tenta di superarti, cerca di fare, tramite la sessualità, un dono per l'altro. Questo è vero anche nelle forme peggiori, più maldestre. Cerca di fare un dono per gli altri. Non ci scandalizziamo che è un problema, ma sappiamo che il problema non è nel corpo. Non ci scandalizziamo che è dappertutto. Se la vivi consumandola nel tuo piccolo mondo, non stai vivendo la sessualità. Essa ti provoca ad uscire, a fare della tua vita un dono. […]
La sessualità è una realtà evolutiva. Bisogna disintossicarsi dall'idea di una funzione che l'uomo ha. Non è una realtà compiuta, che ci viene data, come se, quindi, la finalità educativa fosse gestirla bene, con buone regole. Te la trovi dentro, ma nella prospettiva di una maturazione e compimento. La sessualità sei te stesso. Per essa e con essa si fanno cose diversissime (questo lo si è sempre pensato). Oggi si è capita una cosa centralissima: "di" essa, della sessualità, si fanno cose diversissime, cioè è oggetto di crescita o di deformazione. Il problema, cioè, non è solo cosa fai con essa, ma è piuttosto come un compito che ti è stato dato: La stai facendo maturare o la vedi solo come un inciampo, o come l'aspetto meno impegnativo (hai quello che hai) o come la cosa divertente? Non è una bomba fra le mani! Devi veramente prenderla in considerazione. Non puoi congelarla. Soprattutto non è la parte istintiva di te: queste sono balle! E' la tua umanità chiamata ad essere una persona matura, anche in questo, soprattutto in questo. E proprio lì ho bisogno di una maturità, di una serenità. La tua dimensione psichica (la sessualità) è legata all'educazione, ma non per castrarla, non per mettergli le briglie. Piuttosto perché sia pienamente se stessa. Noi cristiani siamo quelli che ne parlano nel migliore dei modi. È l'abito dell'amore. Un compito, una vocazione, non di quanto so tenerla a bada, ma di quanto la porto a pienezza. Sarò responsabile. Se sono narcisista, la vivrò così. L'uso sbagliato non è innanzitutto una trasgressione morale, è una omissione di crescita. Di quella chance che mi è stata data per essere più uomo, per aprirmi, per essere attirato dall'amore, cosa ne ho fatto? È veramente l'occasione non l'unica, ma certo importante per diventare uomini, per essere comunicazione, dono, linguaggio, comunione.
5/ Cosa è la bellezza?
- quindi il corpo e l’anima! Cosa è la bellezza?
1 Sam 16,7 Dice il Signore: Non guardate all'aspetto, né alla statura. Io non guardo ciò che guarda l'uomo. L'uomo guarda l'apparenza, il Signore guarda il cuore.
la bellezza: (su www.youtube.it, canale Gli scritti Body evolution, lasciati ingannare )
dare il proprio corpo vuol dire dare l’anima
cfr. la domanda quando scopri di essere stato tradito: ma ci sei andata a letto?
da Platone, Alcibiade maggiore, 132-133B
Socrate: E così, chi si prende cura del corpo, si cura di ciò che gli è proprio, ma non di se stesso.
AL. Sembra di sì. [...]
So. Allora, se uno ama il corpo di Alcibiade, non ama Alcibiade, ma qualcosa che gli appartiene.
AL. Vero.
So. Ti ama invece chi ama la tua anima.
AL. Necessariamente, date le premesse.
So. Ma chi ama il tuo corpo, non ti abbandona quando sfiorisce?
AL. Evidente. (d)
So. Chi invece ama la tua anima, non se ne va finché essa avanza sulla via del meglio.
AL. Naturale.
So. Ebbene, io sono quello che non ti abbandona... [...] ( 133b)
So. Ebbene, caro Alcibiade, se l'anima vuole conoscere se stessa, dovrà guardare in se stessa, e soprattutto dove si trova
da I doni dello Spirito, i vizi e le virtù, nel pellegrinaggio alle sette chiese di San Filippo Neri: indicazioni per un cammino verso la Cresima. Breve nota di Andrea Lonardo
Il dono della scienza è la capacità di conoscere e guardare l’altro come Cristo lo guarda.
Nella lussuria noi facciamo dell’altro un oggetto, una nostra proiezione.
Nella castità, invece, lo amiamo realmente. Comprendiamo il valore della castità non appena diventiamo padri di una ragazza: un padre non può tollerare che sua figlia sia solo un oggetto da ciucciare da parte di qualcuno. L’amore guarda l’altro così come lo guarda Dio. La scienza, così, corrobora la virtù e ci insegna a guardare le donne e gli uomini così come Cristo li guardava.
da Porno dipendenze e amore, di Claudio Risé, Io donna 15 febbraio 2014
Ciao Claudio, il mio matrimonio rischia di andare a rotoli. Mio marito quando arriva a casa stanco dal lavoro mangia un boccone, si piazza davanti alla TV e si addormenta. Poi quando si sveglia va su Internet a vedere porno. E’ dispiaciuto, depresso, promette di non farlo, ma a volte si alza di notte, e appena può è lì. Come aiutarlo? Dora
Ciao Claudio, è più forte di me. Appena ho un minuto mi sparo lì su Internet a vedere corpi nudi. Mi sembra che mi rilassi, in realtà mi svuota. Però non riesco a spegnere. Dimmi qualcosa, Gianni
Ciao Dora e Gianni, la potenza della pornografia è proporzionale alla depressione di chi la cerca. Il porno presenta a una persona sola, ferma, depressa, corpi nudi che si incontrano simulando o provando piacere. E’ l’incontro tra il maratoneta e l’handicappato. Però tutte e due le posizioni sono false. Loro non sono (quasi mai) valorosi campioni, ma mestieranti stanchi e bisognosi di denaro. E chi guarda ha gambe, cuore, cervello e sesso per muoversi, ma è inchiodato dalle depressione e dalla passività.
Occorre portare corpo vero, desiderio e piacere carnale e non virtuale nella vita quotidiana. Ciò accade solo quando si vede anche il contenuto divino e spirituale del corpo e della sessualità, non riducibili a pratiche virtuali. La cura della porno dipendenza è l’adorazione-meditazione del corpo e l’estasi d’amore, di cui l’occidentale deve ritrovare l’abitudine, persa da tempo.
6/ L’amore lega il passato, il presente, il futuro
la promessa: la fedeltà è il nome dell’amore nel tempo
da Benedetto XVI, omelia nella celebrazione dei vespri con sacerdoti, religiosi, seminaristi e diaconi nella Chiesa della SS.ma Trindade, Fátima, 12 maggio 2010
La fedeltà nel tempo è il nome dell’amore.
- cfr. i lucchetti nel mondo giovanile e la reazione alla scoperta del tradimento ad ogni età!
- insegnare agli adolescenti a non fare gli “occhi dolci” a tutti/e
7/ La famiglia
Una domanda che è nel cuore dell’uomo (e nell’inconscio): Maestra, ma mio papà, secondo te, mi vuole bene? (Adamo, Eva e la costola)
tzela non vuol dire solo costola, ma anche fianco
da Daniel Lifschitz
«Perché Dio plasmò dalla costola e non dalla testa? Per evitare che la donna dominasse l’uomo. Perché non dal piede? Per evitare che l’uomo la dominasse. Dalla costola, perché avessero pari dignità».
da Pietro Lombardo
“Veniva formata non una dominatrice e neppure una schiava dell’uomo, ma una sua compagna” (Sentenze 3, 18, 3).
cfr. la famiglia all’origine... un omosessuale nasce da un uomo e da una donna, da un ovulo e da uno spermatozoo!
la sedia in D. Fabio Rosini
cocca bella, ma tu come sei nata
non un disprezzo del corpo... dove conti solo la psiche e del corpo fai quello che vuoi
Meravigliatevi! Per un manifesto dei meravigliati, di Fabrice Hadjadj, apparso sul sito printempsfrancais.fr
Non siamo degli indignati. Ciò che ci anima è un sentimento più primitivo, più positivo, più accogliente: si tratta di quella passione che Cartesio considera la prima e la più fondamentale di tutte: l’ammirazione.
Essa è prima perché la si sperimenta di fronte alle cose che ci precedono, che ci sorprendono, che non abbiamo pianificato noi: i gigli dei campi, gli uccelli del cielo, i volti, tutte le primavere… Prima di soddisfarci dell’opera delle nostre mani e della vittoria dei nostri princìpi, ammiriamo questo dato naturale. […]
Che cosa c’è di più stupefacente di questa unione degli esseri più differenti, l’uomo e la donna? E cosa c’è di più sorprendente del loro abbraccio, chiuso sul suo proprio godimento, e che tuttavia si strappa, secondo natura, per permettere l’avvento di un altro, di un’altra differenza ancora: la futura piccola peste, il già disturbante, colui che chiamiamo «il bambino»? [...]
Alcuni ci accusano di essere dei «fascisti» [...] Altri diranno che facciamo quello che facciamo perché siamo dei «cattolici», o degli «ebrei integralisti», o dei «fondamentalisti musulmani»… Ma no, siamo soltanto dei francesi, e più semplicemente ancora sia degli uomini e delle donne, molto lontani da qualsiasi puritanesimo e da qualsiasi fondamentalismo, ci incantano le natiche e non ci repelle l’ammirazione della congiunzione improbabile del «pisello» e della «passerina» e del pancione che ne deriva. Con maggiore precisione ci si potrebbe collocare fra i fautori di un’ecologia integrale. [...]. C’è un’evidente e naturale diseguaglianza fra la coppia formata da un uomo e una donna e quella di due uomini o di due donne.
Per rendere uguali le condizioni, è necessario ricorrere all’artificio, e passare dalla nascita alla fabbricazione, dal “born” al “made”… Dietro la pretesa legalizzazione giuridica, c’è dunque un assoggettamento tecnocratico, e il progetto di produrre persone non come persone, dunque, ma come prodotti, in base ai nostri capricci, secondo la legge della domanda e dell’offerta, in conformità ai desideri fomentati dalla pubblicità: «Un bambino à la carte, la vostra piccola cosa, l’accessorio della vostra autorealizzazione, il terzo compensatorio delle vostre frustrazioni; infine, per una modica somma, il barboncino umano!».
Ecco perché non siamo «omofobi». Siamo meravigliati dai gays veramente gai, dai «folli» senza gabbia, dai saggi dell’inversione. L’amore della differenza sessuale, così fondamentale, con quello della differenza generazionale (genitori/figli), ci insegna ad accogliere tutte le differenze secondarie. Se io, uomo, amo le donne, così estranee al mio sesso, come potrei non avere simpatia, se non amicizia, per gli omosessuali, che mi sono, in definitiva, molto meno estranei?
8/ Non solo la totalità, ma anche la fecondità dell’amore
cfr. Harry Potter e la sua ragazzetta: ha una battaglia da combattere
- un mondo che ha sessualizzato tutto (cfr. Maffesoli, oggi non più homo faber, ma homo eroticus!) cfr. bambini e anziani: ce l’hai il fidanzatino?
- preparare a diventare padri e madri, educare all’amore per la vita
- parlare di Genesi in maniera estremamente concreta: fra 15 anni diventerete madri!
da A. de Saint-Exupéry, Terra degli uomini
Legati ai nostri fratelli da un fine comune e situato fuori di noi, solo allora respiriamo, e l’esperienza ci mostra che amare non significa affatto guardarci l’un l’altro ma guardare insieme nella stessa direzione. Non si è compagni che essendo uniti nella stessa cordata, verso la stessa vetta in cui ci si ritrova...
da G. Maspero – P. O’Callaghan, Creatore perché Padre. Introduzione all’ontologia del dono, Cantagalli, Siena, 2012, pp. 7-9
Un episodio della vita di un famoso fisico-matematico britannico, considerato uno dei fondatori della meccanica quantistica, Paul Dirac (1902-1984), può risultare utile per illustrare l’impostazione del presente libro. Si racconta che egli fosse ovviamente molto abile con i numeri, ma piuttosto impacciato con le parole, per cui, quando nacque il suo primo figlio e dovette inviare un telegramma al suocero per comunicare la bella notizia, scrisse semplicemente il testo 1+1=3. Il paradosso di questa formula è espressivo di uno scarto logico, di un salto che si produce quando entrano in gioco paternità e filiazione. La necessità della somma elementare 1+1=2 viene scardinata dalla libertà di chi può generare: da un pensiero al finito, si passa a pensare a partire da una sorgente.
Uno dei rischi del momento culturale attuale, è intendere la creazione solamente a partire dal limite imposto dalla necessità, cercando di liberarsi da questo vincolo percepito come imposizione. Si dimentica, invece, che la logica più profonda insita nel creato è proprio quella della vita ricevuta e donata, in modo tale che il senso del mondo non è la necessità, ma la libertà del dono.
9/ Il valore dei segni: l’aspetto pubblico dell’amore
da La bottega dell’orefice, di di Andrzej Jawień/Karol Wojtyła
«Le fedi che stanno in vetrina
ci dicono qualcosa con strana fermezza.
Per ora sono solo oggetti di metallo prezioso
ma lo saranno soltanto fin quando
io ne metterò una al dito di Teresa
e lei metterà l'altra al mio.
Da quel momento saranno loro a segnare il nostro destino.
Ci faranno sempre rievocare il passato
come fosse una lezione da ricordare,
ci spalancheranno ogni giorno di nuovo il futuro
allacciandolo con il passato.
E insieme, in ogni momento,
serviranno a unirci invisibilmente
come gli anelli estremi di una catena.
Dunque non siamo entrati subito. Il simbolo prese la parola.
Lo abbiamo capito insieme nello stesso momento.
Guardando le fedi
nuziali ci ha colto una commozione silenziosa.
È questo che ci ha fermato davanti al negozio.
Rimandavamo il momento.
Mi sono accorto solo che Teresa serrò più forte
il mio braccio ... e questo era il nostro oggi:
l'incontro del passato con il futuro.
Ecco noi due spuntati da tanti momenti strani
come dall'abisso di fatti semplici e consueti.
Ecco noi due insieme. Ci uniamo segretamente
grazie a queste due fedi».
Il tempo si sospende dinanzi al segno delle fedi nuziali esposte nella vetrina della bottega dell'orefice.
«Non siamo entrati subito,
ci fermò un pensiero, nato
— lo sapevamo bene — nello stesso momento
in me e in lei».
- un paradosso: nessuno vuole più sposarsi, tranne...
da Manfred Lütz, "Dio". Storia di un libro che diventò un bestseller, in Pontificium Consilium pro Laicis, La domanda di Dio oggi, LEV, Città del Vaticano, 2012, pp. 131-132
Da circa venti anni la televisione tedesca mi invita spesso a partecipare a dei talk-show. In trasmissioni del genere la redazione ha sempre bisogno di un cattolico come guastafeste, perché tutti gli altri possano opporsi a lui. Ciò aumenta generalmente in essi la sensazione di essere molto moderni ed emancipati, senza che del resto si sappia davvero cosa vuol dire cattolico, emancipato e moderno. Ci si sente semplicemente bene così. Più volte ho dunque accettato l'invito ma, per quanto possibile, preparandomi in modo particolare, ho evitato di giocare questo ruolo. Giornalisti esperti mi avevano consigliato di scrivere su di un foglio A4 ciò che volevo dire sul tema, indipendentemente dalle domande. Può sembrare strano, ma in realtà è del tutto logico. Infatti le domande del moderatore sono naturalmente influenzate dai suoi pregiudizi sulla Chiesa cattolica. Indipendentemente dalle mie risposte, agli occhi degli spettatori io confermo tali pregiudizi se solo rispondo. Se invece parlo in base alla mia cattolicità, allora ho la possibilità di convincere.
Per esempio, se il moderatore mi chiede: "La Chiesa è a favore o contraria alla pillola?", e io con la faccia scura rispondo che è contraria, allora ciò conferma semplicemente il pregiudizio del tutto errato che la Chiesa cattolica sia un'istituzione che impedisce la gioia sessuale. E così io davo questa risposta, preparata in anticipo: "Papa Paolo VI e Alice Schwarzer (la femminista tedesca più famosa) dicono quanto segue della pillola: la pillola è una manipolazione della donna. La Chiesa cattolica ha una posizione olistica, ecologica nei confronti della sessualità. Primo, fa parte della sessualità il piacere sessuale, che è cosa buona e bella, come dice anche il papa Giovanni Paolo II''. A questo punto il moderatore spesso chiedeva stupito: "Dove lo dice?". E io rispondevo: "In Amore e responsabilità, pagina 17. Secondo, fa parte della sessualità l'amore personale e, terzo, la vitalità, cioè l'apertura alla possibilità di avere figli. E così come per la birra ci vogliono luppolo, malto e acqua, che separatamente non hanno un buon sapore, ma insieme sono buonissimi, la Chiesa cattolica ritiene che questi tre elementi vadano insieme. E se un uomo ha una donna per il piacere sessuale, una seconda per le poesie d'amore e una terza per avere figli, allora strumentalizza tutte e tre le donne e non ne ama davvero nessuna".
10/ Il compito educativo
- la grande questione: se io lo amo, perché...
- il valore dei no e dei sì
es. genitori e vacanze dei figli da soli
È nobiltà il saper dire dei “no”
Dire dei “no” e dire poi: “puoi tornare pura!”
- insegnare il senso del “mistero”, dell’attesa, insieme alla misericordia ed al non scandalizzarci mai (es. anche dell’aborto)
Nota di Andrea Lonardo
Tiziana Cantone, 31 anni, si è tolta la vita. Vale la pena dire una parola, mentre la ricordiamo e preghiamo per lei.
Il mondo ti permette tutto, ma nel suo moralismo e nel suo voyeurismo ti condanna. La chiesa non ti permette tutto, si oppone a ciò che è male, ma non ti disprezza mai, anzi è lì per rialzarti quando hai la tentazione di farla finita, è lì a dire che chi rivela in pubblico la vita intima di una persona commette un gravissimo peccato.
Non solo i traditori di Tiziana che hanno messo in giro il video e che lo hanno poi divulgato, ma anche i media si gettano come avvoltoi per infangare e mettere alla gogna. Indagare nella privacy e trovare sempre motivi per "fare scandalo" con le notizie, usando il male a fini pubblicitari del proprio quotidiano o del proprio blog, sembra l'attività preferita da un numero nutrito di giornalisti e affini, che si dichiara poi tollerante e aperto, anzi negatore di ogni senso del bene e del male perché ogni discorso etico sarebbe antiquato e reazionario.
Invece, come diceva un maestro di spiritualità: «La Chiesa è intransigente sui principi, perché crede, è tollerante nella pratica, perché ama. I nemici della Chiesa sono invece tolleranti sui principi, perché non credono, ma intransigenti nella pratica, perché non amano. La Chiesa assolve i peccatori, i nemici della Chiesa assolvono i peccati» (R. Garrigou-Lagrange, Dieu, son existence et sa nature, Paris, 1923, p. 725).
O ancora, come affermava G.K. Chesterton: «Il cristianesimo è arrivato anche qui come le altre volte: è arrivato all'improvviso come una spada, e ha diviso il delitto dal delinquente: il delinquente può essere perdonato fino a settanta volte sette; il delitto non deve essere perdonato affatto».
Papa Francesco, Amoris laetitia 281.
L’educazione sessuale offre informazione, ma senza dimenticare che i bambini e i giovani non hanno raggiunto una maturità piena. L’informazione deve arrivare nel momento appropriato e in un modo adatto alla fase che vivono. Non serve riempirli di dati senza lo sviluppo di un senso critico davanti a una invasione di proposte, davanti alla pornografia senza controllo e al sovraccarico di stimoli che possono mutilare la sessualità. I giovani devono potersi rendere conto che sono bombardati da messaggi che non cercano il loro bene e la loro maturità. Occorre aiutarli a riconoscere e a cercare le influenze positive, nel tempo stesso in cui prendono le distanze da tutto ciò che deforma la loro capacità di amare. Ugualmente, dobbiamo accettare che «il bisogno di un nuovo e più adeguato linguaggio si presenta innanzitutto nel momento di introdurre i bambini e gli adolescenti al tema della sessualità».
282. Un’educazione sessuale che custodisca un sano pudore ha un valore immenso, anche se oggi alcuni ritengono che sia una cosa di altri tempi. È una difesa naturale della persona che protegge la propria interiorità ed evita di trasformarsi in un puro oggetto. Senza il pudore, possiamo ridurre l’affetto e la sessualità a ossessioni che ci concentrano solo sulla genitalità, su morbosità che deformano la nostra capacità di amare e su diverse forme di violenza sessuale che ci portano ad essere trattati in modo inumano o a danneggiare gli altri.
283. Frequentemente l’educazione sessuale si concentra sull’invito a “proteggersi”, cercando un “sesso sicuro”. Queste espressioni trasmettono un atteggiamento negativo verso la naturale finalità procreativa della sessualità, come se un eventuale figlio fosse un nemico dal quale doversi proteggere. Così si promuove l’aggressività narcisistica invece dell’accoglienza. È irresponsabile ogni invito agli adolescenti a giocare con i loro corpi e i loro desideri, come se avessero la maturità, i valori, l’impegno reciproco e gli obiettivi propri del matrimonio. Così li si incoraggia allegramente ad utilizzare l’altra persona come oggetto di esperienze per compensare carenze e grandi limiti. È importante invece insegnare un percorso sulle diverse espressioni dell’amore, sulla cura reciproca, sulla tenerezza rispettosa, sulla comunicazione ricca di senso. Tutto questo, infatti, prepara ad un dono di sé integro e generoso che si esprimerà, dopo un impegno pubblico, nell’offerta dei corpi. L’unione sessuale nel matrimonio apparirà così come segno di un impegno totalizzante, arricchito da tutto il cammino precedente.
da A. Tronconi
-La morale sessuale ha una dimensione educativa. Non lotta contro le pulsioni, il desiderio, la fantasia. Invece, le scelte devono essere luogo di educazione per far crescere l'apertura alla vita (la fecondità in senso ampio), la creatività (che non è fatta dai giochetti, ma da un'anima interiore), la capacità di comunicare, l'amore detto con la sessualità. Sono realtà che si costruiscono gradualmente. E' tutto nello sforzo di essere cresciuto, è nell'impegno a crescere come persona. Non esiste una educazione sessuale, esiste una educazione, punto! Non è neanche il problema di sentimenti o di una collocazione matrimoniale. I valori li deve scoprire tutta la persona. Come gli puoi dire: "Per i rapporti aspetta il matrimonio, aspetta ad amare veramente", se quello conosce solo l'amore di coppia cosiddetto se ama in maniera narcisistica, se fa uso narcisistico dell'altro, non conosce il servizio, non sa cos'è l'ascolto, non sa cos'è la dimensione che l'altro esiste? Allora è importante capire che tu educhi scegliendo determinate cose. Una piccola pienezza è il presupposto di una pienezza più grande. Le scelte sono morali non perché c'è il giudizio di Dio, ma perché lì ti giochi la tua crescita. Il problema non è tanto vedere i gesti sessuali come una trasgressione e poi si dice: "Mi è scappato e ti chiedo scusa". La sessualità la aiuti non tanto parlando sempre di sessualità, ma mostrandogli il piacere di crescere come persona. Non stiamo alterando l'uomo. Stiamo seguendo la sua vera traccia. C'è piuttosto una sessualità immatura che va per il suo verso e mi illudo che risolvo parlandogli di volontà. E c'è una sessualità che matura che è, invece, un aiuto per la crescita, per l'amore.
-Il problema della gradualità. E' il problema del confine fra il bene e il male che esiste, certo che esiste! Esso è nella concretezza della persona, non nei libri o nella testa. Devo aver presente il valore, con tutte le sue esigenze, ma adeguato alla persona. Non come strategia, ma come fedeltà al valore che è sempre la persona. Dio non ha dato Gesù Cristo per i valori, ma per la persona. Non c'è nulla al mondo che vale più della persona. Vivo in una situazione concreta che ha dei limiti reali; sono lì per superarli, per superare me stesso. Non nel senso di essere fine a se stessi, ma nel senso di diventare veramente un dono. Devo enunciare le severe esigenze oggettive della morale, cioè non delle regole, ma dell'uomo. Dio pensa all'uomo e sa che è fatto per amare. E' un esigenza grande e ti sarà chiesto sempre di più. Stai morendo e ti sarà chiesto di morire per amore. Non si gioca con le esigenze di Dio, proprio per essere fedeli all'uomo. Il primo bisogno, di quel ragazzo, il più grande è di essere secondo il disegno di Dio.
-La globalità dell'educazione all'amore. L'amore, che è il vero significato e contenuto, non cresce se non cresce la persona. Allora: far crescere la persona, soprattutto nella consapevolezza della libertà. C'è gente che rispetta un codice morale, alla lettera, e non cresce mai! Invece se tu agisci moralmente, tu cresci! Non sei meno uomo o meno donna, ma stai costruendo te stesso. Non serve rispettare qualcosa se non ti viene dal tuo cuore, dalla tua libertà, dal luogo dove dai del "tu" a Dio. Deve essere mio quel valore. Quel poco che è mio vale molto di più del tutto che non è mio! Se qualcuno lo fa perché terrorizzato, addestrato, lì non c'è niente di morale. Dobbiamo chiedere al ragazzino qualcosa che è suo. Detto da lui. Non gente intruppata, preoccupata solo che le cose si dicano e si facciano. Fallo crescere, fallo diventare libero, dagli la consapevolezza, il gusto di essere se stesso, di pensare alla sua vita. Lì è un uomo e non è parlandogli della volontà che lo cambi! E allora, concretamente, che fare? Il problema non è insegnare a gestire bene il corpo. Bisogna insegnare ad amare. Per prima cosa creare un ambiente d'amore, superare le forme di aggressività, di repressione, insegnare la capacità di ascoltare, di accoglienza, di riconoscimento dell'altro e del suo bisogno di servire. Insegnare a risolvere le tensioni comunicando, non con musi e con botte. Si educa alla sessualità, educando alla comunicazione. Educando alla capacità di rinunciare, andando oltre se stessi. Superare ogni ambiente dove il criterio è la contesa, il narcisismo, l'indifferenza. Togliere l'indifferenza fra le persone (gente che vive solo per il proprio bisogno). Questo se abbiamo capito che la sessualità è nella testa. Chi non è aperto agli altri, chi non si accorge degli altri, non vivrà mai bene la propria sessualità. Amare l'altro! Ma guai se lo facessimo come un diversivo per non pensare ai genitali. E', invece, il modo più godereccio per vivere la sessualità. Questo non lo puoi dire agli altri se non ne sei convinto tu! Solo se viviamo in pienezza il nostro essere uomini sono veramente possibili il piacere e la sessualità.
Testi per un ulteriore approfondimento
Sul sito www.gliscritti.it (cercare nel motore di ricerca interno)
-Corso sul matrimonio, di don Achille Tronconi (vedi in particolare il capitolo 11°)
- Per dovere o per piacere? Il ruolo del piacere nella morale cristiana: la proposta educativa di Albert Plé, di Achille Tronconi
- Educare all’amore. Il senso della sessualità (da Roberto Lorenzini)
LA POESIA E L’AMORE GRANDE
Dall’intervento di Massimo Recalcati, Il naufragio educativo: per un'erotica dell'insegnamento, tenuto nel corso del festival Popsophia - Filosofia del Contemporaneo a Pesaro, il 10/7/2015
[L’educazione sessuale nelle scuole] così come concepita è per lo più orribile, si spiegano i corpi come fossero macchine. L’educazione alla sessualità si fa attraverso la letteratura e le poesie, leggendo Dante, Petrarca, Flaubert, Proust, che sono l’unica forma di educazione all’erotismo che può funzionare a scuola. Solo così si può contrastare l’intolleranza e educare a non separare troppo la passione erotica dall’amore, in qualunque forma esso si manifesti.
da Philip Roth, L'animale morente, Einaudi, Torino, 2002, pp. 73-74
L'unica ossessione che vogliono tutti: l'"amore". Cosa crede, la gente, che basti innamorarsi per sentirsi completi? La platonica unione delle anime? Io la penso diversamente. Io credo che tu sia completo prima di cominciare. E l'amore ti spezza. Tu sei intero, e poi ti apri in due.
1/ IlMiguel Mañara di Oscar V. Milosz (articolo di Andrea Lonardo)
«Una sera la lussuria dallo sguardo vile e dalla fronte sfuggente sedette al mio capezzale e mi fissò in silenzio, come si guardano i morti».
Così dichiara Miguel Mañara, confessando di avere fatto sesso con tante donne ma di provare ora solo noia e disprezzo per la propria vuota esistenza. Il Miguel Mañara è una sconvolgente quanto breve opera teatrale pubblicata dallo scrittore lituano Oscar V. Milosz nel 1912[1].
Si ispira ad un personaggio reale, vissuto nel seicento a Siviglia, in Spagna, ma le parole che Milosz gli pone sulle labbra combinano storia vera e rilettura del don Giovanni, figura eterna e sempre cangiante dell’immaginario umano.
L’opera teatrale si divide in sei quadri.
Nel primo quadro la scena si apre durante una cena offerta nel 1656 per festeggiare il compleanno di Miguel Mañara.
Parla per primo don Jaime che irride al cristianesimo, affermando che non gli importa nulla della fede, ma solo del piacere del cibo e del vino:
«È vero che, se Bacco Nostro Signore non mi annebbia il cervello, siamo nel periodo santo della Quaresima. E allora digiunate, per tutti i diavoli, digiunate pure, voi disgraziati, fino a che le vostre ossa di figli di cagna vi buchino la pelle come fossero zanne cariate del vostro cattolico digiuno! Ma, per Maometto, a casa mia ci si deve poter abbuffare e ubriacare come in qualsiasi altro periodo dell’anno»[2].
Don Jaime interroga poi Miguel Mañara sui piaceri del sesso, facendo eco al Catalogo delle donne del Don Giovanni di Mozart:
«Don Jaime: Dimmi, ragazzo, quante duchesse hai sulla coscienza?
Molte voci: Sì, sì! Quante duchesse di corte?
Don Miguel: Sei.
Don Jaime: E quante marchese d’alto rango?
Don Miguel: Sette, otto o nove, se Eros mio Signore non m’inganna.
Don Jaime: E ragazze di nobile famiglia? E giovincelle di borgata?
Don Miguel: Tra sessanta e cento, mi pare. Non ho preso nota di tutte.
Don Jaime: E sgualdrinelle?
Don Miguel: Ne ricordo una che mi amò veramente, e che veramente morì disperata»[3].
Ma ecco che d’improvviso Don Miguel, che ha invocato Eros come suo Signore, spiazza tutti, rivelando che, pur essendo un miscredente, ha perso ormai il piacere. Nella coazione a ripetere sesso e ancora sesso ha perso ogni gusto. Ha perso Satana o, forse, Satana lo ha ormai disgustato. Ha compreso l’inconsistenza di una vita senza senso, tesa a sempre nuove conquiste, una più vuota dell’altra:
«Son lieto, signori, di vedere che mi amate così di buon cuore; e mi commuove davvero l'augurio così cordiale di vedermi bruciare anima e corpo di una fiamma nuova, assai lontano da qui. Vi giuro sul mio onore e sulla testa del vostro Papa che l'inferno di cui cianciate non esiste, che non è mai bruciato altro che nella testa di un Messia folle o di qualche monaco malvagio. Ma noi sappiamo che nello spazio orfano di Dio esistono terre illuminate da una gioia più ardente della nostra, pianeti ignoti e meravigliosi, lontani, infinitamente lontani dal nostro. E allora vi scongiuro, scegliete uno di questi remoti mondi incantati e speditemi laggiù questa notte stessa, attraverso il varco famelico del sepolcro. Perché il tempo scorre lento, signori, spaventosamente lento, e io sono inspiegabilmente stanco di questo schifo di vita. Non conquistare Dio è cosa da niente, si sa; ma vi assicuro che perdere Satana è pena immensa e noia senza fine.
Ho trascinato l'Amore nel piacere, e nel fango, e nella morte; fui traditore, bestemmiatore, carnefice; ho fatto tutto quello che un povero diavolo d'uomo può fare, e guardate: ho perso Satana! Satana mi ha abbandonato. Ora mastico l'erba amara sullo scoglio della noia. Ho servito Venere con ira, poi con malizia, infine con ribrezzo. Oggi la strozzerei sbadigliando. E non lo dico per vanità. Non sto recitando la parte del carnefice senza cuore. Ho sofferto, ho sofferto anch'io. L'angoscia mi ha chiamato con un cenno, la gelosia mi ha parlato sottovoce, la pietà mi ha stretto alla gola. Anzi, è allora che ho provato i meno falsi dei miei piaceri»[4].
E descrive l’esperienza che ha provato una sera, ormai stanco di tante donne incontrate ed ingannate:
«E una sera la lussuria dallo sguardo vile e dalla fronte sfuggente sedette al mio capezzale e mi fissò in silenzio, come si guardano i morti»[5].
Il ricordo di quella sera diventa un grido, si muta in domanda sulla vita, per capire cosa fare del tempo che inesorabilmente passa, mentre il cuore non si accontenta di nessun piacere che sia passeggero:
«Ah, come colmarlo, quest’abisso della vita? Che fare? Perché il desiderio è sempre lì, più saldo, più furibondo che mai. È come un mare di fuoco che alita la sua vampa fino al fondo del nero nulla universale! È un desiderio di abbracciare le infinite possibilità! Ah, signori! Che facciamo qui, noi? Cosa guadagniamo, qui?»[6].
Sentendolo parlare, un amico, Don Fernando, esce allo scoperto ed ha il coraggio di accusarlo del male che ha fatto, ha il coraggio di esporlo alla verità. Nella durezza dell’accusa, Don Fernando si dimostra l’unico che ha a cuore la vita di Miguel Mañara, l’unico che si accorge del dramma che l’amico sta vivendo:
«Potrei darti una tirata d'orecchi, monello; invece mi accontento di ripeterti: sei un vigliacco e un traditore! Perché chiunque faccia soffrire una donna o la inganni è un vigliacco e un traditore. E chiunque desideri la donna d'altri è un vile scellerato. E chiunque rubi all'ultima delle contadinotte il tesoro prezioso della verginità e poi l'abbandoni alla solitudine e al disprezzo, chiunque compia un'azione così è un cane e come un cane deve morire. Tu non sei un gentiluomo, Miguel: tu sei un cane»[7].
Infine si para dinanzi a Don Miguel l’Ombra della sua vita passata che gli dice:
«Guai, guai all’uomo cosciente che, cieco alla bellezza di Dio, consapevolmente preferisce il vuoto della noia ai tormenti della passione e i tormenti della passione al vuoto della noia!»[8].
Nel secondo quadro Don Miguel è nel giardino di Carillo de Mendoza dove conosce la figlia Girolama. La donna è diversa da tutte le donne che Don Miguel ha fin qui incontrate. Quando Miguel Mañara le chiede perché non si faccia ancora più bella ornandosi il capo di fiori la donna esclama:
«Perché non mi piacciono le ragazze che ne fanno un ornamento, come fossero seta o pizzo o piume colorate. Io non metto mai fiori tra i capelli (sono già belli così, grazie a Dio!). I fiori sono begli esseri viventi, e bisogna lasciare che vivano e che respirino l'aria del sole e della luna. Io non colgo mai i fiori. Si può benissimo amare a questo mondo senza aver subito la smania di uccidere il proprio caro amore, o di imprigionarlo tra i vetri, oppure, come si fa con gli uccelli, in una gabbia in cui l'acqua non ha più il gusto dell'acqua e i semi d'estate non hanno più il gusto dei semi»[9].
Quella donna è serena e la sua serena felicità si scontra con l’irrequieta tristezza di Don Miguel:
«Sembrate sorpreso di vedermi così felice. Non biasimatemi se ho l’animo e il cuore sereni: non trascuro nessuno dei miei doveri»[10].
Quando Miguel apre a lei il suo cuore, rivelandole le sue malefatte con tante donne, come le abbia sedotte e poi abbandonate, lei risponde:
«Ma tutte sapevano di fare del male amandovi, e anche solo lasciandosi amare. Perché nessuna di loro aveva ricevuto da voi il giuramento, il grande giuramento per l’eternità, don Miguel; perché nessuna di loro aveva ricevuto da voi l’anello, l’anello che unisce due anime per sempre, don Miguel. Tutte loro sapevano perfettamente quel che facevano: sì, tutte!»[11].
Dinanzi alla semplice bontà della donna, Don Miguel comprende che esiste la possibilità di una vita diversa:
«Che cos’ho fatto della mia vita? Che mai ho fatto del mio cuore? Perché non ho scoperto prima di avere un cuore buono? Mi perdonerete?»[12].
Don Miguel, conquistato dalla donna, infine ottiene il suo assenso al matrimonio. Ma presto Girolama muore e nel terzo quadro si celebra il suo funerale.
Nel quarto quadro Miguel Mañara dialoga con un abate, al Convento de la Caridad, decidendo infine di confessare i suoi peccati a Dio, spinto dal dolore per la morte di Girolama:
«Non ho lavorato i sei giorni della settimana. Niente, ho fatto. E la domenica il mio lavoro è stato bestemmiare e sputare contro la terra e contro Dio.
Non ho onorato il padre e la madre. Mio padre mi ha maledetto, mia madre è morta di crepacuore.
Ho mentito. Mille volte ho detto «ti amo», mentre tutto il mio essere rideva di un riso malvagio. E il mentitore può ritrattare le sue menzogne; io, io come posso rimangiarmi le mie?
Ho rubato. Ho violato l'innocenza. Ma il peccatore pentito può restituire il maltolto; io invece, io non posso rendere nulla.
Ho ucciso. E le mie vittime stanno di fronte a Dio nere del mio peccato e sporche della loro lussuria, che poi è ancora la mia.
Ho desiderato la dimora del mio prossimo, ho appiccato il fuoco della mia concupiscenza alla casa del mio prossimo. Ed è una casa che non si ricostruisce con i soldi.
Io ho fatto tutto questo. Ho fatto tutto questo, padre.
Pausa.
E a questo punto a una svolta della mia strada sciagurata è comparsa una donna. Era serena come l'acqua che sogna, bella come il miele che riluce, innocente come un bimbo che sorride. È lei che mi ha parlato di Dio e mi ha insegnato a pregare. La sera io ripetevo come un bimbo le parole delle sue preghiere. Il suo nome è Girolama, padre. Girolama Carillo Mendoza è il nome di mia moglie, padre»[13].
Don Miguel vorrebbe rinchiudersi in convento, ma l’abate lo frena:
«L'amore e la precipitazione si fanno cattiva compagnia, Mañara. La misura dell'amore è la pazienza. Con un passo uguale e sicuro, ecco come cammina l'amore, sia che proceda fra due siepi di gelsomino al braccio di una ragazza, sia che avanzi da solo tra due file ordinate di tombe. Pazienza. Voi non siete venuto qui, signore, per tormentarvi. La vita è lunga, qui. Occorrono un'infanzia e un'educazione, una giovinezza e un insegnamento, una maturità curiosa del giusto peso delle cose e una lenta vecchiaia innamorata della tomba. Con che prudenza dobbiamo muoverei allora!»[14].
Nel quinto quadro Miguel Mañara si è fatto frate per servire i poveri. Ha ormai deciso di vivere nel Convento de la Caridad come fratello, servendo Dio e i poveri.
Nel sesto quadro giunge la morte. Uno Sconosciuto, che si rivela essere poi lo Spirito della Terra, gli rivela non solo che la sua vita è giunta al termine, ma lo tenta un’ultima volta, affermando che tutto è illusione:
«Fermati. Il gioco è durato anche troppo. Ogni cosa ha fatto il suo tempo. Non andremo più a portare quel pane ai bambini, né quella ciotola nuova a Pablo Perez, il nostro bel violinista cieco. Ogni cosa ha fatto il suo tempo, Mañara. C'è un tempo per la giovinezza e uno per la vecchiaia. Poi viene la morte. Così parla lo Spirito della Terra.
Lo Spirito: lo sono colui che è. Sono il cuore della Terra. Tutto il resto è illusione. Come il bel ladro stringe fra le braccia la prostituta sperduta, così io stringo al petto la calda terra»[15].
Miguel resiste però al vuoto che ancora una volta gli viene proposto dallo Spirito della terra e, sentendosi morire, inizia a pregare con i Salmi.
E quando lo Spirito del Cielo lo chiama, egli semplicemente gli risponde:
«Eccomi»[16].
E quando il frate giardiniere lo trova morto in terra esclama:
«Ora sono in mezzo ai vivi come il ramo nudo il cui rumore secco incute timore al vento della sera. Ma il mio cuore è gioioso come il nido che ricorda e come la terra che spera sotto la neve. Perché io so che tutto è dove deve essere e va dove deve andare: al luogo assegnato da una sapienza che (il Cielo ne sia lodato!) non è la nostra»[17].
2/ Antoine deSaint-Exupéry (da un articolo di Andrea Lonardo)
Guillaumet e Saint-Exupéry caduti sulle Ande e nel deserto: dinanzi alla morte, la scoperta della responsabilità
Saint-Exupéry si trovò, nella sua storia di aviatore, più di una volta a faccia a faccia con la morte. Ma il racconto dell'aviatore caduto nel deserto nei primi capitoli del Piccolo Principe è la trascrizione letteraria autobiografica che trae origine dall'incidente che lo fece precipitare nel deserto libico il 29 dicembre 1935, durante il tentativo di battere il record di volo lungo la tratta Parigi-Saigon. Possiamo leggere il resoconto completo nel volume di Saint-Exupéry Terra degli uomini. In questo straordinario testo, leggiamo, prima il racconto di un altro pilota, amico dell'autore del Piccolo Principe, l'aviatore Guillaumet. I due episodi si illuminano a vicenda nel dischiudere la riflessione che sarà filo conduttore di tutte le opere dell'autore francese.
Guillaumet, pilota a quel tempo dell'Aeroposta Argentina, compagnia incaricata del servizio postale, cade, nell'inverno 1930, il 13 giugno (le stagioni sono invertite rispetto al nostro emisfero), sulle Ande, durante il tragitto da Santiago a Buenos Aires. Per sei giorni gli unici due aerei a disposizione nel piccolo aeroporto di Mendoza si levano incessantemente alla sua ricerca. Uno di essi è pilotato da Saint-Exupèry. Quando le speranze sono ormai perse, improvvisa la notizia che Guillaumet è vivo. Saint-Exupéry si leva in volo e riconosce dall'alto la macchina che lo sta conducendo sano e salvo. Atterra sulla strada e lo conduce in volo a Mendoza. A sera Guillaumet racconta la sua avventura. Ecco le parole di Terra degli uomini che la riferiscono:
Pugile vincente, ma segnato dai duri colpi ricevuti, rivivevi la tua strana avventura. Te ne sgravavi a brandelli. E nel corso del tuo racconto notturno, io ti scorgevo, in cammino, senza piccozza, senza corde, senza viveri, mentre scalavi valichi di quattromilacinquecento metri o avanzavi lungo pareti verticali, con piedi, ginocchia e mani sanguinanti, a quaranta gradi sotto zero.
Svuotato a poco a poco di sangue, di forze, di ragione, procedevi con una cocciutaggine da formica, tornando sui tuoi passi per aggirare l'ostacolo, rimettendoti in piedi dopo i capitomboli, o risalendo le discese che portavano solo a un abisso, senza concederti, insomma, alcun riposo, poiché dal letto di neve non ti saresti rialzato.
Quando scivolavi, infatti, dovevi affrettarti a rimetterti in piedi, per non essere tramutato in pietra. Il freddo ti pietrificava d'istante in istante, e un attimo di riposo in più assaporato dopo una caduta ti costringeva a far funzionare muscoli inerti, per rialzarti.
Resistevi alle tentazioni. “Nella neve”, mi dicesti, “si perde totalmente l'istinto di conservazione. Dopo due, tre, quattro giorni che si cammina, non si desidera più altro che il sonno. Lo desideravo. Ma mi dicevo: mia moglie, se mi crede vivo, mi crede in cammino; i compagni mi credono in cammino; hanno fiducia in me, tutti quanti; e se non cammino sono un mascalzone.”
E camminavi. E, con la punta del temperino, allargavi ogni giorno un po' più lo sdrucio delle scarpe affinché i tuoi piedi, che gelavano e si gonfiavano, ci potessero stare...
Una volta, però, steso bocconi nella neve dopo una caduta, rinunciasti a rialzarti. Eri come il pugile che, svuotato ad un tratto d'ogni passione, ode i secondi cadere in un mondo estraneo, ad uno ad uno, fino al decimo ch'è senza appello.
“Ho fatto ciò che potevo e non ho speranze, perché ostinarmi in questo martirio?”. Non avevi che da chiudere gli occhi e la pace sarebbe scesa sull'universo. Rocce, ghiacci e nevi si sarebbero cancellati. Appena chiuse quelle palpebre miracolose, niente più colpi, cadute, strappi muscolari, ustioni del gelo, né quel peso di dover trascinare la vita, quando si è costretti ad andare avanti come un bue ed essa diventa più pesante di un carro. Ne sentivi già il sapore, di quel freddo divenuto veleno e che, simile alla morfina, ti colmava ora di beatitudine...
I rimorsi sorsero dal sottofondo della coscienza. Certi particolari precisi si mescolarono improvvisamente al sogno. “Pensavo a mia moglie. La mia polizza di assicurazione le avrebbe risparmiato la miseria. Sì, ma le assicurazioni...”
In caso di scomparsa, c'è una mora di quattro anni per la morte legale. Questo particolare ti si presentò abbagliante, cancellando le altre immagini. Ora, tu eri steso bocconi su un ripido pendio di neve. Il tuo corpo, col sopraggiungere dell'estate, sarebbe rotolato assieme alla fanghiglia verso uno dei mille crepacci delle Ande. Lo sapevi. Ma sapevi pure che una roccia emergeva, davanti a te, a cinquanta metri: “Ho pensato: se mi rialzo, forse posso raggiungerla: e, se addosso il mio corpo contro la pietra, in estate lo ritroveranno”.
Una volta in piedi, camminasti per due notti e tre giorni...
“La salvezza sta nel fare un passo. Ancora uno. Il passo è sempre quello, ripetuto...”
“Ti giuro, non c'è bestia che sarebbe mai riuscita a fare quel che ho fatto”. Questa frase, la più nobile ch'io conosca, questa frase, che dà all'uomo il suo posto, che lo onora, che ristabilisce le vere gerarchie, mi tornava in mente...
Finivi coll'addormentarti in un sonno affannoso, nella camera di Mendoza in cui ti vegliavo. Ed io pensavo: Guillaumet farebbe un'alzata di spalle, a parlargli del suo coraggio; ma lo si tradirebbe anche celebrando la sua modestia. Egli sta molto più in là di questa virtù mediocre. Alza le spalle, ma per saggezza. Sa che gli uomini non hanno più paura delle cose, una volta che sono accadute e li hanno tirati in ballo. Solo l'ignoto spaventa gli uomini. Ma, per chiunque, cessa di essere ignoto, nell'attimo in cui egli l'affronta. Specialmente se lo considera con tale lucida serietà. Il coraggio di Guillaumet è conseguenza, in primo luogo, della sua rettitudine.
La sua virtù vera non è in questo. La sua grandezza è di sentirsi responsabile. Responsabile di se stesso, del corriere. E dei compagni che sperano, poiché la loro gioia o il loro dolore sono nelle sue mani. Si sente responsabile nei confronti di quanto si va edificando di nuovo laggiù, nel mondo dei vivi, avendo egli il dovere di prendervi parte; e, nei limiti del suo lavoro, si sente un poco responsabile del destino degli uomini.
Appartiene al novero di quegli esseri d'ampia levatura che consentono a coprire col loro fogliame ampi orizzonti. Essere uomo significa appunto essere responsabile. Significa provare vergogna in presenza d'una miserie che pur non sembra dipendere da noi. Esser fieri d'una vittoria conseguita dai compagni. Sentire che, posando la propria pietra, si contribuisce a costruire il mondo.
Si vuol confondere uomini simili con i toreri o i giocatori. Si loda il loro disprezzo della morte. Ma del disprezzo della morte non so che farmene. Se esso non ha radice in una responsabilità consapevolmente accettata, è indice unicamente di povertà o d'eccesso giovanile. Ho conosciuto un giovane suicida. Fu spinto, da non so più qual pena d'amore, a spararsi con cura una pallottola nel cuore. S'era infilato un paio di guanti bianchi, e non so a qual tentazione letteraria avesse ceduto; ma ricordo d'aver provato, di fronte a quella triste esibizione, un'impressione non di nobiltà ma di miseria. Dietro quel viso simpatico, sotto quel cranio d'uomo, non c'era stato dunque niente, proprio un ben niente. Tranne l'immagine di non so qual sciocchina simile ad altre.
Solo dell'uomo è la responsabilità. Nessun animale la conosce. Non per salvare se stesso, Guillaumet ha camminato, ma per la responsabilità che lo legava alle persone con le quali aveva intessuto le relazioni della sua vita. Il piccolo principe ricorderà le parole della volpe: “Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato” [4] .
Quando nel 1935, Saint-Exupéry cadrà nel deserto, insieme al navigatore Prévot, la memoria della salvezza di Guillaumet sarà il motivo che li porterà in salvo. Sia perché, seguendo un sentimento non razionale, porterà l'autore francese ad incamminarsi infine nella stessa direzione geografica che aveva portato alla salvezza l'amico Guillaumet, sia perché sarà incentivo alla tenacia nella decisione di camminare ancora, fino all'ultima possibilità, poiché si deve “salvare” chi li sta cercando..
Ecco di seguito il racconto:
Che si sia vivi è inspiegabile. Tenendo in mano la torcia elettrica ripercorro la traccia lasciata sul suolo dall'aeroplano. Lungo tutto il suo percorso ha disseminato la sabbia di ferraglie contorte e pezzi di lamiera; ne troviamo fino a duecentocinquanta metri dal punto in cui si è fermato. Vedremo poi, quando farà giorno, che abbiamo investito quasi tangenzialmente un dolce pendio in cima a un tavoliere deserto. Nel punto dell'urto lo scavo del terreno sembra fatto da un vomere d'aratro. L'apparecchio, senza cappottare, è avanzato sul ventre con una furia e dei movimenti di coda da rettile. Ha strisciato a duecentosettanta chilometri all'ora. Dobbiamo la vita, senza dubbio, a queste pietre nere e rotonde che rotolano liberamente sulla sabbia e che hanno fatto da cuscinetto a sfere...
Valuto dunque la mia posizione entro un quadrato di quattrocento chilometri di lato.
Prévot viene a sedersi accanto a me, e mi dice: “Che cosa straordinaria, esser vivi...”
Non gli rispondo niente e non provo nessuna gioia. Mi si è presentato un certo pensierino, che va facendosi strada nel mio cervello e già mi rode leggermente. Chiedo a Prévot di accendere la sua lampada, per fare da punto di riferimento, e mi allontano, dritto davanti a me, con la torcia elettrica in mano. Guardo il suolo con attenzione. Avanzo lentamente, compio un ampio semicerchio, cambio più volte l'orientamento. Continuo a scrutare in terra come se cercassi un anello smarrito. Allo stesso modo, poco fa, cercavo la brace. Avanzo sempre, nell'oscurità, chino sul disco bianco che faccio scorrere qua e là. Proprio così...proprio così...Risalgo a passo lento verso l'aereo. Mi siedo accanto alla cabina e medito. Cercavo un motivo di speranza, e non l'ho trovato. Cercavo un cenno offerto dalla vita, e la vita non mi ha fatto cenno.
- Prévot, non ho veduto un solo filo d'erba...
Prévot rimane zitto, non so se mi ha capito. Ne riparleremo al levarsi del sipario, quando farà giorno. Io provo solo una grande spossatezza; penso: “Più o meno a quattrocento chilometri, in deserto...”. Improvvisamente salto in piedi:
- L'acqua!
I serbatoi del carburante, i serbatoi dell'olio sono sfondati. Così pure le nostre riserve d'acqua. La sabbia ha bevuto tutto. Ritroviamo un mezzo litro di caffè in fondo a un termos in frantumi, un quarto di litro di vino bianco in fondo a un altro. Filtriamo questi liquidi e li mescoliamo insieme. Ritroviamo anche un po' d'uva, e un'arancia. Ma io calcolo: “In cinque ore di marcia, nel deserto, sotto il sole, tutto ciò è bell'e finito...”.
Ci sistemiamo nella cabina ad aspettare l'alba. Mi stendo, sto per addormentarmi. Nel prender sonno traccio il bilancio della nostra disavventura: non sappiamo un bel niente della nostra posizione. Non abbiamo neanche un litro di liquido. Se siamo all'incirca sulla linea retta, ci ritroveranno entro otto giorni, né possiamo sperare di meglio, e sarà troppo tardi. Se siamo andati in deriva lateralmente, ci ritroveranno tra sei mesi. Non è il caso di fare assegnamento sugli aerei: ci cercheranno su tremila chilometri.
- Ah, che peccato!... – mi dice Prévot.
- Perché?
- C'era un'ottima possibilità di farla finita in un colpo solo!...
Ma non bisogna essere così solleciti nell'abdicare. Prévot ed io ci riprendiamo. Non bisogna sprecare l'eventualità di un miracoloso salvataggio dalle vie dell'aria, per quanto labile essa sia. Né bisogna restar fermi sul posto, mancando magari un'oasi vicina. Oggi cammineremo, tutto il giorno. E torneremo al nostro apparecchio. E prima di partire faremo un'iscrizione a grandi lettere maiuscole, sulla sabbia, col nostro programma.
Mi sono dunque raggomitolato, preparandomi a dormire fino all'alba, e sono felicissimo di addormentarmi. La stanchezza mi avvolge in una presenza molteplice. Non sono solo nel deserto, il mio dormiveglia è popolato di voci, di ricordi e di confidenze sussurrate. Non ho ancora sete, mi sento bene, mi affido al sonno quasi alla ventura. La realtà recede dinanzi al sogno... Ah, fu molto diverso, quando si fece giorno!
Io ho amato il Sahara. Ho trascorso nottate in terra ribelle. Al risveglio mi sono trovato nella distesa bionda in cui il vento ha impresso la sua onda lunga, come sul mare. Là ho atteso i soccorsi dormendo sotto la mia ala, ma era stata tutt'altra cosa.
Ora camminiamo sul versante di colline falcate. Il suolo è composto di una sabbia interamente ricoperta d'un solo strato di ciottoli brillanti e neri. Si direbbero scaglie di metallo, e tutte le cupole che abbiamo intorno brillano a guisa di armature. Siamo caduti in un mondo minerale. Siamo imprigionati in un paesaggio di ferro.
Valicato il primo crinale, più innanzi se ne annuncia un altro uguale, brillante e nero. Noi camminiamo raschiando con i piedi la terra per tracciarvi un filo conduttore che ci servirà a tornare sui nostri passi in seguito. Avanziamo col sole in faccia. Il fatto di aver deciso di dirigere dritto per est è contrario ad ogni logica, poiché tutto, previsioni meteorologiche, tempo di volo, mi spinge a credere di avere oltrepassato il Nilo. Ma, avendo abbozzato un tentativo verso ovest, ho sentito un disagio che non sono riuscito a spiegarmi. Perciò ho rinviato l'ovest a domani. E per il momento ho rinunciato al nord, benché conduca al mare. Anche tre giorni dopo, quando in un semidelirio decideremo di abbandonare l'apparecchio e camminare dritto innanzi a noi fino a cadere, ci avvieremo ad est. Più esattamente, ad est-nord-est. Ed anche questo sarà in contrasto con ogni ragionevolezza, con ogni speranza. Ma, tratti in salvo, scopriremo che nessun'altra direzione ci avrebbe riportato tra i vivi, poiché verso nord, troppo sfiniti, non avremmo comunque raggiunto il mare. Per quanto assurdo ciò possa apparire, oggi mi sembra che, in assenza di una qualsiasi indicazione che potesse influire sulla nostra scelta, io ho scelto tale direzione per l'unico motivo ch'era quella che aveva salvato il mio amico Guillaumet nelle Ande, dove l'avevo tanto cercato. Oscuramente, era divenuta per me la direzione della vita.
Dopo cinque ore di marcia, il paesaggio cambia. Un fiume di sabbia sembra scorrere in una valle e noi prendiamo lungo quel fondo di valle. Camminiamo a grandi passi, occorre arrivare più lontano che si può e ritornare prima di notte, se non si è scoperto nulla...
Ci siamo coricati accanto all'aeroplano. Abbiamo percorso più di sessanta chilometri. Abbiamo esaurito i nostri liquidi. Ad est non abbiamo avvistato niente e nessun compagno ha sorvolato questa zona. Quanto tempo resisteremo? Abbiamo già tanta sete...
Abbiamo costruito un grande rogo servendoci di qualche rottame dell'ala frantumata. Abbiamo preparato la benzina e le lastre di magnesio che producono un crudo splendore bianco. Abbiamo atteso che la notte fosse completamente nera prima di appiccare il nostro incendio...Ma dove sono, gli uomini?
Ora la fiamma sale. Religiosamente, guardiamo ardere il nostro fanale nel deserto. Guardiamo risplendere nella notte il nostro messaggio splendente e silenzioso. Ed io penso che se esso porta con sé un appello già patetico, porta anche con sé molto amore. Chiediamo da bere, ma chiediamo anche di comunicare. Si accenda un altro fuoco nella notte, poiché solo gli uomini hanno a disposizione il fuoco; ci rispondano!
Rivedo gli occhi di mia moglie. Non potrò vedere nulla che sia più di quegli occhi. Interrogano. Rivedo gli occhi di tutti coloro che, forse, hanno affetto per me. E quegli occhi interrogano. Tutta un'adunata di sguardi mi rimprovera il mio silenzio. Io rispondo! Io rispondo! Io rispondo con tutte le mie forze, non posso lanciare, nella notte, una fiamma più splendente!
Ho fatto quel che ho potuto. Abbiamo fatto quel che abbiamo potuto: quasi sessanta chilometri senza bere. Adesso non berremo più. E' colpa nostra se non possiamo aspettare molto a lungo? Come saremmo rimasti qui, da bravi, a poppare le nostre fiasche! Ma nell'attimo stesso in cui ho aspirato il fondo del bicchiere di stagno, un orologio si è messo in movimento. Nell'attimo stesso in cui ho succhiato l'ultima goccia, ho cominciato a discendere una china. Che ci posso fare se il tempo mi porta via con sé come un fiume? Prévot piange. Gli batto sulla spalla. Gli dico, per consolarlo:
- Se si è fregati, si è fregati...
Mi risponde:
- Se lei crede che io pianga per me...
E ho già scoperto, s'intende, questo assioma. Nulla è intollerabile. Imparerò domani, e dopodomani, che nulla, in definitiva, è intollerabile. Credo solo in parte alla tortura. E' una riflessione che mi si è già presentata. Un giorno credetti di annegare, imprigionato in una cabina, e non ho sofferto molto. Ho creduto talvolta di spaccarmi la faccia, e non mi è sembrato che fosse un avvenimento considerevole. Anche qui, non conoscerò affatto l'angoscia. Domani imparerò, in proposito, cose ancora più strane. E lo sa Iddio se, nonostante quel gran fuoco che ho acceso, ho rinunciato a farmi udire dagli uomini!...
“Se crede che io pianga per me...” Sì, sì, questo è intollerabile. Ogni volta che rivedo quegli occhi in attesa mi sento bruciare. Mi assale la voglia improvvisa di alzarmi e mettermi a correre, dritto dinanzi a me. Laggiù qualcuno grida aiuto, sta naufragando!
Questo capovolgimento delle parti è strano, ma ho sempre pensato che le cose stessero così. Tuttavia doveva esserci Prévot per rendermene completamente sicuro. Ebbene, anche Prévot non conoscerà affatto quell'angoscia di fronte alla morte, di cui tutti ci rintronano le orecchie; però esiste una cosa ch'egli non sopporta, ed io neppure.
Ah, accetto senz'altro di addormentarmi, di addormentarmi per una notte o per secoli. Se mi addormento non conosco la differenza. E poi, che pace! Ma quelle grida che verranno lanciate, laggiù, quelle grandi esplosioni di disperazione... non ne sopporto l'immagine. Non posso incrociare le braccia di fronte a quei naufraghi! Ogni minuto secondo di silenzio uccide un poco coloro ch'io amo. Ed una gran rabbia si fa strada in me: perché queste catene che m'impediscono di arrivare in tempo a soccorrere quelli che vanno a fondo? Perché il nostro incendio non porta il nostro grido in capo al mondo? Aspettate!... Arriviamo!... Arriviamo!... Siamo i salvatori!... [6]
Allora sbrighiamoci. Fa giorno. In cammino! Fuggiremo da questo pianoro maledetto e cammineremo a grandi passi in linea retta fino a cadere. Seguo l'esempio di Guillaumet nelle Ande: da ieri penso moltissimo a lui. Infrango la consegna categorica di rimanere accanto al relitto. Non verranno più a cercarci qui. Ancora una volta scopriamo che non siamo noi i naufraghi, bensì quelli che aspettano. Coloro che sono minacciati, dal nostro silenzio, già straziati da un atroce terrore. Non si può non correre verso di loro. Anche Guillaumet, tornando dalle Ande, mi ha raccontato che correva verso i naufraghi! Si tratta di una verità universale. – Se fossi solo al mondo, - mi dice Prévot, - mi coricherei.
E camminiamo in linea retta verso est-nord-est. Se siamo già al di là del Nilo, ad ogni passo penetriamo più profondamente nello spessore del deserto d'Arabia...
O voi che ho amato, addio. Non è affatto colpa mia se il corpo umano non può resistere tre giorni senza bere. Non credevo di essere così prigioniero delle fonti. Non sospettavo un'autonomia così corta. Si crede che l'uomo possa marciare dritto innanzi a sé. Si crede che l'uomo sia libero... Non si vede la corda che lo lega al pozzo, che lo lega come un cordone ombelicale al ventre della terra. Se egli fa un passo di più, muore...
E quando, allo stremo delle forze, dopo aver camminato forse per 200 chilometri, incontrano una carovana di beduini che li salva:
All'arabo è bastato guardarci. Ha premuto, con le mani, sulle nostre spalle e gli abbiamo obbedito. Ci siamo sdraiati. Qui non esistono più né razze, né lingue, né divisioni... C'è questo nomade povero che ha posato sulle nostre spalle delle mani da arcangelo. Abbiamo atteso, con la fronte nella sabbia. E adesso beviamo, bocconi, con la testa nel catino, come vitelli. Il beduino se ne preoccupa e ci costringe continuamente a interromperci. Ma appena ci molla torniamo a tuffare l'intero viso nell'acqua. L'acqua! Non hai sapore, acqua, né colore, né aroma, non ti si può definire, ti si assapora senza conoscerti. Non sei necessaria alla vita: sei la vita stessa. Ci impregni di un piacere che non si spiega solo con i sensi. Con te, rientrano in noi tutte le facoltà alle quali avevamo già rinunciato. Grazie a te si riaprono in noi tutte le fonti inaridite del nostro cuore.
Sei la massima ricchezza che esista al mondo, e sei anche la più delicata, tu così pura nel ventre della terra. Si può morire su una sorgente d'acqua magnesiaca. Si può morire a due passi da un lago d'acqua salata. Si può morire nonostante due litri di rugiada in cui siano, in sospensione, alcuni sali. Tu non accetti la mescolanza, non tolleri l'alterazione, sei una divinità ombrosa... Ma diffondi in noi una felicità infinitamente semplice. Quanto a te che ci salvi, beduino di Libia, ti cancellerai tuttavia per sempre dalla mia memoria. Non ricorderò mai il tuo volto. Sei l'Uomo, e mi appari col volto di tutti gli uomini insieme. Non ci hai nemmeno guardati in faccia e ci hai già riconosciuti. Sei il fratello beneamato. E, a mia volta, ti riconoscerò in tutti gli uomini. Mi appari illuminato di nobiltà e di benevolenza, gran signore che hai il potere di dare da bere. In te, tutti i miei amici e i miei nemici camminano verso di me, e non ho più un solo nemico al mondo.
La rosa ed i roseti
L'immagine della rosa non appare la prima volta con Il piccolo principe, ma accompagna l'intera opera di Saint-Exupèry. La troviamo già in Terra degli uomini, ma soprattutto l'ultimo brano di Cittadella, quasi a conchiudere tutta l'opera di Saint-Exupéry, la riprende in un testo che vive di una commozione straordinaria. Il re della Cittadella riassume tutto il suo insegnamento nella tenerezza di due giardinieri che si sono amati nell'essere ognuno fedele al proprio compito, all'amore per la bellezza dei roseti che erano stati loro affidati [7] :
Ho conosciuto un vecchio giardiniere che mi parlava del suo amico. Erano entrambi vissuti a lungo come fratelli prima che la vita li separasse, bevendo il tè serale insieme, celebrando le medesime feste, e cercandosi l'un l'altro per chiedersi qualche consiglio o per farsi delle confidenze. Evidentemente avevano ben poco da dirsi e tuttavia, terminato il lavoro, li si vedeva passeggiare insieme ed osservare in silenzio i fiori, i giardini, il cielo e gli alberi. Ma se uno di essi scuoteva il capo tastando col dito qualche pianta, l'altro si chinava a sua volta e scoprendo le tracce dei bruchi, scuoteva il capo anche lui. E i fiori sbocciati procuravano a entrambi la stessa gioia. Ora avvenne che un mercante, avendo assunto uno di essi, lo aggregò per qualche settimana alla propria carovana. Ma i predoni di carovane, poi le vicende della vita, e le guerre tra gli imperi, e le tempeste, e i naufragi, e le disavventure, e i lutti, e i mestieri per vivere sballottarono costui per molti anni come una botte sul mare, respingendolo di giardino in giardino fino ai confini del mondo.
Or ecco che un giorno il mio giardiniere, dopo una vecchiaia di silenzio, ricevette una lettera dal suo amico. Dio solo sa quanti anni avesse navigato. Dio solo sa quali diligenze, quali cavalieri, quali navi, quali carovane l'avessero di volta in volta istradata fino al suo giardino. E quella mattina, siccome era raggiante di felicità e la voleva condividere con qualcuno, mi pregò di leggere, così come si prega di leggere una poesia, la lettera che aveva ricevuto. E spiava sul mio viso l'emozione che mi procurava la lettura. Evidentemente non si trattava che di qualche parola poiché i due giardinieri erano più abili nel maneggiar la vanga che la penna. Lessi semplicemente: “Questa mattina ho potato i miei roseti...”. Poi meditando sull'essenziale, che mi pareva informulabile, scossi il capo come avrebbero fatto loro.
Ecco dunque che il mio giardiniere non ebbe più pace. L'avresti potuto sentire che s'informava sulla geografia, la navigazione, i corrieri, le carovane e le guerre tra gli imperi. E tre anni più tardi dovetti per caso spedire un messaggero dall'altra parte della terra. Feci perciò chiamare il giardiniere: “Puoi scrivere al tuo amico”, gli dissi. I miei alberi ne soffersero un poco e così pure gli ortaggi nell'orto, e i bruchi regnarono indisturbati, poiché egli passava le giornate tappato in casa a scarabocchiare, a cancellare, a ricominciare il lavoro da capo, sudando come uno scolaretto sul suo compito, perché sentiva qualcosa d'urgente da dire e doveva trasportare tutto se stesso, con la propria verità, dal suo amico. Doveva costruire la propria passerella sull'abisso raggiungere l'altra parte di sé attraverso lo spazio e il tempo. Doveva dire il suo amore. Arrossendo, venne a sottopormi la sua risposta per spiare anche questa volta sul mio volto il riflesso della gioia che avrebbe illuminato il volto del destinatario e per provare così su me il potere delle sue confidenze. E (poiché effettivamente non v'era nulla di più importante da far sapere, giacché per lui si trattava di un bene col quale barattare se stesso, alla maniera delle vecchie che si consumano gli occhi sui ricami per infiorare il loro dio) io lessi che confidava all'amico, con la sua scrittura forzata e maldestra, come una preghiera fervente ma espressa con parole semplici: “Anch'io questa mattina ho potato i miei roseti...”. E letto questo tacqui, meditando sull'essenziale che cominciava ad apparirmi più chiaro, perché essi senza saperlo ti celebravano, o Signore, unendosi in te al di sopra dei roseti.
La tesi di Saint-Exupéry, monito radicato nella sua comprensione della vita, è che la relazione abbia sempre una triplice polarità. Mai l'amore consiste semplicemente nello scegliersi l'un l'altro. Esso piuttosto vive di una fecondità condivisa, di un dono che supera l'incontro di due vite. Troviamo in Terra degli uomini questa affermazione semplice ed incisiva che lo testimonia:
Legati ai nostri fratelli da un fine comune e situato fuori di noi, solo allora respiriamo, e l'esperienza ci mostra che amare non significa affatto guardarci l'un l'altro ma guardare insieme nella stessa direzione. Non si è compagni che essendo uniti nella stessa cordata, verso la stessa vetta in cui ci si ritrova...
Tu muori se muoiono le tue divinità, poiché tu vivi di esse
Questo è il luogo, nel pensiero di Saint-Exupéry, per la domanda di senso del vivere, per la ricerca che non esitiamo a definire religiosa. Il re di Cittadella sa che il suo compito non è tanto sfamare un popolo, dare sicurezza o sviluppo economico. Egli è posto a reggere la tensione verso il motivo del vivere che abbracci tutti i suoi sudditi e tutti i momenti del loro vivere.
L'uomo non può trattenere la sua vita. La può solo donare. Ma, perché ciò sia possibile, è necessario un motivo per il quale valga la pena dare la propria vita.
3/ Alessandro Manzoni, I promessi sposi
Il gruppo proverà a ricostruire il testo e a riflettere su ciò che del romanzo può appassionare, senza avere il testo dinanzi. Papa Francesco ricorda che è il miglior libro per il cammino dei fidanzati e lo ha sempre sul comodino
4/ G.K. Chesterton, Lettere alla fidanzata e poi moglie
Dalla lettera scritta in terza persona per il fidanzamento con Frances Blogg
Roseberry Villas
Mia cara,
Gilbert Keith Chesterton è nato a Campden Hill nel quartiere di Kensington, da genitori agiati, ma onesti ed è stato battezzato nella chiesa di S. Giorgio […] dei primi anni di vita di questo uomo fuori dal comune rimangono poche tracce […]. La sola cosa interessante degli anni della scuola è che aveva l’involontaria abitudine di ricevere premi francesi. Gli unici che non ha mai cercato di ottenere e gli unici che ha ricevuto. Ma nonostante la cosa fosse alquanto misteriosa ai suoi occhi e anche se si mise d’impegno per evitarlo, la cosa andò avanti, facendo evidentemente parte di occulte leggi naturali. Un giorno incontrò un curioso giovane, svelto, ben pettinato. Appena si videro, i due si scontrarono simultaneamente e iniziarono a combattere. Poi [...] iniziarono a parlare di letteratura e non smisero più. Questo ragazzo è Bentley. C’è un altro fatto da ricordare, ugualmente importante. Bentley aveva l’abitudine di fare le cose bene. Aveva conosciuto un ragazzo che lo aveva iniziato alle “arti nere”. Quella notte, come dice Shakespeare, “ci fu una stella”. Un piacevole sabato pomeriggio Lucian disse: “Sto per portarti a conoscere i Bloggs”. “I chi?”, disse il ragazzo minacciosamente. Presupponendo si trattasse di una locanda, seguì controvoglia l’amico. Nessun segno in cielo e in terra lo avvisò. Gli uccelli continuarono a cantare sugli alberi. Lui entrò. Non c’era nessuno. C’era una giovane ragazza incantevole con un vestito verde che “non approvava soluzioni catastrofiche ai problemi sociali del suo tempo”.
La seconda volta che si recò là, era seduto comodamente sul divano del salotto, quando, durante una conversazione, lei lo guardò dritto negli occhi e lui si disse in modo chiaro, come se lo stesse leggendo su di un libro: “Se dovessi avere qualcosa a che fare con questa ragazza, dovrei andare da lei in ginocchio, se parlassi con lei, non mi deluderebbe mai, se dipendessi da lei, non mi respingerebbe mai, se l’amassi, non giocherebbe mai con me, se mi fidassi di lei, non verrebbe mai meno alla sua promessa, se io mi scordassi di lei, lei non si dimenticherebbe mai di me. Potrei non vederla mai più”. Tutto in un attimo, ma fu tutto detto. Ora sa quanto inoperoso, pigro e dispendioso è spesso stato, e quanto miseramente inadeguato è per ciò a cui è chiamato. Ci sono quattro ragioni per cui ringrazia sempre, prima ancora di sentirsi grato per la sua stessa vita: prima di tutto il suo Creatore, per averlo creato dalla stessa terra e averlo messo nello stesso mondo in cui si trova una donna come te. La seconda ragione è che, malgrado tutti i suoi difetti, non si è perduto dietro a strane donne. La terza, che ha provato ad amare ogni cosa viva: un’oscura preparazione per amare te. E la quarta… non ci sono parole per esprimerla. Qui termina la mia vita precedente. Prendila. Mi ha portato fino a te.
Dalla lettera scritta in occasione della dichiarazione di voler sposare Frances Blogg
Warwick Gardens
Mia cara,
ho scoperto che la mia vita fino ad oggi è trascorsa, in realtà, nella tenebra più totale. Paragonandola a ciò che vivo ora posso dire che astio, disprezzo, sofferenza, disperazione e pazzia, sono stati i compagni dei miei giorni e delle mie notti. Questa è stata la mia condizione precedente. Vista secondo i miei precedenti criteri, è stata piena di gioia. Ma non sapevo cosa significasse essere felice prima di questa notte. La felicità non è affatto una forma di soddisfazione o compiacimento: non è serenità o contentezza, come ho creduto fino ad oggi. La felicità non porta la pace, ma una spada: ti scuote come un lancio di dadi sul quale hai puntato tutto, toglie la parola e annebbia la vista. La felicità è più forte di se stessi e poggia il suo piede con fermezza sulla tua testa. Mentre andavo a casa stasera sull’omnibus, mi è successa una cosa strana. In piena contraddizione con le mie normali abitudini, e per la prima volta da quando avevo sette anni, mi sono sorpreso vicino alle lacrime. Un’altra cosa che ho scoperto è che se è possibile innamorarsi di qualcuno per la seconda volta, mi è accaduto oggi a St. James Park. Non esagero se dico che ti ho sempre guardata sottovalutandoti, senza considerarti nella tua verità. Ma oggi c’era qualcosa in più del solito: sei improvvisamente salita al cielo. Mi sento come se non ti avessi mai pensata tanto bella e coraggiosa, come faccio ora. Prima brancolavo solo, e a fatica, per la mia anima. Non riesco a scrivere in modo logico o a spiegarti la posizione in cui sono ora. Mi sento sopraffatto da un senso enorme di inadeguatezza che è piacevole, mi fa ballare e cantare, anche se con ben poca grazia e tecnica. [...]
Sto lavorando tantissimo, sento che sto migliorando. Mi è stato chiesto in modo serio da uno scrittore di ampio respiro di selezionare alcune poesie e di farlo in breve tempo, prima che lo faccia un altro editore di sua conoscenza. Cosa valgono queste cose, se non in quanto ‘strada per le stelle’, quelle due meravigliose a cui il mio telescopio morale è sempre orientato, i tuoi bellissimi occhi blu? Per quanto concerne quel giovane gentiluomo che afferma di avere intenzione di sposarti, posso solo dire che afferma il suo gusto, ma a fatica la sua preveggenza. [...]
Non vedo l’ora di vederti, non per un’emozione antiquata, come ti ho detto l’altra notte quando ero in uno stato diverso, ma per un mondo non calpestato di risate, pericoli e cambiamenti, una grande strada bianca attraverso una collina. [...]
Non penso mai a nulla, dall’alba della Creazione fino al tramonto dell’Apocalisse, se non come un antefatto a te. Non puoi nemmeno immaginare ciò che mostra il tuo volto: porta con sé una relazione con tutto ciò che c’è di vivente, che tutte le cose animate portano alle inanimate.
Da La superstizione del divorzio (1920)
C’è un aspetto nella famiglia che distrattamente potremmo chiamare anarchico; e a cui potremmo, con più precisione, dare il nome di amatoriale. È proprio come sembra che esista qualcosa di quasi indistinto nella sua origine volontaria, allo stesso modo non sembra sia possibile definire con precisione la sua volontaria organizzazione. La funzione più vitale che essa svolge, forse la funzione più vitale che qualsiasi cosa possa svolgere, è quella educativa; ma l’educazione originale che essa compie è talmente essenziale da non potere essere confusa con l’istruzione. In migliaia di cose essa opera secondo regole basate sull’esperienza e non sulla teoria. Per fare un esempio divertente: dubito che in un qualche libro di testo o in un qualche codice siano mai state scritte direttive a proposito del mettere il bimbo in castigo in un angolo. Senza dubbio, quando la modernità avrà raggiunto il suo compimento, e il principio coercitivo dello stato avrà estinto completamente l’elemento volontario della famiglia, ci saranno una precisa regolamentazione e precise restrizioni al riguardo. Probabilmente l’angolo dovrà essere almeno di 95 gradi.
Probabilmente le leggi faranno notare come le linee convergenti che formano l’angolo qualunque portano il bambino a diventare strabico. D’altronde sono certo che se dicessi casualmente, in un numero sufficiente di sale da the, che gli angoli hanno fatto diventare strabici i bambini, questo non ci metterebbe molto ad essere riconosciuto universalmente come dogma della scienza popolare. Perché il mondo moderno non è disposto ad accettare alcun dogma riguardo all’autorità, ma ne accetta volentieri riguardo all’assenza di autorità. Di’ pure che le cose stanno così secondo il Papa o la Bibbia, e le argomentazioni saranno tacciate di superstizione senza battere ciglio ancor prima d’essere proferite. Ma introduci le argomentazioni semplicemente con “dicono” o “non lo sai che…?” o prova (sbagliandolo) a ricordare il nome di un qualche professore menzionato su una qualche rivista, e l’acuto razionalista dalla mente moderna prenderà ogni tua parola per oro colato.
Questa parentesi non è irrilevante come potrebbe sembrare a una prima impressione; sarà bene ricordare che quando un rigido conformismo fa il suo ingresso nei liberi compromessi familiari, esso diventa rigido solo nell’azione ed esageratamente fiacco nel pensiero. Dal punto di vista intellettuale esso sarà indistinto proprio come tutte le decisioni da dilettanti che si prendono in una famiglia; e la sola differenza è che le decisioni domestiche sono di natura pratica e vengono prese a partire dal senso di realtà; cioè sono fondate sulle esperienze che si sono vissute. L’altro invece consiste in ciò che ora generalmente viene chiamato scientifico; cioè si fonda su esperimenti che ancora non sono stati fatti. Sarebbe molto più ragionevole operare sulle riforme in senso contrario, piuttosto che gravare la famiglia della stessa goffa burocrazia che provoca disfunzioni nei servizi pubblici. Sarebbe molto ragionevole alterare le leggi della nazione portandole ad assomigliare alle leggi della cameretta. Le punizioni sarebbero di gran lunga meno orribili, molto più divertenti, e molto più funzionali allo scopo di far percepire realmente a un uomo come si sia reso ridicolo a se stesso. Sarebbe molto più semplice e simpatico cambiare se un giudizio fosse dato mettendosi il cappello dell’asino invece che quello nero; o se potessimo mettere l’uomo d’affari in punizione nell’angolo apposito.
[...] Questa è la maniera in cui lo spirito coercitivo dello stato prevale sulla libera promessa della famiglia, presentandosi sotto la veste dell’ufficialità. Ma questo non è il più violento tra gli elementi coercitivi della comunità moderna. Un eterno potere ancora più rigido e spietato è quello dell’impiego e della disoccupazione nell’industria. Il nemico più spietato della famiglia è la fabbrica. In mezzo a questi moderni sistemi meccanizzati l’istituzione naturale e antica non si sta riformando, o modificando o riducendo; più semplicemente viene mandata in pezzi. E non è frantumata soltanto nel senso proprio della metafora, ma come potrebbe esserlo un essere vivente pervertito in un orribile strumento meccanico a orologeria. Viene letteralmente fatta a pezzi nel senso che il marito può andare in una fabbrica, la moglie in un’altra e il bambino in un’altra ancora. Ciascuno di loro diventerà un servo di un diverso gruppo finanziario, che sta acquistando un potere politico molto più grande di quello posseduto una volta dal feudo. E mentre il feudalesimo riceveva la lealtà delle famiglie, i signori del nuovo stato servile ricevono solo lealtà individuali cioè di uomini soli e di orfani.
Da Eretici (1905)
Alcuni saggi della nostra decadenza hanno sferrato un duro attacco alla famiglia. L’hanno contestata, a mio avviso ingiustamente, e i suoi difensori l’hanno difesa, altrettanto ingiustamente. La comune argomentazione a favore della famiglia è che, tra tutte le tensioni e le instabilità della vita, è serena, gioiosa e unita. Ma vi è un’altra argomentazione possibile e, a mio avviso, evidente, e cioè che la famiglia non è né serena, né gioiosa, né unita. Non è di moda oggigiorno dilungarsi sui vantaggi di questa piccola comunità. Ci insegnano a lottare per i grandi imperi e i grandi ideali, eppure il piccolo stato, la città o il villaggio presentano un vantaggio che solo chi è ostinatamente cieco può sottovalutare. L’uomo che vive in una piccola comunità vive in un mondo molto più grande. Conosce molto più a fondo le feroci varietà e le irriducibili divergenze umane. E per un’ovvia ragione: in una grande comunità possiamo scegliere i nostri compagni, in una piccola comunità i nostri compagni ci vengono imposti. Così, in tutte le società estese e altamente civilizzate, i gruppi nascono sulla base della cosiddetta solidarietà, escludendo il mondo reale più bruscamente delle porte di un monastero. Non vi è nulla di gretto nel clan; la cosa realmente gretta è la cricca.
[...] Gli scrittori moderni i quali, in modo più o meno diretto, hanno insinuato che la famiglia è un’istituzione dannosa, si sono solitamente limitati a insinuare, con molta acredine, amarezza o pathos, che forse la famiglia non è sempre così armoniosa. Naturalmente la famiglia è una bella istituzione proprio perché non è armoniosa. È sana proprio perché contiene così tante discrepanze e diversità. Come dicono i sentimentalisti, è come un piccolo regno e, come quasi tutti gli altri piccoli regni, si trova solitamente in uno stato simile all’anarchia. È proprio perché nostro fratello George non è interessato ai nostri problemi religiosi ma al Trocadero Restaurant che la famiglia ha alcune delle qualità corroboranti della comunità. È proprio perché lo zio Henry non approva le ambizioni teatrali di nostra sorella Sarah che la famiglia è come l’umanità. Gli uomini e le donne che, per ragioni giuste e sbagliate, si ribellano alla famiglia, si ribellano semplicemente, per ragioni giuste e sbagliate, al genere umano. Zia Elisabeth è irragionevole, come il genere umano. Papà è nervoso, come il genere umano. Il nostro fratellino è irrequieto, come il genere umano. Il nonno è stupido, come il mondo; è vecchio, come il mondo. Coloro che desiderano, a torto o a ragione, uscire da tutto ciò, desiderano sicuramente entrare in un mondo più ristretto. Sono sconcertati e terrorizzati dalla grandezza e dall’eterogeneità della famiglia.
[...] Il modo migliore in cui un uomo può saggiare la sua prontezza a incontrare la comune varietà del genere umano sarebbe calarsi giù dal camino di una qualsiasi casa e cercare di andare il più possibile d’accordo con chi la abita. Ed è essenzialmente ciò che ognuno di noi ha fatto il giorno in cui è nato. È proprio questo il sublime e speciale romanticismo della famiglia. È romantica perché è una lotteria. È romantica perché è tutto ciò di cui la accusano i suoi nemici. È romantica perché è arbitraria. È romantica perché è reale. Quando i gruppi umani sono scelti razionalmente, si ha un’atmosfera singolare o settaria. È quando i gruppi umani sono scelti irrazionalmente che si hanno veri uomini. Comincia così a comparire l’elemento dell’avventura, perché un’avventura è, per sua stessa natura, una cosa che ci accade. Non siamo noi a sceglierla, è l’avventura a scegliere noi. [...] L’avventura suprema è nascere. È allora che cadiamo improvvisamente in una splendida e sorprendente trappola. È allora che vediamo davvero qualcosa che non abbiamo mai sognato prima. Nostro padre e nostra madre stanno in agguato attendendo il nostro arrivo per poi avventarsi su di noi come briganti sbucati dalla macchia. Nostro zio è una sorpresa. Nostra zia è, per usare una bella espressione comune, un fulmine a ciel sereno. Quando, nascendo, entriamo in famiglia, entriamo in un mondo imprevedibile, un mondo dotato delle sue strane leggi, un mondo che non potrebbe fare a meno di noi, un mondo che esisteva prima di noi. In altre parole, quando entriamo in famiglia, entriamo in una fiaba.
[...] La gente si domanda perché il romanzo sia il genere letterario più popolare, perché si leggano più romanzi che testi scientifici o metafisici. La ragione è molto ovvia: semplicemente perché il romanzo è più vero. La vita può talora sembrare, legittimamente, un libro scientifico. La vita può talora sembrare, ancora più legittimamente, un libro metafisico. Ma la vita è sempre un romanzo. La nostra esistenza può smettere di essere un canto; può smettere persino di essere uno splendido lamento. La nostra esistenza può non essere una giustizia intelligibile e nemmeno una riconoscibile ingiustizia. Ma è pur sempre una storia.
[...] L’uomo ha il controllo su molte cose della sua vita; ha il controllo su abbastanza cose da essere l’eroe di un romanzo. Ma se avesse il controllo su tutto, sarebbe un tale eroe che non vi sarebbe più alcun romanzo. E se la vita dei ricchi è in fondo così insulsa e monotona è semplicemente perché possono scegliere gli eventi. Sono noiosi perché sono onnipotenti. Sono insensibili alle avventure perché le possono creare. Ciò che rende la vita sempre romantica e piena di ardenti possibilità è l’esistenza di queste grandi ed evidenti limitazioni che costringono tutti noi ad affrontare cose che non amiamo o che non ci aspettiamo. È inutile per i superbi uomini moderni affermare di vivere in un ambiente non congeniale. È il romanzo l’ambiente non congeniale. Essere nati su questa terra significa essere nati in un ambiente non congeniale, e quindi essere nati in un romanzo. Di tutte queste grandi limitazioni e strutture che modellano e creano la poesia e la varietà della vita, la famiglia è la più sicura e importante. Per questo viene fraintesa dai moderni, che immaginano che il romanzo possa esistere al meglio in un completo stato di presunta libertà. Essi ritengono che sarebbe sorprendente e romantico se, a un gesto dell’uomo, il sole cadesse dal cielo. Ma la cosa sorprendente e romantica del sole è che non cade dal cielo. I moderni cercano, sotto ogni forma e sembianza, un mondo privo di limitazioni, ossia un mondo privo di contorni, un mondo privo di forme. Non vi è nulla di più vile di tale infinità. Dicono di voler essere forti come l’universo, ma in realtà vorrebbero che l’intero universo fosse debole come loro.
5/ Alessandro D’Avenia
Lettera ai miei alunni per il 2011, di Alessandro D’Avenia
Tutto è lasciato alla libertà personale, che è l’unico motore capace di spostare le montagne.
Libertà intesa non semplicemente come “non invadere lo spazio altrui”, concetto ben povero, anche se per certi versi condivisibile, ma libertà intesa come capacità di scegliere per cosa giocarsi la vita – dato che ne abbiamo una sola – a partire dai doni che la vita ci ha fatto.
Quando Dante rimane fortemente turbato dalla vista di Beatrice, un suo amico, che lo aveva accompagnato ad una festa di nozze, alla quale partecipava anche B., gli chiede come mai sia così frastornato e lui risponde:
“Io tenni li piedi in quella parte de la vita di là da la quale non si puote ire più per intendimento di ritornare”, cioè “ho messo i piedi nella vita vera, quella che voglio, quella che mi aspetta, quella che mi fa tremare e gioire, ho capito che lì c’è tutto e non voglio più tornare indietro”. Ecco io vorrei, sulla scorta di questa frase di Dante, nella Vita Nova (cap. XIV), che ciascuno di voi si prendesse qualche attimo di silenzio per riflettere e scrivere, magari su quella vecchia moleskine estiva, quando (in queste settimane, mesi, anni…) vi è sembrato di mettere i piedi in quella vita da cui non volete fare ritorno. Cosa guardate, cosa vi appassiona, cosa vi fa vibrare il cuore, cosa colpisce il vostro interesse, cosa mette in moto le vostre risorse…? Insomma per cosa vi sembra che la vita fluisca potente dentro di voi.
Non dovete per forza rispondere a me, potete anche farlo solo per voi stessi.
Bianca come il latte, rossa come il sangue, pp. 9-10
Ogni cosa è un colore. Ogni emozione è un colore. Il silenzio è bianco. Il bianco infatti è un colore che non sopporto: non ha confini. Passare una notte in bianco, andare in bianco, alzare bandiera bianca, lasciare il foglio bianco, avere un capello bianco... Anzi, il bianco non è neanche un colore. Non è niente, come il silenzio. Un niente senza parole e senza musica. In silenzio: in bianco. Non so rimanere in silenzio o da solo, che è lo stesso. Mi viene un dolore poco sopra la pancia o dentro la pancia, non l’ho mai capito, da costringermi a inforcare il mio bat-cinquantino, ormai a pezzi e senza freni (quando mi deciderò a farlo riparare?), e girare a caso fissando negli occhi le ragazze che incontro per sapere che non sono solo. Se qualcuna mi guarda io esisto.
Ma perché sono così? Perdo il controllo. Non so stare solo. Ho bisogno di... manco io so di cosa. Che rabbia! Ho un iPod in compenso. Eh sì, perché quando esci e sai che ti aspetta una giornata al sapore di asfalto polveroso a scuola e poi un tunnel di noia tra compiti, genitori e cane e poi di nuovo, fino a che morte non vi separi, solo la colonna sonora giusta può salvarti. Ti sbatti due auricolari nelle orecchie ed entri in un’altra dimensione. Entri nell’emozione dal colore giusto. Se ho bisogno di innamorarmi: rock melodico. Se ho bisogno di caricarmi: metal duro e puro. Se ho bisogno di pomparmi: rap e crudezze varie, parolacce soprattutto. Così non resto solo: bianco. C’è qualcuno che mi accompagna e dà colore alla mia giornata.
Non che io mi annoi. Perché avrei mille progetti, diecimila desideri, un milione di sogni da realizzare, un miliardo di cose da iniziare. Ma poi non riesco a iniziarne una che sia una, perché non interessa a nessuno. E allora dico: Leo, ma chi cazzo te lo fa fare? Lascia perdere, goditi quello che hai.
Bianca come il latte, rossa come il sangue. L'adolescenza dinanzi alla realtà della vita. Un'intervista ad Alessandro D'Avenia (da Tracce del maggio 2010)
La trama è semplice, quasi scarna. Leo, sedicenne, si innamora di Beatrice, compagna di liceo. Lei si ammala di leucemia. Morirà: l’epilogo è chiaro da subito. Ma in questa specie di «diario di un dolore» in sedicesimo, scritto in prima persona e attraversato da personaggi che lo aiutano a crescere (il Sognatore, supplente di Lettere che lo sfida attingendo a libri e vita; Gandalf, prof di Religione di poche parole ma alta intensità; Silvia, l’amica che vorrebbe essere qualcosa di più; e un padre più vicino di quanto si aspetti), Leo scopre se stesso. E fa i conti con le poche, grandi cose che riempiono la vita di domande e - se prese sul serio - fanno uomini. Il desiderio. Il male. La felicità. Dio.
Ecco, in Bianca come il latte, rossa come il sangue, best seller che ha scalato le classifiche infilandosi alla voce “letteratura adolescenziale”, c’è proprio questo: domande dense affrontate in modo lieve. Con lingua - e cuore - da adolescenti, ma con una sapienza di scrittura e un’immedesimazione che rendono il tutto per nulla artificioso. Non sarà un capolavoro, chiaro. Ma ha dentro abbastanza spessore per grattar via le etichette appiccicate in fretta dai giornali («arriva il Moccia cattolico») e cercare di conoscere l’autore: Alessandro D’Avenia, 33 anni, riccioli biondi e occhi azzurri da normanno (è un palermitano trapiantato a Milano, dove fa il prof di Lettere al biennio di un Classico) che, a vederlo, ti fanno venire in mente il Piccolo principe. Non glielo abbiamo detto, subito. Ma dopo le due ore che ha passato in redazione, a dialogare a cuore aperto e lasciarsi colpire - davvero - da domande e osservazioni di due colleghi e tre studenti (Dado Peluso e Alberto De Simoni, docenti di Lettere; e Giovanni, Paola, Caterina), ci è venuta l’idea che il paragone non gli scoccerebbe. L’apertura alla realtà è la stessa. Non a caso, quello che segue è il resoconto di quel dialogo. Ma soprattutto di un incontro. Vero.
Partiamo da lì, allora. Da quelle che, a un certo punto, chiama «le domande giuste»: quelle vere, serie, reali. E quelle più censurate e bistrattate anche da chi si rivolge ai ragazzi. Perché ha deciso di prenderle sul serio in un libro che parla di loro e si rivolge a loro?
D’Avenia: Sto in classe da dieci anni. E ho visto - vedo - una distanza straordinaria, dolorosa, tra quello che ci viene raccontato di questi ragazzi dai media e quello che sono realmente. Insegnando Lettere, poi, è inevitabile toccare i punti vitali. Questo essere a contatto con il loro cuore profondo mi ha fatto sorgere un moto di ribellione verso tutta una letteratura come quella, appunto, di Moccia - che mi sono letto tutta, per capire come intercetta il loro cuore. I numeri parlano chiaro: non vendi un milione di copie di Ho voglia di te o Tre metri sopra il cielo se non c’è qualcosa che intercetta il cuore. E la risposta che ho visto è proprio questa: a essere intercettata è la sete di educazione sentimentale che è propria della loro età. Questo cuore che, per la prima volta, si affaccia alla realtà con un’apertura straordinaria, che esce dal pensiero magico dell’infanzia e incomincia a guardarsi intorno per capire che ingredienti servono per vivere la vita. Ecco, il primo impulso è stata una ribellione verso di questa letteratura: comprende i sentimenti del cuore di un adolescente, ma poi lo lascia confuso come prima. Un po’ come l’iPod: ti metti gli auricolari, ti estranei un’ora dalla realtà e, quando te li togli, la realtà è rimasta lì, ferma. Per un po’ ne hai sentito meno il peso e il dolore, ma poi ti ritorna tutto addosso. Poi c’è un altro motivo.
Quale?
D’Avenia: La bellezza. Una bellezza che ti investe e che non puoi fare a meno di comunicare. Quando uno si innamora non fa che dirlo al mondo intero, no? Be’, questo mio innamoramento continuo verso i miei ragazzi, cioè per la loro identità profonda, mi ha portato a dire: io questa bellezza la devo raccontare, perché nessuno la vuole raccontare. Ecco, questi due ingredienti si sono sommati. Ed è venuta fuori una storia che avevo dentro da un po’: un ragazzo che cresce, che diventa uomo, che all’inizio del romanzo crede che la propria identità si basi su come tiene i capelli e poi, a poco a poco, capisce che l’identità non sta lì, ma da qualche altra parte che lui deve scoprire. Non tanto perché gli vengano date nel romanzo delle risposte giuste, ma perché inizia lui a porsi le domande giuste. E infatti il romanzo finisce con l’apertura alla realtà.
Scoprire l’identità sotto la superficie vuol dire scoprire l’io. È interessante che per lei questo venga fuori dall’impatto con la realtà.
D’Avenia: Inizio sempre le lezioni del primo anno del biennio spiegando un quadro: il Narciso di Caravaggio. Dico ai ragazzi: «Questa mattina abbiamo tutti condiviso questo dramma straordinario dello specchio. Non potevate uscire dal bagno». Il primo giorno di scuola al biennio è una specie di prova del sangue, ti manifesti per la prima volta ai compagni e dici: «Chissà che pensano di me? Come mi vesto oggi?». Ti svegli con due ore di anticipo e prepari i vestiti la sera prima... Poi aggiungo: «Però la cosa straordinaria, la differenza fra voi e noi adulti qual è? Mentre noi abbiamo un po’ imparato come siamo fatti, per cui ci guardiamo allo specchio e abbiamo acquisito quel coraggio che ci consente di aprire la porta del bagno e affrontare il mondo, voi tenete quella porta chiusa. Avete una paura matta di quel che c’è fuori, perché quel mondo non conosce chi siete in profondità. Temete che non vi comprenda, che vi massacri. Ma benedetta questa prima volta in cui si percepisce la distanza fra quello che si vede in superficie e quello che cominciate a percepire di essere. Benedetto questo momento dello specchio. Se mettete di fronte allo specchio un gatto o un neonato, pensano di avere di fronte un altro gatto e un altro bimbo». L’adolescente è chi per la prima volta dice: «Cavolo, quello sono io. Ma sono più di quello, perché riesco a dire “quello sono io”». Allora si comincia a lavorare su quel «sono io».Solo che cosa accade? Si cerca di costruire sulla superficie che si vede nello specchio quell’identità che invece va costruita nel profondo.
Questo, in qualche modo, non è anche il bello di quell’età?
D’Avenia: In un certo senso, sì. Basta pensare a una cosa: perché noi vogliamo amare persone profonde e non superficiali? Perché lo dobbiamo diventare, profondi. Non è che uno nasce profondo. Uno scopre che è fatto “a strati”, però non ha ancora gli strumenti per attivare quelli più profondi. Allora prova con i piercing, i vestiti, la pettinatura... Se poi ha la fortuna di incontrare qualcuno che lo aiuta a fare questo, come succede a Leo, allora forse uno comincia a crescere. Se no, il rischio è che rimanga in superficie. E magari finisce il liceo che non sa neanche quale Facoltà scegliere, che è una cosa che a me fa venire i brividi... Non nel senso che uno deve avere tutto chiaro. Però almeno deve sapere dove si indirizza il suo sguardo, cosa lo mette in movimento e cosa invece lo lascia inerte.
Nel libro, c’è molto dei suoi alunni?
D’Avenia: Ci sono pezzi delle loro vite. Per esempio, a un certo punto, ricevo la mail di una di loro. Due righe: «Dio non esiste». E poi, a capo: «Dio non mi vuole bene». Sono due righe meravigliose, perché la seconda contraddice la prima. Io ti dico che in realtà esiste; solo che non mi vuole bene. Quindi non esiste per me. E questo è l’altro tema che mi stava a cuore: non possono farci credere che i ragazzi non si fanno domande su Dio. Non ne potevo più di questo. Perché non è vero. Un tema su due ha dentro questa domanda. Fai i Promessi sposi e quello ti interrompe: «Ma com’è possibile che Dio permetta quello che è successo?». Parli dell’Innominato, e si alza la mano: «Perché la conversione?». Ecco, questa era una delle cose che volevo affrontare. Sapevo di attirarmi tante critiche da un certo mondo, che di queste cose non vuol sentir parlare.
Antonio: Man mano che leggevo, mi ha sorpreso il livello di profondità che Leo raggiunge. Però mi è rimasto un certo fastidio per un accento sentimentale molto spiccato. Perché questo tono? Non si rischia di annacquare il problema trattandolo così? E poi: se il problema è incontrare chi ti aiuti ad “attivare gli strati profondi”, deve essere qualcuno diverso da te. Nel libro, il Sognatore dà l’impressione di essere un adulto che prova a mettersi al livello dei suoi ragazzi...
D’Avenia: Uno dei motivi per cui ho deciso di diventare insegnante è stato padre Pino Puglisi (il sacerdote ucciso dalla mafia nel 1993, ndr), che ho avuto come prof a Palermo. Liceo pubblico: eravamo in 1500, un caos. Noi, tra un’occupazione e l’altra, eravamo convinti di avere il mondo in mano. Guardavo questo sacerdote piccolino, magro, sempre sorridente, e dicevo: «Ma figurati!». Poi, quando è morto, poco prima della seconda liceo, ho capito la differenza fra noi (e gli altri prof) e lui: lui le parole che diceva le viveva veramente, anzi c’era morto. Poi vedevo il mio insegnante di Lettere, che era un sognatore davvero: a 65 anni ancora balbettava nel raccontare Dante. Infine, un film: L’attimo fuggente. L’ho visto e ho detto: voglio fare questo. A poco a poco, quella figura l’ho ridimensionata, perché è abbastanza pericolosa: Keating porta i ragazzi a se stesso, mentre il sognatore porta Leo a Leo. Cioè, aiuta Leo a diventare più Leo. Io sono un nemico assoluto del professore “amicone” e un sostenitore sfegatato dell’asimmetria del rapporto. Ma credo che la luce guida per ogni insegnante sia il principio di Incarnazione.
In che senso?
D’Avenia: Nostro Signore, per spiegarci chi è l’uomo, si è fatto uomo: ha dovuto provare la fame, la sete, sudare, addormentarsi sulla poppa di una barca in tempesta... Lui è Maestro perché si è immerso in maniera sconvolgente in quello che siamo noi. Non ha rinunciato ad essere Dio: è perfetto Dio e perfetto uomo. E proprio per questo ci viene a tirare su: sposa tutte le contraddizioni del nostro cuore, però rimane Dio. Questa è la luce che mi guida nell’insegnamento: per me, non è altro che partecipare a questo aspetto di maestro, che c’è in Dio. Mi devo in qualche modo incarnare nei miei alunni. Il che non significa mai smettere di essere un adulto, ma sposi le loro contraddizioni. Mi ha scritto un ragazzo di 17 anni: «Grazie per questo libro, perché c’è dentro tutto quello di cui abbiamo bisogno. Ci comprende, ma non ci fa sconti». Per me è stata la critica più bella. In classe, sono molto esigente, ma allo stesso tempo provo a non dimenticare tutto ciò che è successo a quell’età. Sono un adulto disposto ad accompagnarti in questo viaggio: se hai bisogno, sai che io ci sono e che mi metto in gioco. Certo, trovare la giusta distanza in un lavoro di incarnazione è difficilissimo: a volte sbagli, perché esageri. Però ci provi. Questo è legato al problema del sentimentalismo. Oggi siamo in una grande melassa sentimentale: in qualche modo bisogna immergersi. Sperimentare le contraddizioni, magari un linguaggio un po’ da Facebook. E da lì risalire. Non vorrei che suonasse un assurdo, ma quando a Nostro Signore dicono che è un mangione e beone perché mangia con quella gente lì... in fondo gli fanno questa critica. Insomma, è vero che è un libro sentimentale. Io sono un po’ così...
Dado Peluso: L’uso della prima persona è accattivante, perché fa sentire il lettore immerso nella storia. E mostra come cresce questo ragazzetto. È interessante che nel libro il tema della vocazione, cioè di cosa può costruire uno nella vita, rimanga aperto: perché è un cammino che deve fare il ragazzo. E mi colpisce il rapporto con il padre: è il rapporto con un adulto che ha una proposta chiara.
D’Avenia: La figura di questo padre mi sta molto a cuore. Il prossimo romanzo lo scriverò su questo, ci sto già lavorando. Oggi, la grande assenza è dei padri. È il motivo per cui, poi, il Padre sembra ancora più assente. Leggendo la cosiddetta “letteratura adolescenziale”, trovi mamme-carabiniere, cioè rompiscatole clamorose, e padri falliti. Adulti che, al massimo, hanno la nostalgia dell’essere adolescenti. Allora perché devo crescere, se crescere è diventare uno che ha nostalgia di essere come sono io ora?
Più che della letteratura, è il problema dell’educazione: che riguarda innanzitutto gli adulti.
D’Avenia: Il bello è manifestare che vale la pena essere adulti senza nascondere le proprie debolezze. Io ho avuto un padre così. Questa presenza paterna è l’ingrediente educativo forse oggi più mancante. Con la madre abbiamo questo rapporto simbiotico di protezione: c’è nel momento in cui abbiamo bisogno. Ma è il padre che ti lancia in aria. Quando il papà prende il bambino e lo lancia in aria, la mamma, la madre terra Gea, dice: «Che fai, stai attento...». Mentre è Urano che lancia il bambino al cielo, perché lo lancia nella realtà. Questa diversità di stili educativi tra uomo e donna, secondo me, è uno dei problemi che c’è oggi. Il padre di Leo è un uomo che lo sfida, investe su di lui.
I momenti topici del rapporto tra il Sognatore e Leo sono due momenti di sfida. Non è un rapporto così soft. Mentre l’aspetto fondamentale del rapporto con il padre è quando gli dice: «Mi fido di te». Mi sembrano due momenti fondamentali dell’educazione: tu provochi l’altro perché venga fuori per quello che è, e contemporaneamente investi sulla sua libertà. Voi che ne dite, ragazzi?
Caterina: Quando vedo un professore, io mi appassiono di più alla sua materia se vedo che dà fiducia alla mia capacità. Se trovo un interesse che lui ha per me, per me tutta intera, per quello che io sono.
D’Avenia: Hai usato un’espressione meravigliosa: «Me tutta intera». È il bisogno che venga presa tutta la persona, e non solo il cervello da riempire di nozioni. Per la correzione dei temi, ho iniziato a usare una legenda con 15 simboli: in modo che scoprano loro gli errori, perché se li correggo direttamente non imparano. L’ultimo simbolo è un punto esclamativo, che significa «passaggio notevole». Una mia alunna mi dice: «È la prima volta che qualcuno, nel correggere i temi, metterà che abbiamo fatto qualcosa di positivo e non solo gli errori». Mi sono detto: cavolo, ma ci ho messo dieci anni a capire questa cosa? Se sbagliano, glielo diciamo subito. Se fanno qualcosa di bello, perché siamo così avari nel dirglielo? Li aiuta. È proprio questo punto: la fiducia. È come dire: «Tu sei questo, e io sono fiero che tu sia questo. Ed è da questo che prendi forza per superare le tue difficoltà, i tuoi limiti». Ha dentro il «mi fido di te», ma anche una sfida. Per me, sono due fortissimi ingredienti educativi: la capacità di contenere, l’altra di rilanciare.
Nel libro, il bianco è il colore che spaventa Leo. È segno del vuoto, del male. Da dove hai preso questa idea?
D’Avenia: Dai miei alunni. Un giorno mi ero dimenticato di preparare il tema in classe, ho improvvisato il titolo: «Ricordi bianchi, azzurri e rossi». I ricordi associati al rosso erano le esperienze che mi aspettavo: l’amore, la passione, la battaglia, la sfida. L’azzurro era associato alla tranquillità, all’amicizia. E poi mi ritrovo con questo bianco associato quasi sempre ad esperienze negative. Io amo Dante. Lì il bianco è la luce, c’è dentro tutto. Invece ti trovi che per un ragazzino il bianco è un colore associato a esperienze di perdite, di paura, di dolore. Mi sono detto: questa cosa mi interessa, ci voglio guardare dentro. Mi sembra che abbia dentro gli ingredienti tipici dell’adolescenza: sei in un’epoca della vita in cui non vuoi più avere limiti, ma allo stesso tempo cominci a fare esperienza che certe cose ti spaventano proprio perché non hanno limiti. Il bianco ha dentro questa ambiguità: è un colore senza limiti, che ti fa l’effetto della vertigine. Allo stesso tempo ti fa paura, perché dici: se veramente non ha limiti? Leo, in pratica, si chiede se veramente l’amore è più forte della morte. Che poi è la domanda di fondo di tutto il romanzo: a un certo punto c’è la citazione esplicita del Cantico dei cantici. L’idea ha dentro questo aspetto: il bisogno di qualcuno che mi contenga un po’, quando il bianco sembra prevalere e, insieme, questo desiderio di farmi strada da solo. Sono io che me la devo giocare. Però tu mi devi contenere, cioè mi devi dire che c’è qualcosa per cui vale la pena vivere e che la parola “morte” non è la fine.
Perché dice “contenere”?
D’Avenia: C’è un momento in cui tu non riesci a decodificare la tempesta che ti prende. Allora hai bisogno che qualcuno ti dica: «Guarda, questo che ti succede è normale. Non sei strano, non sei pazzo». E che quindi ti rassicuri su un futuro che sarà diverso, se impari a “decodificare” quello che ti sta succedendo.
Ragazzi, cosa vi ha colpito del libro?
Caterina: Quando ho letto “Beatrice” ci ho messo un po’ a collegarlo alla Divina Commedia. La Beatrice di Dante, come la Laura di Petrarca, porta l’autore, il poeta, a fargli pensare qualcosa d’altro: lo portano oltre quello che sono loro. Anche la sua Beatrice è così, no? Richiama Leo alla realtà. Lo fa accorgere di Silvia. Gli ricorda che c’è Silvia, che c’è la realtà.
D’Avenia: Sono allibito dall’osservazione. Nel libro, Beatrice è la realtà. Il fatto che sia “bianca come il latte e rossa come il sangue” è perché la realtà è così. Leo all’inizio pensa che l’amore sia rosso e basta. Poi scopre che c’è un altro lato che dà forza, che c’è bisogno di questi due colori. Beatrice di fatto è un simbolo della realtà. Perché? Quando ci innamoriamo per la prima volta, noi capiamo che il senso della realtà sta lì. Nell’amore. Poi siamo talmente inermi di fronte alla realtà che questo ci investe in una maniera incontrollabile: ma lì, c’è la prima intuizione che la realtà si impernia su questa cosa. Poi è tutto un cammino per imparare a farlo.
Paola: Perché, allora, nel libro parla così tanto di “sogno”? Sembra una cosa un po’ irreale. Ma il sogno cambia, insieme al personaggio? Cioè: “sognare” per lei vuol dire “desiderare”?
D’Avenia: Sì. Però questo parte dal fatto che tu ti conosca per quello che sei, cioè capisci di essere un progetto voluto da qualcuno. A me l’ha spiegato in maniera chiarissima mia mamma, che un giorno mi ha detto: «Io e tuo padre abbiamo voluto un bambino, Dio ha voluto te». Non ti lascia scampo. Dio ha voluto te. Vuol dire che tu, come sei, sei voluto bene. Dante fa questo: comincia a guardare il male che ha dentro, la selva oscura, e fa tutto il percorso per riuscire a capire se l’amore che muove il sole e le altre stelle contiene lui stesso. Arriva a guardare la Trinità. Ci guarda dentro, ne vede il centro, che è Gesù Cristo e il suo volto. E dice: io sono contenuto nell’amore che muove tutto. Allora torna alla realtà. Perché Dante questo viaggio lo fa dalla realtà e ci ritorna, non è che poi finisce. Ecco, questo è il mio “sognare”: stare nella realtà. Nelle 24 ore hai la misura sufficiente per la tua felicità. Comunque, hai colto bene: il sogno si evolve.
Paola: Leo all’inizio quasi sfida Dio: «Se esisti, fai guarire Beatrice». Però mi ha entusiasmato quando dice: se Beatrice scrive a Dio nel suo diario, allora sicuramente esiste. Perché è così. Vedi una persona che dice «Dio esiste» e ti accorgi che è più felice di te. Però, alla fine, lui non scopre niente di così certo.
D’Avenia: Scopre la realtà. E se scopri la realtà, a Dio, prima o poi, ci arrivi. Io ho questa grande fiducia. Leo, per com’è all’inizio, Dio non lo vede manco di striscio. Il fatto stesso che lo cerchi anche solo per prendersela con lui - c’è un passaggio molto duro in cui lui bestemmia - vuol dire che cerca un rapporto con lui. Quindi non è vero che non si arriva a niente. Poi arriva a dire: io voglio un rapporto con te, ma non riesco a capire se tu sei veramente un padre. Questa è l’ambiguità che rimane in Leo.
Antonio: L’idea che se scopri la realtà prima o poi a Dio ci arrivi, mi convince molto. Al funerale di Beatrice, Leo sente la predica di Gandalf, poi sente la consacrazione e dice: «Anche Dio spreca il suo sangue: una pioggia infinita di amore rosso sangue bagna il mondo ogni giorno nel tentativo di renderci vivi, ma noi restiamo più morti dei morti. Mi sono sempre chiesto perché amore e sangue avessero lo stesso colore: adesso lo so, tutta colpa di Dio!».
D’Avenia: È la realtà che ha Dio dentro. Il problema è se noi entriamo veramente, o no, nella realtà.
Il rapporto con i ragazzi è cambiato da quando è diventato famoso?
D’Avenia: Con i miei no, perché sono parte di questa avventura. Avevo fatto leggere loro la prima versione del romanzo, chiedendo che cosa pensassero. È stato bello vedere che, per esempio, nella prima versione Niko quasi non c’era. Ma un alunno mi ha detto: «Questo Niko è più figo di Leo, io lo voglio conoscere. Che fa questo? Come la pensa?». Da lì è nato il torneo di calcio, che non c’era e che ha reso il romanzo ancora più forte, perché c’è il momento in cui Beatrice lo chiama e lui deve rinunciare alla finale. Oppure un’altra mi dice: «Qui si vede troppo che il linguaggio è suo e non è di Leo»... Mi è servito anche per limare. È un po’ anche loro.
Antonio: Il prossimo libro sarà sempre di questo genere, “adolescenziale”?
D’Avenia: Vorrei raccontare una storia che ha come protagonista sempre un’adolescente, però questa volta in terza persona, perché è una ragazzina. Che un giorno scopre che il papà non tornerà più a casa. E allora che succede? Cosa accade nel cuore di questa ragazzina? Che succede nella storia? Non lo so, lo sto scrivendo, vediamo. Ma mi interessa moltissimo questo. Vedo che i miei alunni, con genitori separati, hanno degli occhi diversi rispetto agli altri. È un dolore che io non ho provato, grazie a Dio. Ma mi interessa guardarci dentro. Anche per capire un po’ di più come aiutarli a ritrovare fiducia. Vorrei arrivare fino a dire che proprio dal dolore, poi, nascono le cose più belle della vita: il punto di forza di questa ragazzina, così come il suo punto debole, sarà proprio questa assenza. Nella nostra vita, il paradosso è un po’ quello: i nostri talenti sono anche i nostri punti deboli.
Giovanni: Fino a un certo punto del libro, mi sono sentito identico a Leo. Però a me non è mai capitato di trovare qualcosa che mi facesse appassionare alla scuola. Forse è il fatto di scoprire cosa può cambiare, che mi ha tenuto attaccato al libro.
D’Avenia: Il regalo che mi ha fatto questo romanzo è semplice: recuperare uno sguardo. Tempo fa ho letto una frase di Benedetto XVI: «Il segreto della giovinezza è scoprire cosa rimane stabile quando la giovinezza passa». Mi ha fatto capire che cosa mi aveva dato il romanzo. Che cosa dell’adolescenza vale la pena mantenere per tutta la vita, senza diventare adolescenti di ritorno? È proprio questa apertura al bene, alla bellezza, alla verità che per la prima volta si scatena a quell’età. Ecco, il bello di Leo che io desidero mantenere è questo: a cinquanta o sessant’anni, spero di mantenere questa apertura al reale. La cosa che mi fa paura è il momento in cui mi stancherò di fare il mestiere che facciamo. Spero non accada.
Per non stancarsi, bisogna stare in compagnia di gente che ti rilancia di continuo questa sfida.
D’Avenia: Infatti questi ragazzi, se li prendi sul serio, ti costringono a questo.
6/ Fabrice Hadjadj
Che cos’è una famiglia?, di Fabrice Hadjadj, dall’intervento tenuto da Fabrice Hadjadj nel corso del primo Grenelle tenutosi a Parigi, presso il Palais de la Mutualité, l’8/3/2015.
Pretendendo di fondare la famiglia perfetta sull’amore, sull’educazione e sulla libertà, quello che si fonda, in verità, non è la perfezione della famiglia, ma l’eccellenza dell’orfanatrofio. Non v’è dubbio: in un orfanatrofio eccellente si amano i bambini, li si educano e si rispettano le loro persone. Si pensa di essere così in qualche modo nella completezza di un progetto genitoriale, poiché prendersi cura dei bambini è il progetto costitutivo di una tale impresa.
Ma non considerare la famiglia che a partire dall’amore, dall’educazione e dalla libertà, fondarla sul bene del bambino come individuo e non come figlio, e sui doveri dei genitori come educatori e non come genitori, significa proporre una famiglia già defamiglizzata. Perché si potrà sempre dire che un padre e una madre possono essere meno amorevoli, meno competenti e meno rispettosi che due maschi o due femmine, e certamente meno efficaci che tutta un’organizzazione composta dei migliori specialisti. Questa organizzazione d’individui competenti potrà passare per la migliore delle famiglie e la migliore delle famiglie s’identificherà con il migliore degli orfanatrofi.
5. Perché abbiamo così facilmente perduto l’essenza della famiglia? Ma perché il principio della famiglia è troppo elementare, troppo infimo, troppo animale in apparenza; e dunque vergognoso (non si parla forse di «parti vergognose» del corpo?). Voi avete compreso che il principio della famiglia è nel sesso. Anche quando si tratta di una famiglia adottiva, o nel caso di una famiglia spirituale, dove il padre è il padre abate e i fratelli sono i monaci, gli alti e puri termini di uso comune vengono presi primariamente dalla sessualità. I nomi padre e figli si enunciano a partire da questo fondamento sensibile, che è la nostra fecondità carnale.
È perché un uomo ha conosciuto una donna e dal loro abbraccio, per sovrabbondanza, sono nati dei bambini, che esistono i nomi di famiglia, padre, madre, figli, figlie, sorelle e fratelli. La parola «fraternità», che completa il motto repubblicano [«Liberté, Égalité, Fraternité», ndr], procede essa stessa dal sesso e dalla famiglia naturale. Quanto alla nota teoria del genere, che crede di poter affermare che la mascolinità e la femminilità non sono che delle costruzioni sociali, poggia anch’essa sulla differenza tra i sessi, senza cui l’idea stessa del maschile e del femminile non potrebbe concepirsi.
6. La famiglia è dunque il primo luogo dove si genera la differenza sessuale, la differenza generazionale e persino la differenza tra queste due differenze. La differenza tra i sessi, a partire dalla fecondità propria alla loro unione, crea la differenza generazionale, che non ha nulla d’analogo con quella sessuale. Il divieto fondamentale dell’incesto è un segnale, ma anche il fatto che quando l’uomo si unisce a sua moglie non cerca primariamente di avere un bambino: cerca prima di unirsi alla moglie e il bambino arriva, sopraggiunge.
La famiglia annoda così cinque tipi di legami: coniugale (dell’uomo e della donna), filiale (dai genitori ai figli), fraterno (tra i figli) - a cui s’aggiungono altri due, spesso ignorati, ma decisivi per situare la famiglia storicamente e già politicamente. Il quarto è il legame nonni-nipoti, che permette d’attenuare l’influenza dei genitori e d’aprire il tempo della famiglia a quello della tradizione[2]. C’è poi un quinto tipo di legame che tende a relativizzare l’ideale di coppia, pur di non trascurare la suocera. Voglio parlare della “grande famiglia” – ciò che potremmo chiamare la «teoria del genere». Attraverso questo legame l’alleanza coniugale si duplica in un’alleanza, per così dire, tribale e apre lo spazio della famiglia a quello della società.
Macchine & trastulli contro il povero Priapo, di Fabrice Hadjadj, da Avvenire del 17/7/2016
Pare che l'orgasmo sia stato un punto di svolta cruciale nell'emancipazione della donna. Prima dell'orgasmo la sessualità femminile era ordinata alla gravidanza, al parto, a quei figli, infine, che forse danno gioia ma certo non orgasmi.
Nel XX secolo, la donna è riuscita infine a sottrarsi all'oppressione patriarcale che le imponeva di avere un utero, per scoprire che la vera libertà sessuale non sta nella maternità, ma in quell'orgasmo che straluna gli occhi, agita spasmodicamente il corpo e fa dimenticare la parola articolata. Si potrebbe obiettare che l'orgasmo è piuttosto cosa maschile, e che questa ossessione proiettata sulla donna, lungi dall'essere un'affermazione femminista, è un'adozione maschilista: la donna ha il diritto di godere come un uomo…
Bisogna ammettere che in questa cosa la natura non ha dotato i due sessi allo stesso modo. L'uomo gode abbastanza rapidamente, e spesso troppo rapidamente rispetto alla donna. I loro ritmi non sono sincroni, e sovente lui finisce proprio nel momento in cui lei sta per cominciare. Per tenere a freno questa precocità, l'uomo ha dovuto metter da parte il suo entusiasmo per diventare un tecnico dell'orgasmo, sforzandosi di resistere, moltiplicando i procedimenti di oblio della copula al cuore stesso della copula: eccolo che, per ritardare il suo piacere, ripete a memoria le tavole pitagoriche, rievoca atroci ricordi della Seconda guerra mondiale o si interroga sull'avvenire dell'Unione Europea (niente di meglio per raffreddare il suo ardore); e se ciò non basta, assorbe sostanze chimiche che mantengono il suo organo – un tempo rivolto alla vita – in uno stato di rigidità cadaverica o di pezzo di legno secco.
Il tempo di questi tentativi puerili e maldestri è finito. La tecnica dell'orgasmo femminile è stata infine messa a punto. Dave L. Lampert ha compiuto quello sforzo radicale e oggettivo grazie al quale l'uomo si assenta dall'amplesso per esservi in un modo assolutamente performante. E così permette alla donna di emanciparsi completamente diventando una cliente la cui soddisfazione è rafforzata dalla clausola irresistibile del «soddisfatti o rimborsati».
Dave L. Lampert ha inventato la macchina per farla godere. Woody Allen ci aveva già pensato nel Dormiglione. L'aveva chiamata Orgasmatron e rappresentata come una specie di cabina telefonica, o forse una cabina elettorale, o meglio ancora come un vespasiano del piacere: si entrava dentro, e, dopo qualche secondo appena, si usciva completamente soddisfatti, con una grande voglia di schiacciare un pisolino.
Nella realtà «the ultimate sex toy» si chiama Sybian (con riferimento ai Sibariti) e ha la forma molto più modesta, ma anche più western, di una sella da cavallo. Controlli simili a quelli di un videogame e «due motori indipendenti» permettono di regolare la vibrazione, la rotazione, l'inclinazione di tutta una gamma di "attacchi" che si possono "customizzare" scegliendone il colore – dal classic black al playful pink – e la cui stimolazione si estende ben oltre le parti abituali alla totalità del «pavimento pelvico».
L'utente donna può così offrirsi un rodeo su un pegaso galoppante nel settimo cielo. È quello che afferma Melissa Jones, dottore in sessuologia, nelle sue iperboli religiose che traduco qui il più letteralmente possibile: «Il Sybian procura l'orgasmo estremo, trascendente e integrale. Innalza il piacere femminile al di là di tutti i pinnacoli che si possono immaginare e sta ormai al cuore di qualunque orgasm-training program».
C'è dunque un'ascesi necessaria per raggiungere la perfezione multi-orgasmica. È meglio passare da un programma che renda adatti alla macchina. L'emancipazione si ottiene a questo prezzo. Del resto, precisa la pubblicità, l'uso solitario non è il solo possibile. È un aiuto anche per la coppia regolare: il marito può manipolare i joystick con più successo di quegli acchiappa-peluche che si trovano nelle fiere, e la donna, in qualche modo rodata dall'apparecchio, impara a essere più sensibile a suo marito… sempre che il marito non preferisca l'altra macchina inventata da Dave L. Lampert: la Venus-for-men, equivalente del Sybian per l'uomo, che, secondo il fabbricante, «feels better than the real thing».
Di questi arnesi, ci si può preoccupare, scandalizzarsi o ridere. Ma è probabile che, loro malgrado, essi rendano servizio alla verità. Non si può infatti non pensare alla famosa Pleasure Machine presentata dal filosofo americano Robert Nozick nel 1974 come un'ipotesi di lavoro: «Supponete che esista una macchina in grado di farvi vivere qualunque esperienza voi desideriate. Alcuni grandissimi neuropsichiatri possono stimolare il vostro cervello e farvi credere che state scrivendo un grande romanzo, o coltivando un'amicizia, o leggendo un bel libro. Per tutto il tempo voi stareste fluttuando in una vasca, con la testa piena di elettrodi. Che fareste? Vi attacchereste a una macchina del genere per quanto vi rimane da vivere, programmando in anticipo le esperienze della vostra vita?».
Questo apparecchio immaginario corrisponde a un autentico esperimento concettuale. Nozick se ne serviva per confutare l'edonismo. Di fronte a questa possibilità, secondo lui, a meno di rinunciare alla nostra umanità, preferiremo sempre la realtà, anche se in gran parte sgradevole, a uno stato di piacere permanente nell'illusione totale.
Dove conduce infine il Sybian? Alla realtà. Relativizza l'orgasmo. Umilia il Priapo che si crede virile perché fa godere, quando non è che un piccolo giocatore vicino alla macchina. Rivela soprattutto che il godimento non è l'essenziale dell'abbraccio coniugale. Le macchine potranno dispensarci tutti gli orgasmi possibili, ma non ci daranno mai la tenerezza e il mistero della vita comune. E, in questa vita comune, non è l'emancipazione che uno cerca, quell'emancipazione così individuale che non fa altro che consegnarci meglio al dominio degli oggetti. È al contrario il legame indissolubile all'altro, l'alleanza feconda che reinventa l'avvenire.